Ma è sempre così?
Mai come negli ultimi tempi impazza nel nostro paese il tema relativo al “merito” e/o alla “meritocrazia”, tanto da indurre le istituzioni governative a modificare nomenclature di dicasteri e titoli dei bandi di pubblici concorsi.
Nello sport il dibattito sul “merito” esiste da sempre considerato come il risultato finale di una competizione non sempre sia coerente rispetto a quanto si è visto in campo. Molteplici sono le occasioni in cui un atleta, un tecnico o anche un simpatizzante si trova ad affermare: “non meritavamo di perdere” o “per come abbiamo giocato meritavamo di vincere”.
Nell’accezione positiva del termine il soggetto meritevole è colui che, grazie alle sue capacità ed al suo operato, si pone nella condizione di godere di una gratificazione superiore (lode) rispetto a chi non ha dimostrato la medesima attitudine.
In occasione di una competizione agonistica, come premesso, non sempre è così. Lo sport non fa parte di quei contesti in cui ad una performance importante coincide per forza di cose un risultato proporzionale. Ogni disciplina sportiva porta con sé delle peculiarità tali da rendere non sempre agevole, se non impossibile, la messa in pratica di un’equazione secondo cui al merito corrisponda il giusto riconoscimento.
Pensiamo, ad esempio, alle competizioni in cui l’atleta è sottoposto alla valutazione di una giuria (tuffi, ginnastica, boxe) con l’esito della contesa che dipende dalla soggettività del giudizio di coloro che sono chiamati a giudicare.
Diversamente, esistono sport in cui al merito corrisponde quasi sempre un risultato credibile quali, ad esempio, lo sci, l’atletica ed il nuoto. Discipline in seno alle quali, al netto della preferenza per lo stile (o la tecnica) di un atleta piuttosto che di un altro, colui che si dimostra più abile quasi sempre primeggia.
Nel calcio, come in tutte le competizioni agonistiche che si basano sul “gioco”, è naturale imbattersi in alcune variabili in grado di produrre un risultato poco rispettoso di quanto visto sul prato verde.
Il fatto d’essere una disciplina “a punteggio basso” può permettere ad una compagine di “portare a casa” un risultato al termine di una gara in cui ha sviluppato un minor numero d’attacchi rispetto all’undici antagonista, in cui ha calciato meno verso la porta ed in cui si è proposta con minor frequenza nella metà campo avversaria.
La storia del football è piena di partite terminate con un risultato “bugiardo”.
Anche durante l’ultima Champions League, assegnata al termine della stagione 2021-2022, ci sono state compagini che sono state eliminate quando, probabilmente, avrebbero meritato di continuare l’avventura.
Ma quand’è che siamo nella situazione di affermare che una squadra “merita”?
E, soprattutto, come possiamo determinare i casi in cui il risultato al termine di di un match possa definirsi “giusto”?
Il primo punto che dobbiamo considerare è che, nel contesto agonistico, il concetto di meritocrazia dev’essere inteso in modo diverso rispetto ad altri aspetti della vita, proprio in virtù di quella dicotomia tra risultato e merito propria dell’alea che caratterizza l’evento sportivo.
A ciò si aggiunga come il concetto di merito sconti una soggettività, da parte di chi osserva, impossibile da estirpare che si palesa in funzione del gusto di chi assiste all’evento.
Senza dimenticare, da ultimo, l’aspetto della fede calcistica, di cui si nutre la maggior parte degli appassionati, che non può non rappresentare un elemento inquinante in tema di obbiettività
Al netto delle situazioni elencate, il merito non può essere ricondotto ad un’unica condizione di fatto. Si può essere meritevoli perché si gioca bene, perché si è propositivi, perché si è innovativi, perché si lascia qualcosa in dote a chi osserva o si abbevera alla nostra fonte.
D’altro canto, non è insolito imbattersi in appassionati, ma soprattutto opinionisti ed addetti ai lavori, che elogiano una o più squadre in quanto portatrici del merito di “non far giocare gli altri” o di “vincere partite che non meritano” il che, nel calcio, non rappresenta un ossimoro ma un concetto piuttosto diffuso.
Sulla scorta di simili premesse diviene imprescindibile “segnare il territorio” in maniera tale da identificare una serie di situazioni che possano, all’interno della complessità che è insita nel gioco del calcio, indicare la via più virtuosa.
Su quest’aspetto pare essersi “incartato” il dibattito negli ultimi tempi, vittima di una querelle tra “giochisti” e “risultatisti” che non ha senso di esistere. Denominando risultatisti coloro che mirano al risultato, si commette un errore di sistema nei confronti dei cosidetti “giochisti” che vengono presentati come seguaci di un orientamento non intento a cercare la vittoria.
A prescindere dell’insensatezza dei due termini, si è già avuto modo di esternare in questo blog il concetto secondo cui coloro i quali ricercano il bel gioco non tendano a farlo come “fine ultimo” ma come tramite per arrivare alla vittoria. Un calcio propositivo, di possesso (o comunque portato ad una propensione offensiva) viene infatti sviluppato per ottenere il predominio sull’avversario, per determinare i tempi della giocata e per la creazione (o l’occupazione) degli spazi sul campo. Tutte situazioni propedeutiche alla supremazia e quindi portatrici di maggiori probabilità di successo.
Di sicuro anche l’ultima Coppa del Mondo, peraltro caratterizzata dal brevissimo lasso di tempo a disposizione dei commissari tecnici per preparare la competizione, ha dimostrato come in talune occasioni il raggiungimento della vittoria possa avvenire a seguito di processi più pragmatici e più semplici. Ma se di merito si tratta, in questi casi, è qualcosa di più circoscritto, di meno identificabile e, opinione di chi scrive, di minor impatto sull’evoluzione del calcio.
L’ottenimento della vittoria, per quanto importante e vitale per il concetto di competizione, non può essere l’unico aspetto su cui basare le valutazioni meritorie.
L’idea di alcuni addetti ai lavori secondo cui basti mettere in campo i più bravi per vincere poiché ”la differenza la fanno i giocatori in campo” non può essere accettata.
Non tutti sono nella condizione di potersi permettere i più bravi, nelle giornate di scarsa vena dei giocatori più qualitativi, la squadra rischierebbe di naufragare e, infine, perche’ le forze in campo non sono determinate dalla somma delle singole qualita’ dei calciatori ma dalla loro capacita’ di interagire, relazionarsi in termini calcistici.
Sulla scorta di questi postulati, fatti propri da chi si vanta di avere una visione “propositiva”, può essere utile indicare alcuni aspetti, interconnessi tra loro, in seno ai quali individuare la presenza di elementi che, una volta schierati sul terreno di gioco, siano in grado di rendere una squadra “meritevole”.
Il primo di questi è l’aspetto “metodologico”. Storicamente il “metodo” è sempre stato visto in contrapposizione al “merito”, in ossequio ad un’inveterata abitudine di circoscrivere al primo dei due concetti le questioni rituali o procedurali e demandare al secondo il dibattito sostanziale.
La realtà, non solo calcistica, ci insegna altro. Ci insegna, in verità, che il metodo è una componente fondamentale del merito, esattamente come la forma è parte integrante della sostanza e della funzione.
Per proporre un undici portatore di meriti sul prato verde non è possibile prescindere da una forte convinzione di base sulla metodologia da adottare. Questo aspetto rappresenta un’ineliminabile propedeuticità soprattutto nei settori giovanili ove le risorse economiche possono non essere illimitate, se non risultare particolarmente scarse.
Far si che una squadra si alleni con “metodo”, ovvero che i propri calciatori vengano formati secondo principi chiari , permette di lavorare seguendo una direzione coerente, certamente non dogmatica, ma caratterizzata da una serie di passaggi, progettati , ma poi osservati e, se il caso, riprogettati. (formazione dialogica)
Per fare ciò, è necessario che, nella testa di chi la squadra la allena o ne è il responsabile, e sarebbe auspicabile almeno a livello di settore giovanile che fosse condivisa, alberghi un’idea di calcio precisa, da porre in essere seguendo non necessariamente una cronologia prefissata ma creando, per quanto possibile, un elevato numero di situazioni simili a quelle che si è soliti incontrare nel campo da gioco. Di sicuro, così facendo, il passaggio da gruppo a squadra avverrà quasi naturalmente e l’idea di calcio attecchirà nelle menti dei calciatori in modo conoscitivo, e non robotizzato.
Una compagine formatasi in tal senso, a prescindere dalla forza intrinseca e da quella dell’avversario, sarà fortemente indiziata a portare sul terreno di gioco il frutto del proprio lavoro e delle proprie conoscenze. E non si farà abbattere dalla mancata gratificazione di un eventuale risultato negativo perché consapevole della bontà del proprio operato.
Il secondo contesto all’interno del quale ricercare il merito è l’aspetto “concettuale”. I principi calcistici che caratterizzano il modo di stare in campo e di proporre calcio sono estremamente dirimenti allorché si dibatte di merito.
A scanso di equivoci, non si vuole far passare l’idea che una squadra, per meritare la vittoria, debba sempre e comunque prevalere sotto il profilo della manovra. E’ impensabile chiedere ad una compagine di bassa levatura tecnica di dominare la gara al cospetto di un avversario di prim’ordine. Ciò che si vuole sottolineare è che, anche in presenza di oggettive situazioni di inferiorità, una squadra virtuosa è in grado di proporre sul terreno di gioco il frutto delle conoscenze collettive. Conoscenze che non possono limitarsi ad un atteggiamento ostruzionista, dettato dalla speranza di resistere ad oltranza o di “indovinare il colpo di fortuna”. E che, proprio nelle situazioni complesse, possono risultare determinanti per non patire oltremodo la differenza tecnica ed aiutare i calciatori ad ottenere, in quanto collettivo, un esito diverso da quello che risulterebbe scontato comparando il valore dei singoli.
Una squadra è meritevole quando porta qualcosa di costruttivo e di propositivo sul terreno di gioco. Se mi difendo ad oltranza, potrà andarmi bene una volta e, magari, realizzerò un’impresa epica da capitalizzare in un torneo sulla breve durata ma, a lungo andare, non costruirò nulla di importante. I risultati che otterrò, a cui eventualmente darò corso sfruttando l’onda emotiva, non si baseranno su solide fondamenta e saranno, giocoforza, destinati a non durare nel tempo.
Non è raro che squadre, andate avanti nelle competizioni grazie a vittorie ottenute tramite un atteggiamento speculativo, si ritrovino sconfitte all’esito di incontri giocati meglio di quelli che le avevano viste prevalere in precedenza.
E ciò perché… Padre Tempo opera in silenzio….
Un altro aspetto importante in seno al quale si possono individuare tracce di merito è quello “strutturale”. L’espressione calcistica che una squadra esibisce sul terreno di gioco non è solo quella offerta dai calciatori che seguono i dettami del mister. Alla base di tutto c’è sempre il club.
Per proporre un calcio virtuoso la comunione d’intenti è imprescindibile. Tutti devono essere convinti che la metodologia scelta sia quella maggiormente indicata e tutti devono concorrere alla divulgazione dei concetti a cui si è deciso di ispirarsi.
Nel processo formativo del calciatore è sbagliato pensare che costui “debba farsi entrare in testa” le idee dell’allenatore. Sarà la mente del calciatore ad impadronirsi naturalmente dei concetti divulgati del mister in un processo che meno avrà di forzato e più risulterà redditizio.
Da non tralasciare, infine, l’aspetto dell’estetica o della spettacolarità.
Non vi è contesto in cui il bello non piaccia. Anche il più spiccato relativismo non è in grado di togliere valore alla bellezza. E la bellezza raramente rappresenta il risultato di un procedimento semplice. Giocare un calcio piacevole è il risultato di un processo dalle innumerevoli sfacettature.
E’ molto più complesso costruire che distruggere.
Il gioco del calcio non fa eccezione a questa regola.
Una squadra intenta a creare bellezza, o quantomeno a provarci, sarà sempre più meritevole rispetto ad una compagine atta a distruggere, a sfruttare le singole situazioni, a speculare su tutte le variabili presenti in una partita.
Spesso, per giustificare espressioni calcistiche di scarso livello estetico, si afferma che per giocare un calcio propositivo sia necessario poter contare su calciatori di alto livello tecnico.
Chi scrive rifugge dall’idea che possano esistere dei calciatori adatti al gioco propositivo e altri “da catenaccio” o “da gioco all’italiana”. Sicuramente vi sono elementi maggiormente portati al palleggio, altri più portati all’inserimento, altri più forti fisicamente ma la storia del football è piena di esempi di giocatori che hanno modificato il loro stile di gioco sulla scorta degli allenatori che hanno incontrato.
Non è raro, quando si discute del Barcellona di Guardiola, ascoltare opinionisti sentenziare che un determinato tipo di calcio lo potesse giocare perché disponeva di Xavi ed Iniesta. Andrebbe a questi signori ricordato che, quando hanno incontrato Guardiola, i suddetti fenomenali giocatori avevano centinaia di partite da professionisti alle spalle ma non erano mai giunti ai livelli che avrebbero toccato con Pep.
Lo stesso dicasi per la costruzione dal basso che, giova ribadirlo, non rappresenta esercizio di stile ma un mezzo scelto per agevolare le successive fasi di sviluppo, rifinitura e finalizzazione nell’intento di far male all’avversario. Spesso si ascoltano affermazioni secondo cui la costruzione del basso risulterebbe applicabile solo in presenza di fenomeni dalla tecnica cristallina schierati nella linea difensiva.
Nulla di più inveritiero considerato come le prerogative della stessa si basino su postura in fase di ricezione palla, spaziature, capacità di vedere le linee di passaggio e movimenti conseguenti .
Situazioni assimilabili e perfezionabili grazie all’applicazione, all’allenamento e alle esercitazioni anche se il calciatore chiamato in causa non brilla per tecnica sopraffina.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra diverrà naturale rintracciare il merito ogni qualvolta, a prescindere dalla categoria, dal livello e dai palcoscenici, una squadra sarà riconoscibile per i valori e le conoscenze che porterà sul campo. Talvolta riuscirà ad esternarle nel migliore dei modi, in altre occasioni faticherà nell’esprimersi ma lo spirito, la propensione e la tipicità che porterà con sé sapranno andar oltre il risultato.
Il problema, a quel punto, sarà comprendere se anche addetti ai lavori e pubblico riescano a fare altrettanto.
Ma questo è un altro aspetto che presto analizzeremo.
Filippo Galli e Alessio Rui
9 risposte
Spot promozionale personale. Ho partecipato al corso master 2 livello di Economia e management delle organizzazioni sportive. Corso sperimentale di economia e commercio ( la città non importa)) numero chiuso con step di entrata e solo con una precedente laurea. Tesi del master: Società di calcio ad alta intensità di business : essere vincenti le condizioni indispensabili. Una parte è stata dedicata ai bilanci delle società di calcio. Apporto tecnico e noioso. Se hai un bilancio a posto è una nota di merito. Poi possiamo già fare una classifica delle squadre in quel campionato in base all’investimento che le proprietà intendono fare. Se mi colloco al primo posto come investimenti è chiaro che l’unica possibilità è vincere il campionato. Ma i flop sono in agguato. Esempio concreto quando una società di calcio italiana ha vinto innumerevoli scudetti. Non aveva concorrenza. Possibilità di accedere a giocatori migliori ecc ecc. Una società di calcio che investe più di tutti poi vince il campionato non lo reputo edificante. Un anno ha anche rischiati di perdere il campionato da un’altra società che aveva investito cinque volte meno. Più
interessante ai miei occhi è valutare una società calcistica che si colloca a meno di metà classifica e si colloca alla fine campionato per la coppa dei campioni. Ma tale squadra ha solo una possibilità a mio modo di vedere per raggiungere quei risultati. La performance sportiva della domenica. Meglio ancora la performance sportiva vincente della domenica, E dietro una performance sportiva vincente vi è una didattica vincente. Che cosa vi è dietro ad una didattica vincente? Può essere un argomento di riflessione. Però occorre andare nello specifico nella metodologia didattica proposta dallo staff tecnico. Noto che quando chiedo con semplice richiesta di proporre una settimana di allenamento di una squadra di calcio vi è una idiosincrasia alla richiesta. Riornando all ‘esempio Pep Guardiola è chiaro che lui e il suo staff proponevano metodologie didattiche del/sul campo elevata e vincente. Può perdere partite ma in lungo campionato i risultati di merito e propositivi arrivano. Perchè una didattica elevata e vincente è un VALORE aggiunto e di merito. Nella didattica di Mister Guardiola si nota che si è rapportato con le materie di fisiobiologia meccanica neurologiche applicate al calcio. Ovvero ci sono degli aspetti di quelle materie che permettano alla metodologia didattica in modo che il giocatore impari apprenda più propositivo e velocemente possibile? Cero che si !. ” Onore al merito alla didattica metodologica vincente” Proposta dagli staff tecnici in una squadra di calcio.
Ho fatto a suo tempo (periodo 2007-2012) un’analisi di bilancio del campionato di Serie A, non volto, in chiave bancaria a determinare l’affidabilità dell’impresa, ma a vederne l’efficacia dell’azione societaria.
Sotto il profilo bancario, se non ci fossero le fideiussioni dei soci abbienti, credo che l’affidabilità sia prossima allo zero. Anche per le società con i bilanci a posto, grazie alle immissioni dei soci.
In particolare, per evidenziare i meriti societari, mettevo in correlazione i costi operativi con la posizione in classifica, evidenziando quelle società che spendendo meno avevano più successo relativo. Ad esempio, la capacità dell’Udinese di non retrocedere ed anzi di qualificarsi quasi sempre nell’area di sicurezza.
Concordo anche sulla catena di successi grazie a budget giganteschi ed in assenza di concorrenza.
Il fatto è che quella società puntava in modo minore (dovuto per l’organico messo in campo) al campionato italiano, ma aveva di mira la vittoria nella Champions, che avrebbe comportato ulteriori grandi incassi, soprattutto per le sponsorizzazioni internazionali e le vendite dirette internazionali.
Inoltre, essendo il valore di una società di calcio, fortemente legato al suo bacino di utenza internazionale ne aumentava il valore.
Comunque hai messo in campo un ottimo tema e sintesi implicita: “la potenza economica fa vincere i campionati, ma non necessariamente ne deriva merito calcistico”.
Bellissimo!!!!!!! Starei giorni e giorni a parlarne credo che sempre più diventa difficile far capire l’importanza nel credere in un progetto di formazioni nei settori giovanili, perché purtroppo c’è ancora molta ignoranza….. Credo che il percorso fatto in primis con colleghi e società sia stato fantastico ma credo anche fortemente che molti ragazzi oggi non sarebbero quello che sono…. senza aver fatto un percorso di formazione di quel tipo…..sempre pronto e disponibile per qualsiasi confronto Buone feste a tutti!!!!!
Ciao Emanuele,serene feste anche a te e famiglia. Grazie per il commento.Un abbraccio.
Vorrei porre l’accento sulla logica del giocare bene. In particolare, ritengo che non esiste solo un modo di giocare bene (possesso palla e costruzione dal basso), ma il giocare bene è mettere in praticale idee di gioco proposte dall’allenatore nel modo migliore.
Io ero un ammiratore dell’Inter di Herrera, per cui Suarez che prenda palla nei limiti della sua area di rigore e con un lancio lungo calibrato mette la sua punta davanti al portiere, il tutto in meno di mezzo minuto è giocare bene.
Giocare bene significa sfruttare la meglio la chimica tra i vari calciatori, massimizzando lo sfruttamento delle loro caratteristiche migliori e minimizzandone ij difetti.
Il Brasile di Pelè e di Garrincha era uno spettacolo, di funnambolismo e di essenzialità anche nelle azioni corali, che puntavano sempre in velocità verso la rete.
Cosa analoga l’Italia del 1982,con i suoi veloci e virtuosi contro attacchi (nell’occasione si perse il termine contropiede e si usò contrattacco per la partecipazione di più calciatore alla manovra di attacco).
Io non contesto il possesso palla, ma dico che vi sono altri modi di giocare basati sulla massima velocità di avanzamento con verticalizzazioni molto belle da vedere.
O ancora gli slalom di Maradona, Messi e Baggio.
Posso concordare che non veo bellezza nel chiudersi in area con la speranza di non prendere gol. Ma chiudere le azioni avversare all’altezza della propria tre quarti, impedendo le linee di passaggio verso la porta , per me significa bel gioco difensivo.
Comunque, ciò precisato, ho apprezzato e concordo sulla logica di valutazione del “merito” in base ai parametri scelti da te e da Alessio.
Complimenti per il sito che mi è stato segnalato da Alessio Rui.
Buonasera Giuseppe, grazie per il tuo ampio contributo.Io credo che, se vogliamo davvero un cambiamento, ai nostri giovani dovremmo far arrivare il messaggio che nella partita e’ necessario provare ad essere protagonisti del proprio destino cercando di determinare cosa succede in campo.
A presto.
Grazie per la tua chiosa, aggiungo lasciamogli sviluppare i loro istinti almeno fino ai 12 anni, insegniamo subito i principi di gioco, anche se non ingabbiati in uno schema preciso.
Ma soprattutto raggiunti i 16 anni, cominciamo a considerarli (non dico inserirli) in funzione della prima squadra . Ritengo che i 18 anni siano una età giusta per esordire, anche in prima squadra avendone le giuste caratteristiche e qualità.
Ma questo sembra non si faccia più.
Caro Giuseppe,
condivido le Tue osservazioni in merito al “considerare” i giovani calciatori. Sull’età d’esordio, al netto dell’attitudine che può essere sviluppata da alcuni prima a e da altri dopo, dobbiamo tenere conto che la carriera media di un calciatore si è allungata di parecchio nell’ultimo periodo per cui i cosidetti “anziani” occupano molti più posti rispetto ad un tempo. Aggiungiamo pure che l’ampiezza (in taluni casi eccessiva) delle rose in serie A e B non favorisce l’inserimento del giovane nemmeno nelle cosidette situazioni di “emergenza”, che talvolta si palesano in presenza di un numero notevole di indisponibili.
Lo stesso esperimento delle squadre B pare non aver attecchito nelle intenzioni dei nostri club. Forse sarebbe il caso di azzardare una sorta di “club italia” sulla scorta di quanto avvenuto nel volley ma i contratti del calcio sono completamente diversi e non so quanto compatibili con questo tipo di inziiativa.
Ovviamente i contesti da noi segnalati quali portatori di merito possono essere integrati con altri aspettti…
Caro Alessio, anche riagganciandomi a quanto detto da Nesti nel primo intervento, in tema di bilancio, la problematica dei giovani si sposa con quella del bilancio.
Infatti, il raddoppio delle rose in funzione di una eventuale qualificazione europea è qualcosa di assurdo. Non proprio, ma sostanzialmente, si vanno a raddoppiare i costi (in assenza di pari entrate) e si rinuncia a far crescere i propri giovani.
In questo, dovremmo prendere lezioni dai tedeschi, che primeggiano in Europa con i club e con la nazionale (certo non sempre possono vincere), hanno bilanci a posto e lanciano i giovani prestissimo.
Ci sono alcune soluzioni praticabili, come ad esempio il tetto ai salari (non quello individuale ma quello complessivo), oltre a ridurre la rosa a 16-17 elementi extra proprio vivaio.
Ne gioverebbero il bilancio e la programmazione, magari con l’intervento della UE, cambiare per i calciatori della massima serie (o per i professionisti) lo status da “dipendente” a “professionista”, con l’eliminazione del limite di cinque anni, come massimo contrattuale.
In questo modo cadrebbe anche l’enorme potere dei procuratori, non la loro esistenza, poichè non trovo sbagliato la loro professione, ma il potere sproporzionato che oggi hanno.
Auguri di buon anno a tutti.