“IL NUMERO 10”: LA POESIA DEL CALCIO IN ITALIA, EUROPA, SUDAMERICA E… 2^ PARTE.

Verso la fine degli 80 il football di casa nostra viene travolto da una rivoluzione tattica (ma sarebbe più corretto definirla “strategica”) in ossequio alla quale l’ala tornante, quale elemento di fantasia, tende a scomparire.

Che si propenda per l’1442 o per l’1532, agli esterni spetta un compito caratterizzato da dinamismo e corsa. Contestualmente, la posizione del regista tende ad abbassarsi di qualche metro con l’effetto di scorporare le funzioni di organizzazione e di rifinitura che vengono attribuite a diversi elementi. L’effetto principale è l’estinzione della mezzala di regia.

A quel punto i giocatori di classe, abili nell’ultimo passaggio, sono costretti a riciclarsi in altre posizioni sul campo.

Secondo una visione restrittiva le idee rivoluzionarie del post sacchismo rischiano addirittura di relegarli a “pesi” o a “lussi difficili da sostenere”.

La realtà ci dice altro ovvero che, anche in seno ad un calcio ispirato da principi di gioco collettivo, il giocatore di talento continuerà a risultare determinante. Per esserlo, tuttavia, dovrà integrarsi con meccanismi e movimenti di una squadra che, rispetto al passato, tende a muoversi come un blocco unico.

Nel contesto italiano, il primo numero 10 “fantasista” che incontriamo è Roberto Mancini.

ROBERTO MANCINI

Nonostante il precoce esordio faccia presagire per lui una carriera da attaccante, sin dal suo approdo in blucerchiato dimostra un’attitudine innata nel mandare in goal i compagni. Approfittando del fatto che Bersellini e Boskov rimangono ancorati a principi di calcio non soffocante, delizia i tifosi della Sampdoria con giocate da favola.

Otterrà in alcune stagioni di giocare a ridosso delle due punte ma sarà con un attaccante al proprio fianco che darà il meglio di sé.

Tra i giocatori di fantasia è sicuramente uno dei più razionali tant’è che la ricerca esasperata dell’estetica non risulta mai penalizzante per la squadra. Il colpo di tacco, ovvero uno dei suoi marchi di fabbrica unitamente al tiro al volo, non è esercizio di stile bensì una giocata propedeutica allo smarcamento del compagno.

La corsa sul prato rimarrà indelebile per eleganza. Anche nelle situazioni meno pulite non gli difetterà mai la coordinazione. Avrà modo, nella seconda parte di carriera, di agire da prima punta e da centrocampista centrale. Il rapporto personale con Eriksson lo agevolerà nel non subire le restrizioni di un calcio più organizzato e, nonostante il suo scopo primario sia quello di mandare in goal i compagni, chiuderà con oltre duecento reti all’attivo. Tra i pochissimi vincitori di due scudetti in due città differenti che non siano Milano e Torino, sarà custode per eccellenza della “giocata di prima” e realizzerà diverse reti sugli sviluppi da calcio d’angolo, giovandosi di un tempismo unico nell’attaccare il primo palo.

L’evoluzione di questa tipologia di trequartista si perfeziona con la figura di Francesco Totti. Il Pupone tende a ricordare Mancini per l’attitudine alla giocata di prima oltre che per la capacità di smarcare i compagni quando si trova spalle alla porta. Rispetto a quest’ultimo, tuttavia, risulta più strutturato dal punto di vista fisico e arricchisce il gesto tecnico con maggior potenza.

La visione di gioco è quella di un regista, il modo in cui inquadra la porta quello di un centravanti di razza. E’ in grado di giocar palla sul corto, sul medio e sul lungo. Vivrà stagioni memorabili da prima punta, da seconda punta o da regista offensivo ma non smetterà mai di sottolineare l’importanza dell’esperienza con Zeman, in cui partiva dalla posizione di esterno sinistro, quale momento fondamentale di crescita.

La capacità balistica di prim’ordine farà di lui il secondo miglior marcatore della storia del calcio italiano. Il fatto di prediligere il tiro rasoterra non gli impedirà di gonfiare la rete con conclusioni al volo da posizione defilata o con l’esecuzione a pallonetto ribattezzata  “cucchiaio”. Dall’1352 di Mazzone all’1433 di Zeman all’1442 di Capello e Ranieri, passando per i sistemi fluidi di Spallettiana matrice, è la dimostrazione che il talento e la classe possono integrarsi con qualsiasi concezione e principio.

FRANCESCO TOTTI

Un altro numero 10 di casa nostra, dalla carriera meno nobile ma ugualmente propenso ad offrire assist ai compagni, risponde al nome di Domenico Morfeo.

DOMENICO MORFEO

Meno abile in fase realizzativa e con raggio d’azione più contenuto, risulta geniale nella giocata e più portato al dribbling sullo stretto. Come la gran parte dei mancini tende a lasciare la palla “scoperta” tanto da sembrare voler irridere l’avversario. Lo sguardo è sempre rivolto in alto, la precisione della giocata si somma ad una capacità illimitata di tracciare le linee di passaggio.

La continuità, anche nel corso della singola gara, non è il suo forte ma quando si accende lo fa in maniera unica.  Offre il meglio di sé quando pare assopirsi e d’incanto estrae dal cilindro la magia. Tra tutti i rifinitori (moderni) italiani di piede sinistro è quello con maggior classe in assoluto. Predilige la giocata fronte alla porta. La sua posizione ideale è dietro la prima punta. Emiliano Mondonico e Cesare Prandelli sono gli allenatori che lo hanno maggiormente esaltato.

Diversa rispetto ai summenzionati è la figura di Roberto Baggio. Se in Mancini e Totti, la giocata di prima risalta più di ogni altro gesto tecnico, il Divin Codino ha nel dribbling il proprio marchio di fabbrica. Sa essere letale nell’uno contro uno, sia che lo ponga in essere ai limiti dell’area, sia che parta palla al piede dalla propria trequarti. A vederlo non sembra un mostro di velocità. In realtà è in grado di apportare delle accelerazioni improvvise che lasciano sul posto i difensori.

ROBERTO BAGGIO

E’ il più sudamericano tra i giocatori italiani. Al dribbling efficace aggiunge una freddezza senza eguali in prossimità della porta. Quando calcia per fare goal è una sentenza. Pallone d’oro nel 1993, sarà l’unico giocatore offensivo italiano a determinare in tre edizioni diverse del mondiale. Il trattamento che riserva alla palla è di natura“genitoriale”. Se Mancini pare accarezzarla e Totti addomesticarla, Baggio sembra proteggerla. Tende ad entrare in conflitto con gli allenatori ma, paradossalmente, toccherà l’apice con l’Italia di Sacchi. Maestro nell’esecuzione dei calci piazzati, giocherà per oltre quindici anni in condizione fisiche menomate. E’ probabilmente il numero 10 italiano che più è entrato nel cuore degli appassionati, tutt’ora secondo marcatore di tutti i tempi nella storia della nazionale.

Suo erede alla Juventus, Alessandro Del Piero, ne rappresenta l’evoluzione evidenziando una superiore capacità di adattamento ai vari sistemi di gioco. La maggior mobilità sul campo gli consente, nei primi anni di carriera, di agire da esterno offensivo di sinistra, occupando una zona  che gli permette di affinare il suo proverbiale “tiro a giro” ovvero una conclusione a parabola, scoccata mentre si accentra, indirizzata verso il sette alla sinistra del portiere. I successivi cambiamenti nel sistema di gioco juventino, lo porteranno ad agire da seconda punta sempre prediligendo la zona di centro sinistra. Complice un grave infortunio nel 1998, vedrà ridursi il raggio d’azione ma diverrà il miglior cannoniere del club bianconero senza mai rinunciare a lampi di classe. Maestro nel controllo di palla, ha nel dribbling sviluppato sull’out di sinistra uno dei suoi cavalli di battaglia. Campione del mondo nel 2006, è ad oggi il giocatore più amato dai supporter della Juve.

ALESSANDRO DEL PIERO

Conclusasi l’epoca dei Mancini, dei Baggio, dei Del Piero e da qualche anno di Totti, la presenza del 10 di fantasia è andata via via scemando nel nostro calcio.

Menzionata la figura di Gianfranco Zola, quale rifinitore duttile e moderno per i tempi, divenuto beniamino assoluto dei tifosi del Chelsea, tutti gli altri esponenti nostrani non sono paragonabili ai calciatori di cui sopra.

GIANFRANCO ZOLA

Alcuni di loro, come Cristiano Doni, meritano menzione per la longevità e la capacità di adattamento. Dagli esordi da mezzala nella Pistoiese, al ruolo di fantasista nel Bologna e nel Brescia, dall’agire come quarto di centrocampo nell’1442 doriano sino alle ultime stagioni da sottopunta all’Atalanta (inframezzate da un’esperienza spagnola da play davanti alla difesa), mantiene inalterata l’attitudine a non perdere tempi di gioco. I 152 goal realizzati in carriera fanno di lui uno dei fantasisti più prolifici.

Anche se non solito scendere in campo indossando la 10, Antonio Cassano non può comunque essere tralasciato in quanto talento sopraffino e capace di offrire giocate di alta scuola con la palla al piede. Geniale nel servire i compagni e abituato a giocare sull’out di sinistra, si diletta a trattare la palla con la suola. Quando calcia a rete tende a farlo come se stesse bocciando su un tavolo da biliardo con l’effetto di risultare incantevole.

ANTONIO CASSANO

Meno geniale e meno talentuoso si rivela Lorenzo Insigne il quale, tuttavia, risulta un importante esponente di una nouvelle vague che, soprattutto in presenza del sistema di gioco 1433, tende a schierare il giocatore di classe di piede destro sul lato opposto. Campione d’Europa nel 2021, sarà ricordato anch’egli per il tiro a giro che, rispetto a Del Piero, effettua con una parabola meno arcuata e con maggior effetto a rientrare.

Esondando dai confini italiani, la maglia n. 10 ha avuto percorsi diversi a seconda dei contesti calcistici di riferimento.

In ambito europeo, fatta eccezione per l’Inghilterra in cui storicamente al 10 venivano attribuite funzioni diverse, il percorso è simile a quello italiano.

Sino agli anni 80, il numero 10 rappresenta l’eleganza, la tecnica, il genio ad appannaggio di un centrocampista avanzato.

L’espressione più alta di questa tipologia di calciatore è rappresentata da Michel Platini. All’incredibile intelligenza calcistica, che dispensa con pregevoli giocate in varie zone del campo, addiziona una vena realizzativa del tutto inusuale per un centrocampista. A differenza delle altre mezze ali dell’epoca, non si limita ad impostare o rifinire il gioco.

Possiede un’incredibile capacità di inserimento che gli consente di concludere a rete azioni a cui lui stesso ha dato inizio. E’ un caso, quasi unico, di giocatore abilissimo nel servire i compagni e, allo stesso tempo, nel dettar loro il passaggio. Pur militando in squadre con attaccanti di valore, si laurea capocannoniere delle serie A per tre anni di fila. L’Europeo del 1984 lo incorona mister Europa. I tre palloni d’oro che gli vengono assegnati altro non fanno se non certificare un triennio di assoluto dominio tecnico.

MICHEL PLATINI

Di livello più basso, ma comunque apprezzato nei primi anni 80, è stato Felix Magath, giocatore dalla mobilità limitata ma dal lancio illuminante. Famoso per le capacità balistiche, come dimostra il goal in finale di Coppa Campioni nel 1983, uscirà vincitore dal dualismo con Hansi Muller e sarà il regista titolare della Germania per due edizioni di fila dei mondiali concluse entrambe al secondo posto.

FELIX MAGATH
HANSI MULLER

Meno illustre dei predecessori ma capace di imporsi in Italia Liam Brady rimarrà nel cuore dei supporter bianconeri per essere risultato determinante nella vittoria di due scudetti, combattuti sino all’ultimo, il cui eco delle polemiche risuona ancora ai giorni nostri.

LIAM BRADY

Ma è al di là dell’Atlantico che il 10 ha già cominciato ad evolversi…

Solo l’Uruguay che ha visto la maglia con il 10 sulle spalle di Juan Alberto Schiaffino, interno sinistro

JUAN ALBERTO SCHIAFFINO

dalla tecnica sopraffina tanto da essere definito “El Futbol”, rimane fedele alla tradizione di consegnare al trequartista (enganche) la numero 9 come confermano le apparizioni del Principe di Montevideo, Enzo Francescoli.

Uno dei più nobili esponenti della scuola di trequarti, schierati dietro le due punte larghe, in grado di partire in dribbling palla al piede e deliziare le folle con colpi da artista.

ENZO FRANCESCOLI

Qualche chilometro più a nord, in terra brasiliana, il 10 ha già da tempo modificato la sua essenza. Ritiratosi Pelè, ne ha raccolto l’eredità Rivelino,

ROBERTO RIVELINO

seguito da Dirceu,

DIRCEU JOSE’ GUIMARAES

ma è con Zico che la verdeoro torna agli antichi splendori.

Arthur Antunes Coimbra, questo è il vero nome, rappresenta la fantasia al potere.

Una fantasia, si badi bene, finalizzata all’efficacia, considerato come Zico risulti un chirurgo del goal. Apparentemente non dotato di importanti doti fisiche, è in grado di spostare il pallone “coccolandolo” dal destro al sinistro come volesse addolcirlo.

Il dribbling è di quelli che “ti lasciano sul posto” anche in virtù di una finta di corpo con la quale manda al bar gli avversari. La mette in pratica con un movimento del bacino che indirizza il difensore su un lato e, quando questi prova a rientrare su di lui, se ne è già andato via. 

Può indifferentemente battere una punizione dal limite con l’interno, con il collo piede o con le tre dita. Scattategli un’istantanea e coglierete la perfezione del gesto. Come non bastasse il micidiale uno contro uno e la maestria nei piazzati è eccezionale nel mandare in porta chi gli gioca a fianco. Attira su di sé i difensori per far spazio ai compagni anche senza toccare il pallone.

ARTHUR ANTUNES COIMBRA in arte ZICO

La giocata con cui apre a Socrates la via del goal nella sfida del Sarria è poesia allo stato puro. Leggenda nel Flamengo, con cui nell’81 trionferà nell’Intercontinentale, colorerà di verdeoro la fredda Udine che a distanza di quarant’anni non perde occasione per celebrarlo.

Avrà poca fortuna ai campionati del mondo, che pure lo han visto sempre protagonista, ma che in due edizioni su tre affronterà in condizioni non ottimali. Dopo di lui, ci vorrà un decennio abbondante prima che la Selecao torni a glorificare il 10…CONTINUA…

di ALESSIO RUI, ALBERTO FERRARESE E FILIPPO GALLI

ALBERTO FERRARESE

BIO: “Alberto Ferrarese,  nato a San Donà di Piave il 5 settembre 1988,  è protagonista del calcio dilettantistico veneto da oltre 18 anni con preziosismi e giocate di alta scuola a riprova del fatto che la “poesia del numero 10″ si lascia ammirare in qualsiasi campo e categoria.”

5 risposte

  1. Voglio solo ricordare che, poi, esistevano i “fedeli duri e puri” del sacchismo. Ricordo ancora, con mia grande delusione, il rifiuto del Parma a prendere Baggio Roberto.

    Ad integrazione di quanto scritto su Baggio, devo dire che nel Bologna modificò alquanto il suo modo di giocare e spessissimo (l’ho visto a Napoli in Napoli-Bologna), dalla fascia mandava alta la palla sulla testa del centravanti (Andersson) che poi schizzava per i compagni.

    Ricordo anche che aveva un campo di azione più ridotto.

    Ho letto da qualche parte, ma non ricordo dove, che il principale problema di Baggio e che non poteva fare allenamenti normali per via delle ginocchia ed anche questo incideva sul suo scarso gradimento di alcuni allenatori. Riporto solo una memoria di lettura.

  2. Che meraviglia questa rubrica sul numero 10. Complimenti ! Ogni parola apre un cassetto della mia infanzia (e non solo) e mi fa sognare. Pensare all’eleganza di questi giocatori mi fa venire voglia di andare sul campo e provarci. grazie

  3. Ciao Giusepe.
    Ricordi benissimo.
    Il Baggio di Bologna, così come quello di Brescia quando giocava con Filippo, era meno mobile, più cerebrale oserei dire.
    Dal nostro punto di vista, abbiamo cercato di descrivere le peculiarità che hanno caratterizzato i calciatori citati ma lo scopo era esattamente quello di stimolare osservazioni come la Tua.
    Per descrivere, passo dopo passo, tutta la carriera, necessiteremmo di un intero pezzo per ognuno di loro.
    Sulle condizioni fisiche l’ho sentito con le mie orecchie affermare che, a differenza di tutti gli altri giocatori tecnici, prediligeva i terreni fangosi, in quanto più morbidi per le sue gionocchia.
    Un caro saluto.
    Alessio

  4. Bellissimo pezzo che non puo’ non avere il sapore del romanticismo, il regista puro è il ruolo che incanta, noi al Milan ne avevamo tanti. Gullit è il numero 10 che mi ha fatto innamorare del calcio, anche se forse era da considerarsi piu’ punta. Poi c’era Donadoni tendenzialmente era ala, quando dribblava sulla fascia era imprendibile, ma faceva molto bene anche il 10 anche perchè all’Atalanta era un regista.
    E pensare che nel 92-93, avevamo quattro numeri 10 in squadra: Gullit,Savicevic,Boban e Donadoni…
    Momento nostalgia

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