“La vedete questa penna? Grazie a lei, vi tengo tutti in mio potere e posso decidere i voti a mio piacimento“. Risuonavano con un eco sinistro le parole della prof. Parisi, insegnante di Educazione fisica del sottoscritto ai tempi del liceo. Il potere di quella penna fu implacabile: infortunato alla caviglia in palestra e out per diverse settimane, mi ritrovai con l’unica insufficienza della mia carriera scolastica. Già, il potere della penna. Ai tempi di Brera, pagellista Catone per antonomasia, avremmo parlato di “potere della macchina da scrivere”. Adesso le pagelle vengono redatte pigiando i tasti di una tastiera, un tablet o addirittura uno smartphone.
Se le pagelle di Brera, seppur talvolta non condivisibili (si veda l’eccessiva severità nei confronti di Riva o di Rivera, da lui ribattezzato Abatino) erano una gioia per gli occhi dei lettori, quelle attuali lasciano spesso di stucco. I pagellisti non abbracciano il contesto tantomeno la complessità. I criteri sono preconfezionati, freddi, robotici, quasi vigesse una sorta di listino prezzi. Del libro Un pallone tra le stelle di Filippo Galli e Ludovico Jacopo Cipriani mi ha colpito una moltitudine di passi. Senza indulgere in spoiler degni di cronaca serale, mi soffermo brevemente sul capitolo in cui la compagine del protagonista si trova a fronteggiare un centravanti dalla stazza bovina e dalla ferocia sottoporta in area piccola. Qual è l’antidoto contro simili belve d’area? Il sapiente mister, più filosofo che allenatore, offre ai suoi discepoli un precetto tanto elementare quanto aureo: troncargli i rifornimenti, avvelenargli le fonti, far sì che il pallone, anziché giungergli come nettare, gli arrivi come fango.
Eppure non tutte le squadre riescono nell’alchimia difensiva: e qui casca l’asino, anzi, il pagellista medio, che ignora il contesto. Prendete un corazziere d’area alla Haaland o alla vecchia maniera di un Lukaku, un Dzeko o, perché no, un Jancker: se il loro collettivo li nutre con sapienza, costoro fanno faville, tra gol e assist come fossero ciliegie. E piovono voti d’otto con la disinvoltura di una grandinata estiva. Ma quando il medesimo centravantone si barcamena tra palloni sporchi e fendenti in solitaria, come un leone costretto alla dieta, e tocca sì e no venti sfere indigeste, allora ecco che il pagellista gli rifila un cinque secco, senza pietà né onore.
La nuova frontiera delle valutazioni calcistiche, si sa, parla in codice binario. Portali come Squawka o Sofascore cercano di restituire il gioco attraverso cifre, percentuali o heatmap. Ma, nel farlo sembrano dimenticare, che il calcio, quello vero, vive anche – e soprattutto – negli spazi vuoti, nei movimenti senza palla, nei veli intelligenti, nelle finte che non finiscono nei taccuini, nei passaggi riusciti a metà. Azioni che sfuggono all’occhio della macchina perché non hanno peso nei dati, ma che possono cambiare l’equilibrio di una partita.
È il rovescio della medaglia di un sistema di valutazione che, da una parte, si affida a questi strumenti digitali che parlano la lingua dei numeri, e dall’altra si affida ancora, ostinatamente, ai famigerati pagellisti. Personaggi spesso più presi dal colore del titolo che dalla partita in sé, immersi in una routine stanca, che li porta a distribuire voti con l’automatismo di chi ha già deciso prima ancora che il novantesimo sia fischiato. Colti, forse, da una forma di torpore cognitivo mentre la partita scorre sotto i loro occhi: perché seguire davvero una partita, nei dettagli più minuti, è un lavoro faticoso. Richiede attenzione, umiltà, e soprattutto tempo. E il tempo, oggi, è un lusso.
Poi c’è il paradosso dei premi ufficiali. Come il Man of the Match scelto dalla Lega Serie A, quando mancano ancora dieci minuti al termine. Dieci minuti in cui tutto può succedere: un errore clamoroso di uno dei prescelti, un gol decisivo di chi non è neppure in lista. Ma la macchina delle comunicazioni è veloce, ha bisogno del titolo, della grafica da postare, e allora si va avanti così, ignorando l’imprevedibilità del calcio. Che è poi la sua essenza più vera.
E infine, c’è un aspetto che troppo spesso viene ignorato: il contesto. La forma fisica di un calciatore, il momento della squadra, il valore dell’avversario. C’è chi viene premiato per una prestazione da compitino ben riuscito in un match in discesa, e chi invece viene penalizzato pur avendo lottato da solo contro il mondo, stritolato tra le maglie di una difesa organizzata. È un’ingiustizia silenziosa, che passa inosservata nei tabellini, ma pesa nei giudizi.
La verità è che tanto le pagelle tradizionali quanto le valutazioni numeriche dei portali soffrono dello stesso male: l’incapacità di cogliere la complessità del gioco. Una complessità fatta di momenti invisibili, di slanci individuali, di spirito di sacrificio. E allora, forse, il vero giudizio sul campo resta ancora una questione da affidare all’occhio umano. Ma non a un occhio distratto: piuttosto, a uno sguardo paziente, partecipe, profondo. Uno sguardo che il calcio, quello vero, si è guadagnato sul campo.

BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.