“Illusione e disillusione”
Immaginate una classe scolastica, della scuola dell’infanzia o della scuola dell’obbligo, con alunni tra loro uniti da amicizia, vicinanza, complicità e voglia di giocare insieme.
E immaginate che i genitori di questi alunni non intrattengano buoni rapporti tra loro e si guardino con circospezione, antipatia e sospetto.
A chi possono rivolgersi i loro figli per mantenere unita la voglia di giocare insieme? Chi può ergersi quale loro riferimento per far si che le tensioni tra i genitori non si addentrino all’interno della classe? Semplice. La maestra o il maestro.
Nella storia che affrontiamo la classe è formata da un gruppo di giocatori nel vero senso della parola. Amano, cioè, il gioco, il gioco del calcio! Ed hanno una gran voglia di mostrare al mondo quanto siano bravi a giocarlo. Colui che li tiene riparati da quanto sta succedendo all’esterno è il loro allenatore che funge da collante, riferimento e faro.
Si potrà obiettare che è naturale sia così considerata l’importanza del “mister” nelle squadre calcistiche. Ma poiché stiamo parlando della nazionale jugoslava non è così scontato che il tecnico assuma importanza.
Quanti calciatori slavi si ricordano nel tempo? Moltissimi..
Quanti allenatori slavi sono passati alla storia? Pochissimi.
Milutinovic, meraviglioso zingaro giramondo, a cui si devono massime rimaste impresse nel tempo, capace di partecipare a cinque edizioni del mondiale con cinque nazionali diverse.
“Prima del Mondiale 2002 entrai in una Chiesa per parlare con Dio.
Mi ha chiesto: Cosa Vuoi, Bora?
E ho risposto: segnare al mondiale lo stesso numero di reti della Francia.
Dio mantenne la parola perché in quell’edizione la Francia non segnò nessuna rete.
Io, però, mi riferivo alla Francia 1998.”
(Così Bora Milutinovic in riferimento al Mondiale 2002 in cui allenava la Cina)
E poi Boskov, divenuto mitologico per via di alcune battute sparse qua e là durante gli anni passati in Spagna ed in Italia, comunque conditi da successi di prim’ordine.
Per il resto se ne ricordano veramente pochi, se non Milan Miljanic grandissimo tecnico dal palmares dorato.
Secondo Sergio Tavcar, intellettuale e sportivo tra i più nobili e credibili ad est di Trieste, uno dei motivi per cui i cestisti jugoslavi hanno vinto spesso e i calciatori molto raramente è dato dal fatto che i primi, a differenza dei secondi, hanno sempre potuto contare su grandi coach.
A questa regola pare non far difetto nemmeno la nazionale slava che si appresta a partecipare al campionato del mondo del 1990 considerato come il commissario tecnico, Ivica Osim, non goda di un palmares di prim’ordine. I motivi di interesse, in seno alla selezione balcanica, sono altri e sono principalmente rivolti alle capacità balistiche dei protagonisti più noti.
Osim ha condotto i suoi alla qualificazione “passeggiando” in un girone in cui le avversarie Scozia, Francia e Norvegia non hanno mai posto in discussione l’esito finale.
A novembre 1989 la Jugoslavia guarda con fiducia al mondiale che si terrà da lì a qualche mese in Italia. C’è un gruppo di calciatori, di età ancora giovane e meno giovane, che avrà occasione di mostrare il proprio valore.
Poi, si sa, chi abita sull’altra sponda dell’Adriatico è sempre contento di passare del tempo nel nostro paese il che significa che la nazionale dei plavi (blu) potrà contare su un ampio numero di sostenitori.
Durante i mesi invernali e, soprattutto, primaverili, cominciano però ad arrivare spiragli di un’atmosfera non propriamente tranquilla. A dieci anni dalla morte del colonnello Tito, il paese si trova a far i conti con gli effetti di un recessione economica senza precedenti, che provoca palesi malumori all’interno dei quali le rivendicazioni indipendentiste delle singole etnie trovano gioco facile nell’incendiare gli animi all’interno delle numerose enclavi serbe nelle regioni croate, bosniache e kosovare. Il nazionalismo intriso al potere centrale di Belgrado si scontra con il nazionalismo indipendentista. Alcuni leader politici dal passato socialista si scoprono improvvisamente devoti ad ideali sino a pochi anni prima misconosciuti.
Come se non bastasse, a due settimane dall’inizio della coppa del mondo, lo stadio Maksimir di Zagabria è teatro di cruenti scontri tra tifosi della Dinamo e la Polizia Federale (che risponde al comando di Belgrado) dopo che, a detta dei primi, questa non si era mossa per impedire che i supporter della Stella Rossa mettessero a ferro e fuoco l’impianto zagabrino e i suoi dintorni.
Pur in un clima di tensione crescente e di escalation di violenza, nessuno può immaginare che da lì a due anni gli stessi supporter della Stella diverranno la parte preponderante delle milizie paramilitari tristemente note con l’appellativo di “tigri di Arkan”.
Il 23 maggio 1990, giornata degli scontri, è la data per molti coincide con l’inizio della guerra civile in Jugoslava, anticipazione delle tre guerre che devasteranno il paese negli anni successivi.
E’ evidente come gli scontri di Zagabria non possano essere derubricati alla voce “tafferugli tra tifosi” ma rappresentino l’inizio della resa dei conti tra i propositi indipendentisti croati ed il potere centrale di Belgrado.
In questo clima, tutt’altro che rassicurante, la nazionale si ritrova per preparare il campionato del mondo. L’intuizione di Osim è quella di proteggere il gruppo da tutto ciò che accade al proprio esterno. Sa perfettamente che la stampa al seguito della squadra farà di tutto per “tirare dentro” i giocatori nelle faccende socio-politiche. Il gruppo è composto da serbi, croati, bosniaci kosovari e montenegrini. L’armonia non sarà semplice da mantenere. Far giocare uno di loro al posto di un altro significa preferire un’etnia ad un altra e attirarsi le critiche dei giornalisti originari della zona dell’escluso di turno.
“Bisognava star attenti al nome, alla religione,
al club di provenienza,
alla regione e al paese da cui proveniva un giocatore.
Tutto era politica.
E, soprattutto, la nazionale era politica”
(Ivica Osim)
Osim, tuttavia, compirà un vero e proprio capolavoro, lasciando le divisioni e l’odio al di là dell’Adriatico, trasferendo in Italia solo il calcio e le sue emozioni.
Anche i sostenitori slavi faranno lo stesso, con il paradosso che persone abituate a non parlarsi (quando va bene) nel loro paese, una volta in Italia, si ritroveranno fianco a fianco nello sostenere la nazionale.
Scordatevi però l’immagine di un quadro idilliaco ove tutti rinuncino a qualcosa per il bene comune.
L’equilibrio, per quanto instabile, sarà mantenuto grazie all’opera di mediazione del selezionatore che non disdegnerà di inimicarsi l’opinione pubblica pur di non veder inquinato il gruppo dagli spifferi secessionisti esterni. La stampa slava, soprattutto quella vicina agli indipendentisti, lo ricambierà montando una delle più assurde campagne di diffamazione mai viste e, una volta che i risultati sul campo saranno positivi, a venire diffamato non sarà più l’allenatore bensì l’uomo a cui verrà pubblicamente dato dell’alcolizzato.
Se fuori dal campo l’obiettivo è quello di creare una stabilità di gruppo, all’interno del terreno di gioco non si può dire sia così.
La nazionale jugoslava non brilla per equilibrio tattico.
Nel 1990 è in atto una trasformazione del calcio che, sulla scorta delle gesta del Milan allenato da Arrigo Sacchi, pone l’organizzazione di gioco al vertice della scala dei valori da perseguire.
Le idee di Sacchi, rivoluzionarie per il calcio italiano, cominciano a far tendenza anche all’estero. Per gli amanti della modulistica, il riferimento è il sistema di gioco 1442 anche se, lo spettacolare Milan del primo anno sacchiano non solo ha tollerato il talento ma, nel caso di Roberto Donadoni, lo ha pure esaltato ritagliandogli una funzione di assoluta centralità.
Il primo effetto di questa nouvelle vague del football è la sparizione delle cosidette mezze ali che impostano e/o rifiniscono il gioco.
A farne le spese in Italia sarà Giuseppe Giannini, titolare inamovibile nell’Italia di Vicini, che mai verrà convocato da Sacchi e che, per riciclarsi nella seconda parte di carriera, arretrerà di venti metri il suo raggio d’azione.
La Jugoslavia non cede a questa tentazione e, non solo mantiene inalterato il ruolo della mezzala tradizionale, ma alla vigilia del mondiale del 1990 è in procinto di schierarne addirittura due che, una volta approdate nei campionati più evoluti (ove per l’appunto la mezzala risulta in disuso), verranno impiegate da trequartista tanta è la classe che trasuda dai loro piedi.
La prima si chiama Dragan Stojkovic, detto “Pixie”. E’ serbo e gioca nella Stella Rossa. Non fa mai nulla che non abbia un valore estetico. Detesta la banalità; tra una giocata semplice e una complicata preferisce di gran lunga la seconda e ne ha ben donde perché spesso gli riesce. Abilissimo nel giocare il “filtrante”, si diverte a nascondere il pallone agli avversari. Quando la palla staziona sui suoi piedi pare che l’azione stia per assopirsi sin tanto che le imprime accelerazioni impensabili. Vede il gioco come un regista, dribbla come un’ala, rifinisce come un trequarti. La sua rete alla Spagna risulterà per molti la più bella del mondiale.
“Chiunque altro al posto mio avrebbe tirato subito.
Io no.
Ho preferito stoppare la palla,
mettere a sedere l’avversario e depositarla in rete.
Ho sempre messo l’estetica al di sopra di tutto”
(Dragan Stojkovic nel suo racconto del primo goal di Jugoslavia-Spagna 2.-1)
La seconda, giovanissima, risponde al nome di Zvonimir Boban. Falcata elegante e testa alta, si muove con l’armonia del predestinato e la sapienza del veterano. A 21 anni è già capitano della Dinamo Zagabria. Gioca con ambo i piedi e prima di riceve palla sa già cosa fare. Rispetto a Stojkovic è meno abile sullo stretto ma ha un raggio d’azione più ampio.
In ogni altra squadra dei primi anni 90 due così giocherebbero trequartisti e, soprattutto, faticherebbero a convivere.
Nella “Jugo”, no.
Sono destinati a giocare insieme
.
Purtroppo, però, il mondiale del 1990 non se li potrà godere entrambi in quanto Boban, durante gli scontri di Zagabria, è stato coinvolto in una colluttazione con un poliziotto mentre difendeva la sua gente. I nove mesi di squalifica che ne sono succeduti hanno rappresentato per lui l’epitaffio della coppa del mondo.
Poco male. Di giocatori di classe e fantasia gli slavi ne hanno in abbondanza. Safet Susic, ad esempio. Una carriera trascorsa tra Sarajevo e Parigi a dipingere calcio, dominando in mezzo al campo. Altro esempio di mezzala che non vuole arrendersi ai cambiamenti tattici. Di età non più giovanissima, a 35 anni gli difetta il dinamismo ma, si sa, nella testa degli artisti (anche del pallone) l’aspetto pratico non è il pensiero dominante.
Sarà lui il riferimento in mezzo al campo. Da lui si andrà nei momenti di difficoltà. La malizia non gli manca, la capacità di vedere il gioco ancora meno.
Schierare due giocatori così tecnici in mezzo al campo può rappresentare un azzardo. Ma com’è che in un calcio in cui si comincia a discutere se vi sia posto per il fantasista gli slavi ne schierano addirittura due?
No, signori!
Ne schierano quattro.
Perché al serbo Stojkovic e al bosniaco Susic, si uniscono alla festa il croato Prosinecki ed il montenegrino Savicevic.
Il primo, per essere un calciatore balcanico degli anni 80-90, porta con sé un aspetto di atipicità considerato come alla tecnica sopraffina unisca una capacità aerobica di prim’ordine. Non ha paura di nulla, è sfacciato e, con meno infortuni in carriera, avrebbe insediato il podio dei più quotati calciatori box to box.
Il montenegrino è molto più umorale. Ha un solo piede ma quando decide di giocare (il che per fortuna degli avversari non avviene sempre) non lo si prende. Ha uno stile tutto suo, Più che correre sembra saltellare, dondolando in avanti, in una danza continua. L’aria da perenne sbadato non gli impedisce di risultare geniale palla al piede. Possiede la capacità di indirizzare le partite con poche giocate. Avessero istituto una competizione per stabilire quale giocatore abbia vinto più rimpalli in carriera ne sarebbe risultato trionfatore assoluto.
Dejan Savicevic, “Il Genio”
E così, con quattro numeri dieci in campo, la Jugoslavia si gioca l’avventura mondiale. (…)
Osim, come dedotto, ha come unico obiettivo quello di proteggere il gruppo. L’atmosfera si fa subito rovente e l’esordio con sconfitta 4-1 al cospetto della Germania non fa altro che accrescere le tensioni tra lui e i giornalisti al seguito.
Il clima nelle conferenze stampa è irrespirabile ma in ritiro l’equilibrio tiene.
E piano piano le cose si sistemano in campo.
Non che la squadra mostri un collettivo mirabile, anzi. La fase difensiva è abbastanza improvvisata. L’organizzazione non è la cosa che salta agli occhi ma, non appena gli artisti entrano in possesso palla, allora è sinfonia. Il caldo torrido del giugno italiano rende i ritmi più bassi e, su ritmi bassi, gli jugoslavi portano le partite dove piace a loro, ovvero sul piano della tecnica.
Una vittoria tira l’altra.
E le vittorie aumentano l’autostima. La possibilità di arrivare ad un risultato importante allontana i pensieri per ciò che sta accadendo in patria.
Osim, che da giocatore è stato soprannominato Strauss perché nel saltare l’uomo pareva ballasse un valzer, vuole godersi quest’ultimo ballo sino in fondo e, anche se il tabellone dagli ottavi in poi prevede confronti con squadre accreditate per la vittoria finale, la Jugoslavia degli artisti sa di avere finalmente la grande chance.
Oltre che Strauss, il CT è stato soprannominato da giovane pure “il matematico”. Brillava talmente tanto nella disciplina dei numeri che all’esame di maturità al liceo venne esonerato dalla prova per manifesta “superiorità”. Iscrittosi alla facoltà di matematica, al primo esame prese 10, l’equivalente del nostro trenta e lode. Trasferito questo talento sul prato verde, l’appellativo di “matematico” gli rimase impresso per la razionalità dei passaggi e degli assist con cui era solito servire i compagni. (2^ PARTE)
2 risposte
NESSUN RISULTATO DEL 23 MAGGIO 1990 OSSERVATI DA LECCE IO ERO A BARI L’ITALIA A VINTO HO A PERSO CON CHI GIOCO LA FORMAZIONE ITALIANA E POI LA DELUSIONE
Ok