“Illusione e disillusione”
Tutto avrebbe pensato eccetto il dover star attento ai numeri (che tanto amava) nella composizione della formazione della sua squadra. Un serbo in più in campo avrebbe rappresentato un bosniaco in meno. Un croato avrebbe tolto posto ad un montenegrino e via dicendo.
Non lo ammetterà mai ma a quei numeri è stato molto attento. In tutte le formazioni schierate c’è sempre stata una completa rappresentanza delle etnie, tranne in un caso su cui, nostro malgrado, torneremo di qui a poco.
Era convinto di affrontare l’avventura italiana portando con sé ventidue calciatori jugoslavi; in realtà, sta allenando otto croati, sei bosniaci, tre serbi, due montenegrini, due macedoni, uno sloveno.
Alla magia del football, per un mese almeno, riesce l’ennesimo miracolo.
L’equilibrio in seno alla comitiva regge.
I quattro numero dieci citati sono effettivamente dei grandissimi interpreti ma ci vuole anche chi la metta dentro. L’esperto Vujovic ed il giovane Pancev sono lì per questo. In una ruota di alternanze e sostituzioni, dettate anche da motivi geopolitci, i sei giocatori offensivi si alterneranno sul campo ma non vi sarà spezzone di gara in cui la Jugoslavia non risulti a trazione anteriore.
Il tutto per la “gioia” dello sloveno Srecko Katanec, equilibratore di centrocampo, sul quale, pur con un ginocchio dolorante, grava il compito di “filtrare” gli attacchi avversari.
E’ lui l’uomo di fatica; è lui che copre le spalle agli artisti; è lui che non può prendersi pause; è lui a dover correre e contrastare in una squadra in cui la fase difensiva risulta indigesta a molti protagonisti.
Lo sport jugoslavo del dopoguerra è l’emblema della collocazione geo-politica del proprio paese, estraneo al blocco atlantico ma non allineato ai paesi componenti il patto di Varsavia.
Ciò comporta che, ad una visione dello sport poco occidentale, che presuppone una stretta correlazione tra i club più prestigiosi e le forze armate, se ne aggiunga una poco incline ai canoni socialisti sovietici. Le squadre jugoslave, ad esempio, sono tra le prime (e molto in anticipo rispetto alle italiane) ad esporre il marchio e la denominazione dello sponsor sulla maglia.
La differenza più marcata rispetto all’idea di sport propria dei paesi ad est del muro di Berlino risiede nel fatto che la pratica sportiva non viene vista come mezzo di propaganda.
Ecco perché gli slavi sono forti negli sport di squadra.
Perché non scontano il sistema in vigore nella DDR o nell’URSS, che mira ad incrementare il numero di medaglie. Nel nuoto, nell’atletica o nella scherma ad un individuo vincente corrisponde una medaglia. Nel calcio, nel basket o nel volley una medaglia corrisponde a dodici o ventidue atleti.
La Jugoslavia è diversa dai paesi comunisti, non le interessa la propaganda sportiva da opporre nelle dinamiche della guerra fredda.
Gli slavi, agli sforzi imposti in acqua, in pista o sulla pedana, preferiscono il gioco.
Ed è gioco esiste se c’è una palla.
Perché con quella possono esprimere il talento, con quella possono determinare con una “giocata”. Come posso essere artista o giocoliere se il mio scopo è solo nuotare più in fretta, saltare più in lungo o correre più veloce?
Ma se il talento dei cestisti, nelle mani dei più grandi allenatori del continente, ha portato titoli e trionfi, quello dei calciatori vive da quarant’anni un saliscendi fatto di illusione e disillusione.
Prendiamo il campionato europeo del 1968, vinto dall’Italia di Valcareggi. La doppia finale tra Italia e Jugoslavia si presta perfettamente a raccontare il calcio del balcani.
Nella prima partita i plavi, con Dragan Dzaijc assoluto mattatore, dominano, nascondono la palla agli avversari, passano in vantaggio e sprecano più di una volta l’occasione del raddoppio. Dopo di che regalano (nel vero senso della parola) un calcio di punizione all’Italia che pareggia con Domenghini approfittando di un buco nella barriera.
I supplementari non sposteranno il risultato dalla parità solo perché Dino Zoff si rivelerà insuperabile.
Non essendo all’epoca prevista la conclusione ai rigori, due giorni dopo si rigioca. L’Italia ne cambia sei, la Jugoslava uno (forzato). Morale della favola: gli Italiani volano, gli slavi, col pensiero all’occasione sprecata due giorni prima, è come se non fossero in campo.
Italia Campione d’Europa e Jugoslavia sconfitta nonostante due autentiche lezioni di calcio impartite all’Inghilterra campione del mondo e ai padroni di casa.
A anche nel 1990 a questa condanna non si scapperà.
Saranno Verona e Firenze le città dell’illusione e della disillusione.
Due città d’arte e non poteva che essere così visto il cast dei protagonisti.
Ma sono anche, rispettivamente, la città di Romeo e Giulietta e la città di Paolo, il cui amore nei confronti di Francesca è narrato nel canto V del Paradiso di Dante.
Storie di amori finiti in tragedia.
E se la fine della Jugoslavia calcistica sarà una disillusione, quella della Jugoslavia paese sarà la più grande tragedia umanitaria accaduta in Europa dalla seconda guerra mondiale ad oggi.
Verona è la sede dell’ottavo di finale tra Jugoslavia e Spagna.
Gli spagnoli stanno scoprendo una generazione di calciatori importanti, che ha in Sanchis, Hierro, Butragueno, Martin Vasquez gli esponenti maggiori, a cui si aggiungono esperti veterani di mille battaglie.
Non arriveranno agli splendori a cui vent’anni dopo giungerà la Spagna del duo Aragones-Del Bosque ma saranno gli apripista del ciclo dorado delle furie rosse.
La partita è sulla carta equilibrata con pronostico leggermente in favore degli iberici allenati da Luis Suarez, un altro che in mezzo al campo sapeva il fatto suo.
L’inizio pare non arridere agli slavi sino a quando entra in scena “lui”.
Dragan Stojkovic ha deciso che quella sarà la “sua” partita.
Si vocifera che i rapporti con Savicevic non siano idilliaci, fatto sta che da quando quest’ultimo ha preso il posto di un inconcludente Pancev la Jugoslavia ha “sparigliato” le carte e i due risultano letteralmente incontenibili.
Sul finire della gara un cross di Vujovic, all’apparenza senza pretese, colpisce un difensore spagnolo. La traiettoria a parabola che ne esce va a morire sul piede di Pixie. La battuta al volo, a pochi metri dalla porta, risulterebbe agevole e porterebbe di sicuro alla rete.
Ma se hai deciso di essere giocoliere a Belgrado non puoi accontentarti di un goal banale.
Il 10 slavo opta, ovviamente, per la scelta ad alto coefficiente estetico. Ferma la palla e, con una finta pedissequa all’elegantissimo controllo, fa sedere a terra Martin Vasquez, prima di attrarre a sé il portiere Zubizzarreta vittima predestinata di un destino a cui non può sfuggire.
Non è un goal. E’ l’acuto di un primo violino.
C’è tutta l’essenza del calcio jugoslavo in quell’insieme di gesti.
C’è tutto ciò che è balcanico.
La tecnica espressa nel controllo di palla..
La fantasia nel disegno della giocata, impressa prima nella mente e poi traslata sul campo.
La tendenza ad irridere l’avversario.
La malsana attitudine a complicare le cose per mero fine edonistico.
E c’è il rischio, elemento imprescindibile in ogni contesto in cui si tende a vivere sul filo del rasoio.
Per la bellezza del gesto tecnico sarebbe cosa giusta, buona e corretta che la partita terminasse con il risultato di 1-0.
Mai sottovalutare, però, l’orgoglio iberico.
E’ proprio Martin Vasquez a creare il panico nell’area slava.
Desideroso di pronto riscatto dopo l’affronto patito, il futuro protagonista del Toro di Mondonico, si prende la ribalta con una giocata da campione e serve a Salinas il più comodo dei palloni da mettere in rete.
Tutto da rifare e supplementari da giocare.
Agli occhi di scrive, quel giorno presente al Bentegodi, non sfugge una scena che si materializza nel breve intervallo tra tempi regolamentari e supplementari. Mentre gli spagnoli sono tutti raccolti in gruppo nel giro di pochi metri, la delegazione slava è sparpagliata per gruppetti tra il campo e la pista d’atletica. Nei dintorni della panchina, le tute, le borracce, le scarpe e i parastinchi di chi è stato sostituito sono sparpagliati a terra in maniera disordinata. Ognuno sta con chi gli pare. Tra Osim e il massaggiatore sembra non vi sia differenza di competenze. L’immagine è quella di un’armata in disarmo, di un qualcosa sul punto di sgretolarsi.
Tornati in campo, tuttavia, la recita riparte e il mattatore si riprende la scena.
Calcio di punizione dal limite. Parabola disegnata in modo imparabile.
2-1, ancora Pixie.
La Jugoslavia è ai quarti.
Affronterà l’Argentina (…)
Maradona fa paura, certo, ma quest’edizione dell’albiceleste non pare all’altezza dei fasti passati..
Mentre lascia Verona con destinazione Firenze la nazionale jugoslava è consapevole che la grande occasione è finalmente arrivata.
Vero è che per approdare alla finalissima dovrebbe, una volta superata l’Argentina, far fuori i padroni di casa ma gli slavi, quando affrontano gli italiani, tirano sempre fuori qualcosa in più.
Li hanno dominati nella prima delle due finali dell’europeo del ’68 e, in occasione del girone di qualificazioni al mondiale dell’ ’82 vinto dagli azzurri, è stata la Jugoslavia a classificarsi prima.
L’occasione è ghiotta. Un grande risultato al mondiale, non necessariamente la vittoria, potrebbe mitigare le divisioni politiche. Riporterebbe gioia (di sicuro) ed armonia (forse) in un contesto pieno di tensioni.
Non sarebbe la prima volta che un successo sportivo previene situazioni di pericolo.
Quest’ipotesi, all’apparenza portatrice di serenità non è ben vista da parte degli indipendentisti. Per loro un exploit slavo sarebbe deleterio poiché risulterebbe complicato, se non impossibile, aumentare la situazione di caos e di disordine in seno ad un paese intento a celebrare un successo.
Sono soprattutto i gruppi nazionalisti sloveni e croati a temere una vittoria sul campo.
A farne le spese è Katanec, l’unico sloveno in gruppo.
Se il talento di Stojkovic, Savicevic, Susic e Prosinecki può essere alternato, lui dev’esserci sempre. E colui che porta equilibrio. E’ la ragione in mezzo all’estro. A lui spetta la fase di interdizione. Senza Katanec, il centrocampo slavo è destinato a soffrire. E poi la sua presenza è fondamentale nelle situazioni di palla inattiva. No, non c’è giocatore più importante di lui.
Osim ne è consapevole ed è per questo che lo ha sempre schierato nonostante le condizioni fisiche non siano buone.
Gli ha chiesto di sacrificarsi per la patria.
Gli ha chiesto di sacrificarsi per la Jugoslavia.
Srecko ancora non lo sa ma tra meno di un anno, quando sarà già campione d’Italia con la Sampdoria, la sua patria sarà un’altra. E, unitamente ai suoi nuovi connazionali, sarà fortunato perché il processo con cui la Slovenia giungerà all’indipendenza sarà tra i meno sanguinosi, ancorché connotato di eventi drammatici.
Alla vigilia della partita viene minacciato e con lui la sua famiglia. Troppo forte comincia ad essere il rischio che a Belgrado possano farsi belli grazie ai risultati della nazionale. Per alcuni gruppi sloveni è inaccettabile che uno di loro possa risultare artefice di un evento in grado di tenere unita la Jugoslavia.
Srecko Katanec non deve giocare. D’ora in poi non dovrà più obbedire al comando di Belgrado.
E non gioca…
La defezione verrà derubricata alla voce assenza per infortunio. La realtà la sanno lui, i suoi familiari ed il CT che, dopo qualche tempo, la renderà pubblica.
I plavi scendono in campo,
E dominano.
Il caldo di Firenze, alla cinque del pomeriggio del 30 giugno, affloscerebbe chiunque.
L’unico che pare non patirlo è Carlos Bilardo, CT argentino, inappuntabile nel suo completo. Inappuntabile e lucido al punto che capisce da subito come l’unica cosa che i suoi possano fare sia difendersi in attesa della giocata di Diego.
Che ovviamente arriva.
E’ da poco passata la mezz’ora di gioco, quando per un fallo nei confronti del “dies”, Sabanadzovic si vede sventolare il giallo per la seconda volta.
Jugo in dieci e addio sogni di gloria? Nemmeno per idea.
Ad essere con l’uomo in meno sembrano gli altri.
E’ un dominio jugoslavo.
Incredibilmente, però, Dejan Savicevic imbeccato da Stojkovic, fallisce due goal che uno come lui solitamente realizza ad occhi chiusi.
L’espressione con cui viene ripreso, mentre i compagni vorrebbero mangiarselo, pare quella di uno che sta giocando una partitella in spiaggia con gli amici.
Un’altra volta supplementari.
Stavolta da giocare con un uomo in meno.
Se con la Spagna era stata partita equilibrata, con l’Argentina è stato un dominio. Ma adesso?
Nei supplementari l’Argentina sembra destinata a pagare il contro con la sorte, aperto quattro anni prima grazie un goal realizzato con la mano all’Inghilterra. Sul finire del secondo supplementare, infatti, Jorge Burruchaga si vede annullare una rete per un fallo di mano del tutto inesistente.
Pericolo scampato, si va ai rigori…
I rigori calciati ai termini dei supplementari rappresentano qualcosa di profondamente diverso rispetto a quelli tirati in partita. In occasione dei tiri dagli undici metri nel post gara, ed in particolare ai campionati del mondo, è capitato di fallire a campioni come Platini, Socrates, Baresi e Baggio solo per citarne alcuni.
In quel 30 giugno 1990 anche Diego Maradona non sfuggirà al crudele destino che vede i più grandi di sempre fallire nell’esecuzione.
Ciò nonostante, l’errore dal dischetto di cui si parlerà per anni non sarà il suo.
L’errore di cui si parlerà sarà quello di Farouk Hadzibegic.
Nello sport, come nella vita, vi sono molti modi per essere riconosciuti leader. C’è chi lo è di natura per lo straripante carisma, chi lo diventa per l’attitudine a determinare, chi per l’esempio che ogni giorno impartisce e chi per la capacità di far cadere le teste dei suoi competitor interni.
Hadzibegic, di professione difensore, è il capitano della nazionale. Un leader di poche parole, il cui verbo, tuttavia, viene ascoltato e recepito. E’ un pretoriano di Osim, bosniaco come lui. Uno di cui ci si fida, che detta la strada da seguire con i comportamenti.
Non è istrionico come Stojkovic, né carismatico come Susic ma svolge al meglio il suo ruolo di capitano.
La personalità, ad ogni modo, non gli fa difetto se è vero, come è vero, che in seno ad una squadra di artisti spetta a lui il ruolo di rigorista designato.
Sportivamente parlando, Firenze dev’essergli indigesta perché durante la stagione che porta al mondiale, il Sochaux, club francese in cui milita con il connazionale Hadzibegic, è stato eliminato dalla Coppa Uefa per mano della Fiorentina di Bruno Giorgi, peraltro costretta a giocare le gare in casa a Perugia a causa dei lavori di sistemazione dello stadio Franchi.
Gioca in Francia da tre anni e vi rimarrà per ulteriori quattro stagioni ospitando parenti, amici e amici di amici quando, negli anni a seguire, l’appellativo di profughi si abbatterà come una scure su tanti suoi connazionali.
Pur a conoscenza di qualche focolaio nella sua terra, non può, o non vuole, credere che la favola slava stia per dissolversi.
E’ cresciuto a Sarajevo, città che negli anni 70 e nei primi anni 80 rappresentava il simbolo dell’effettiva multietnicità. Non quella di facciata dei quartieri chic della capitali occidentali, esibita per fare tendenza nelle riviste ma portatrice di tensione nelle zone meno abbienti. A Sarajevo c’è stato un tempo, lungo, in cui davvero convivevano etnie, religioni, lingue, persino alfabeti diversi.
Se Belgrado e Zagabria sono sempre state viste come le città snodo della Jugoslavia, Sarajevo è il luogo in cui le varie anime si sono fuse in quella che letteralmente si può definire “comunità”.
Un contesto in cui la diversità diventa “comune” a tutti.
Nulla a che vedere con le attuali “community”, in uso odierno ai social, all’interno delle quali trovano legittimità solo soggetti che la pensano allo stesso modo e che talvolta si sostengono a vicenda per denigrare il diverso.
Sarajevo è stata l’essenza della Jugoslavia.
A lui spetterà il quinto rigore e chi tira l’ultimo rigore della serie in un quarto di finale mondiale tranquillo non può essere. Nel suo caso, inoltre, c’è un ulteriore elemento di tensione perché nella gara con la Colombia si è fatto ipnotizzare dall’estroso portiere Higuita che gli ha respinto il tiro dagli undici metri.
Se segna, si va ad oltranza. Se sbaglia, la Jugoslavia saluterà il mondiale.
Il suo errore determinerà l’inizio della fine del calcio slavo. Da lì in poi, sarà dissoluzione.
Il gruppo si scioglierà seguendo la cronologia degli eventi bellici.
Gli sloveni erano già stati “invitati” ad andarsene.
Poi toccherà ai croati.
Quel che resta della nazionale slava dispenserà ancora qualche pagina di grande calcio, sufficiente a qualificarla agli Europei del 1992 che, detto per inciso, la vedrebbero tra le favorite considerato che altri grandi talenti come Mihajlovic, Jugovic e Mijatovic si stanno affacciando al calcio che conta.
Ma a poche settimane da un campionato europeo da cui verrà esclusa, (ufficialmente per una decisione in adesione ad una risoluzione dell’ONU) Farouk Hadzibegic dice basta.
Il capitano si chiama fuori.
Era il capitano della Jugoslavia e adesso la Jugoslavia non c’è più.
Promette ai suoi compagni che continuerà a seguirli, ad incitarli e li va pure a trovare mentre preparano l’Europeo (che non giocheranno) perché si sente ancora capitano.
Ma con Sarajevo assediata il suo posto non può più essere in campo.
Di li a poco, farà lo stesso anche Osim che, rientrando in patria dopo il mondiale italiano, aveva pronosticato la Jugoslavia vincitrice dell’Europeo 1992.
Abbandonerà la nazionale per dovere morale in favore di Sarajevo assediata nonostante poche settimane prima abbia vinto la Coppa di Jugoslava sulla panchina del Partizan di Belgrado e sia stato portato in trionfo dalla gente serba.
Con l’errore dal dischetto di Hadzibegic si è spento il sogno jugoslavo. Basta un attimo per passare dai sogni agli incubi.. Un po’ come il passaggio tra illusione e disillusione.
Accadrà lo stesso qualche settimana dopo a Buenos Aires.
La Jugoslavia dei canestri, quella che a differenza dei pallonari è abituata a vincere, si appresta a festeggiare al termine del campionato del mondo in cui ha scherzato contro tutte le avversarie, demolendo tra le altre URSS e USA, quando un ragazzo si avvicina al podio tenendo in mano una bandiera slava su cui è apposto il simbolo croato.
Vlade Divac, serbo, nonché leader del gruppo insieme al croato ed amico del cuore Drazen Petrovic, gli prende la bandiera e la getta a terra perché vuole celebrare la vittoria sportiva senza rimostranze politiche dell’una o dell’altra parte.
Il gesto non passa inosservato a Zagabria. Drazen e Vlade non saranno più amici sino a quando Divac non si riconcilierà con la famiglia di Petrovic, nel frattempo tragicamente scomparso.
Ma questa è un’altra storia.
O forse no.
Nota dell’autore
Questo piccolo omaggio al calcio balcanico è dedicato a Diego, Brunello, Luca, Mario e Francesco, compagni di visione sugli spalti dello stadio “Bentegodi” di Verona in occasione dell’ultima grande recita della nazionale degli artisti. Durante quell’ “estate italiana” non eravamo consapevoli di ciò che al di là dell’Adriatico sarebbe accaduto. Essere testimoni di una cosa ultima permette di conservare il ricordo nella maniera migliore.
6 risposte
Pezzo meraviglioso. Perfetto oserei dire. C’è tutto. Storia e cultura perché questo è il calcio.
Grazie Nino,
in realtà siamo lontani dalla perfezione. La passione di sicuro ce la mettiamo. Il calcio balcanico è qualcosa di particolarmente specifico e, come tale, insidioso ma, se analizzato in profondità, in grado di fornire spunti interesanti. Lo stesso dicasi per l’ex Jugoslavia.
Avremo modo di riprendere l’argomento.
Alessio
Bel pezzo intriso di calcio e cultura!!!!
Grazie Matteo.
Gran bel pezzo, congratulazioni!
Ciao Antonio,grazie da parte di Alessio e mia!