LA QUALITÀ NEL CALCIO: NON SOLO TECNICA – PARTE 3 DI 3.

In relazione alle decisioni da assumere, o ai tempi di gioco da non perdere, la capacità del singolo non può prescindere da un rapporto di interdipendenza con i compagni e, conseguentemente, con la squadra.

Il che sottende che il calciatore chiamato ad offrire il proprio contributo debba, all’interno del suddetto rapporto, conoscere non solo i movimenti propri della sua funzione ma anche quelli degli altri componenti. Deve, cioè, aver conoscenza di quanto accade, piu’ esattamente, di quanto possa accadere e/o sta per accadere, in tutte le zone di campo.

Anche in quelle di non specifica competenza. E deve conoscere gli eventuali movimenti, le situazioni, le posture, le spaziature proprie della funzione di ogni compagno, compresi quelli chiamati a compiti profondamente diversi dal suo.

Sotto quest’aspetto, a nostro parere, i tecnici di settore giovanile non potranno, negli anni a venire, esimersi dal compiere un ulteriore passo consistente nel far sperimentare ai giovani calciatori tutte le posizioni in campo e tutte le funzioni attribuibili in seno alla squadra.

 Ai calciatori solitamente schierati in attacco, ad esempio, sarà di ausilio essere “posizionati”, di tanto in tanto durante le esercitazioni, nella linea difensiva.

In tal modo potranno, in corso di gara, rapportarsi meglio con compagni adibiti ad altre funzioni perché, avendone sperimentato i movimenti e il posizionamento, saranno agevolati nel riconoscerne in anticipo l’esecuzione dei gesti tecnici con cui dovranno interagire nel corso della gara.

Ragionamento analogo andrà svolto in funzione dei componenti degli altri reparti, in ossequio alla concezione di matrice olandese secondo cui, prima che portieri, difensori, centrocampisti e attaccanti si è calciatori.

Secondo un altro adagio abusato nelle discussioni pallonare, “l’allenatore capace è colui che pone i propri calciatori nella condizione di essere i migliori o di rendere al massimo”.

Posta così, detta affermazione rischia di scontare un problema d’impostazione. Portare i calciatori ad essere i migliori, o a rendere al massimo secondo le singole caratteristiche, può distogliere dall’obiettivo di proporre una squadra meritevole.

Fondamentale, da questo punto di vista, la metodologia seguita dal Club e/o dallo staff tecnico.

La qualità che il singolo offre deve mirare all’accrescimento della qualità di squadra; in caso contrario, non sarà qualità ma, come dedotto, esercizio di stile.

Talvolta, nell’ottica di rendere più virtuoso il progetto di calcio che si intende perseguire, può accadere che ad un elemento venga chiesto un qualcosa di diverso rispetto all’espressione naturale del talento che porta in dote.

Una simile eventualità, da alcuni derubricata alla voce “restrizione della fantasia” ovvero “limitazione del talento”, altro non rappresenta se non un accrescimento della qualità.

Il caso più emblematico è quello del giocatore di classe a cui l’allenatore chiede uno sforzo nella fase di non possesso. Addizionare alla tecnica, o alla capacità balistica, un atteggiamento collaborativo sotto profili “meno nobili”, farà si che costui venga apprezzato maggiormente dal gruppo e, sulla scorta di questo apprezzamento, riceva dai compagni per ciò che dona loro.

Questi ultimi, presa coscienza della generosità del compagno, tenderanno ad impegnarsi ancora di più per permettergli di esibire le sue doti, elevando indirettamente il livello di qualità della squadra tramite una corrispondenza biunivoca senza soluzione di continuità.

Risulta, viceversa, errata l’inveterata abitudine di lasciare ai giocatori maggiormente dotati, in grado di determinare l’esito delle competizioni giovanili, “campo libero” per permettere di sfoggiare la loro bravura e rimpinguare il tabellino personale con numeri e statistiche roboanti.

Una gestione di  questo tipo non porta alcun incremento qualitativo. Né in favore del singolo, che crescendo rischierà di incrociare avversari più forti senza avere le conoscenze per affrontarli.

 Né a vantaggio della squadra che, al netto delle prodezze del giovane fenomeno, non avrà avuto l’opportunità di sviluppare un adeguato e credibile processo di connotazione valoriale.

Alla luce delle considerazioni svolte, l’equazione atta ad identificare il calciatore dai piedi buoni con “il giocatore di qualità” appare riduttiva, quando non del tutto fuorviante.

Se è vero, come è vero, che la conoscenza del sostrato rappresenta da sempre una condizione necessaria per comprendere nel migliore dei modi ciò che si materializza agli occhi di chi guarda, è’ opportuno che, addetti ai lavori, a diverso titolo, e opinionisti, rivedano i parametri della comunicazione onde evitare che il pubblico delle grandi competizioni e i familiari dei giovani calciatori rimangano estranei ai concetti cardine della formazione calcistica.

Filippo Galli e Alessio Rui

6 risposte

  1. “La qualità che il singolo offre deve mirare all’accrescimento della qualità di squadra; in caso contrario, non sarà qualità ma, come dedotto, esercizio di stile.”
    Frase centrale che condivido in pieno, da sposare con quella “Sotto quest’aspetto, a nostro parere, i tecnici di settore giovanile non potranno, negli anni a venire, esimersi dal compiere un ulteriore passo consistente nel far sperimentare ai giovani calciatori tutte le posizioni in campo e tutte le funzioni attribuibili in seno alla squadra.”

    Devo dire che non per tutti i calciatori, ma i tre quartisti e le punte, spesso, in allenamento (periodo 1982-1986), li facevo giocare da difensori o incontristi, soprattutto per far capire loro l’importanza della fase senza palla e, quindi, di doversi preoccupare anche della fase difensiva (ovviamente essendo allenatore naif seguivo l’istinto e non la scienza, potevo dedicare pochissimo tempo al calcio).

    Non cercavo di costruire il “giocatore all’olandese” come si diceva all’epoca, ma cercavo di inculcare loro la mentalità che si gioca in undici ed ognuno deve dare il proprio contributo collettivo, oltre quello personale.

    L’esempio più classico è quello del coro, ove non si deve sentire, al di fuori dell’assolo, la voce del singolo, ma il mix di tutti.

    Il calcio è uguale, l’efficienza e l’efficacia del gioco è legata alla coralità, ma uno dei coristi, al momento opportuno, può fare l’assolo.

    Filippo e Alessio, complimenti, da un poco addetto ai lavori, per questo articolo.

    Per chiudere, sono convinto, parafrasando l’olandesismo, che “si può puntare più che a costruire un giocatore all’olandese, un giocatore di mentalità universale nel contemplare il gioco”

  2. Caro Giuseppe,
    Cià che hai fatto negli anni 80 è pregevole e merita plausi.
    Nel pezzo abbiamo fatto riferimento alla matrice olandese per specificare la circostanza secondo cui prima d’essere portieri, difensori, centrocampsti ed attaccanti si è giocatori ed essere umani e come tali ci si approccia al processo formativo.
    All’interno del blog trovi pubblicato un commento ad Argentina – Paesi Bassi in cui abbiamo toccato l’argomento prendendo a spunto un calciatore (difensore) olandese.
    L’aspetto a cui tengo maggiormente è quello secondo cui il singolo in grado di determinare non viene osteggiato nè limitato dall’essere inserito in un collettivo. Anzi, in ossequio a quella che abbiamo definito “corrispondenza biunivoca”, può risultare esaltato.
    Un caro saluto.
    Alessio

  3. Ciao Filippo, buongiorno Alessio. Sono d’accordo con quanto detto: le qualità tecniche da sole non bastano, assolutamente, ma le abilità tecniche (preferisco chiamarle così) abbinate a delle buone capacità coordinative e ad una buona mobilità articolare (lasciando in disparte le capacità motorie forza, resistenza, velocità) rappresentano a mio avviso una base che ti consente di risolvere una determinata situazione con il minor dispendio energetico fisico e mentale, consentendo di concentrarti su ciò che ti sta attorno per una migliore scelta della giocata da effettuare. Premesso ciò, noi allenatori dobbiamo dare la possibilità a tutti i nostri giovani calciatori di crescere e sviluppare le loro potenzialità, anche fornendo loro degli stimoli e delle spiegazioni per apprendere, attraverso un giusto mix di esercitazioni analitiche e situazionali, in quanto, come a scuola, ogni giocatore ha il proprio metodo di apprendimento: c’è chi di suo guarda una partita di calcio, nota una giocata e prova di sua iniziativa ad imitarla; chi, invece, ha bisogno di dimostrazioni e spiegazioni più dettagliate.
    Anteposto ciò, soffermerei anche l’attenzione sugli obiettivi delle società a livello giovanile: l’obiettivo dovrebbe essere la crescita dei singoli ragazzi, crescita che successivamente deve essere finalizzata alla crescita della squadra, del suo gioco, dove ognuno sia attore partecipe di questo gioco, e non mero esecutore o attore secondario. Ho assistito a incontri di società professioniste, categoria pulcini/esordienti, dove il difensore esterno intercetta una palla e per non rischiare la butta fuori, e il mister che non dice nulla o, peggio, si congratula con lui per aver interrotto l’azione avversaria e non aver rischiato. Cosi facendo, quando cresceranno come personalità, come difesa di palla, come gestione di situazioni delicate i nostri giovani?
    Bisogna dare meno importanza al risultato in termini di vittoria o sconfitta, e questo deve partire dalle società, che purtroppo sono le prime a guardare al risultato.

    1. Ciao Germano, mi permetto di rispondere e poi, se lo vorrà, lo farà anche Alessio.Mi soffermo, in particolare sul tuo passaggio relativo al “giusto mix di esercitazioni analitiche e situazionali” in quanto ognuno ha dei canali di apprendimento specifico. Concordo, ma solo in parte. Credo che il punto sia legato proprio al fatto che non si voglia iniziare mettendo i nostri bambini nella complessità del gioco del calcio: da qui poi deciderò, dopo aver osservato, ascoltato e via dicendo, in che direzione muovermi: resto nella complessità? Semplifico senza destrutturare le esercitazioni? Sono costretto a destrutturarle per aiutare qualche giocatore? Questo, dal mio punto di vista deve essere il ragionamento da fare (chiaramente l’ho sintetizzato). Purtroppo continuiamo a pensare che la complessità non sia affrontabile da subito e continuiamo con i metodi tradizionali. La scrittura purtroppo “chiude” il pensiero. Spero di essere stato sufficientemente chiaro. Grazie ancora per il tuo intervento Germano.Buon Ferragosto.

      1. Ciao Filippo. Soprattutto con i più piccoli, si parte sempre dal gioco: attraverso il gioco il bambino inizia a sperimentare ed apprendere. Fin da quando facevo l’ISEF, si palava di metodologia di insegnamento, e i docenti consigliavano di partire dal globale, per poi passare all’analitico, e tornare al globale. Io ribadisco che un giusto mix sia importante. Logicamente per analitico non intendo ore passate a far muro (come ho fatto io quando ero giovane), ma qualche esercitazione mirata , magari con varianti per mantenere alta l’attenzione, per apprendere o consolidare un gesto. Assisto negli ultimi anni al diffondersi di tecnici che fanno allenamenti personalizzati, basati sulla tecnica individuale, e mi chiedo: perché sempre più tecnici che fanno un lavoro individualizzato sulla tecnica? Vado nello specifico: l’apprendimento di alcune finte nel dribbling, per esempio, vanno a mio avviso insegnate, perché non tutti riescono ad apprenderle ed eseguirle spontaneamente ( il talento magari le apprende guardando in televisione e le esegue senza che nessuno glielo spieghi). Logicamente poi bisogna subito applicarle nel contesto situazionale, non posso esulare da ciò.
        Riporto un semplice esempio della mia esperienza: categoria ultimo anno pulcini, buona società dilettantistica ma famosa anche tra i professionisti. Diversi ragazzi che non sanno fare un piccolo lancio (il classico “scavetto” per superare una linea avversaria): spiegato ed eseguito prima in maniera analitica, poi in situazione di gioco, in seguito in partita si sono viste in breve tempo delle applicazioni molto più corrette.
        Il mio pensiero è non demonizzare la tecnica analitica, ma trovare la metodologia per farla apprendere ed applicare in situazione di gioco.
        Filippo, il prossimo anno abbiamo un altro argomento su cui confrontarci…scherzo.
        Grazie ancora per la disponibilità che hai dimostrato verso noi istruttori e verso i ragazzini.
        Buona continuazione d’estate.
        Germano

        1. Ciao Germano, non demonizzo l’analitico, ci mancherebbe, il nostro compito è di capire chi abbiamo di fronte ed in che modo possiamo aiutarlo. L’esempio che fai tu ha valore perchè ha dato fiducia ai bambini o ragazzi dando loro autostima, convincendosi di poterlo fare ma, io resto dell’idea che l’apprendimento reale sia in situazione. Avremo modo di confrontarci magari personalmente. Grazie sempre per il tuo contributo. a presto.
          Filippo

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