L’eccellenza che si disvela attraverso la mediocrità ed è da essa acclarata e costituita, il sublime che partorisce sé stesso sottintendendo la disaffezione a sua volta figlia della disattenzione e dell’approssimazione conoscitiva: prima di sciorinarne dettagliatamente le motivazioni storiche, quasi paradossalmente darwiniane da un punto di vista calcistico, è opportuno soffermarsi sulla genesi concettuale di un torneo volto, nelle intenzioni, a concentrare il meglio del calcio continentale e, va da sé, mondiale.
L’elité che riconosce sé stessa, che si autoproclama, che sente il bisogno di identificarsi, distaccarsi, elevarsi, glorificarsi, al fin di rendere più appetibile ed omogeneo il “prodotto” , è una palese contraddizione in termini: al di là, infatti, delle evidenti ragioni economiche che spingono alcuni fra i più grandi club della storia di questo sport a delineare una congregazione direzionata a far sì che la Premier League venga limitata ed eviti di fagocitare la quasi totalità del mercato ( anche se, secondo il mio punto di vista, l’aumento dei ricavi non è esattamente la soluzione per evitare l’implosione, bisognerebbe piuttosto ridurre i costi), l’eventuale ( e sembra sempre più probabile) raggiungimento dell’obiettivo della costituzione di una Superlega, sottolineerebbe ulteriormente la conclamata decisione di consegnare il calcio a chi lo ama relativamente, a chi ne disconosce natività ed evoluzione.
Mi spiego meglio, perché il concetto è sottile e merita di essere interiorizzato: se le analisi di natura sociologica portate avanti negli ultimi tempi hanno evidenziato ciò che in apertura ho definito una “disaffezione a sua volta figlia della disattenzione”, ovvero la ricercata certezza che le nuove generazioni sembrerebbero poco inclini a rendere “sacro” l’evento calcistico in quanto tale poiché poco avvezze a digerire nella continuità novanta minuti di partita (per le generazioni precedenti, differentemente, temporalmente quasi striminziti in virtù di un coinvolgimento emotivo, per l’appunto, “sacrale”, da gustare nell’essenza) poiché “distratte”, a livello cognitivo, dal contemporaneo utilizzo dei mezzi tecnologici (attraverso i quali comunicare, giocare, soffermarsi perpetuamente sui “social”), costituire un torneo elitario “donando” il meglio del calcio ed uccidendo sostanzialmente tutto ciò che ha reso questo sport il più popolare del pianeta, sentenzierebbe il trionfo degli appassionati mediocri.
Sarebbe come donare la letteratura a chi, a stento, ha nozioni di Shakespeare e Dante, la filosofia a chi ha letto in maniera superficiale Platone e Aristotele, l’arte a chi, pur non subendo la sindrome di Stendhal, non resta ammaliato dalla composizione intellettuale di un’artista che non sia Leonardo, la scienza a chi crede che la relatività sia una formula riconoscibile su una felpa o una magliettina estiva: sarebbe conclamare ciò che Pasolini ha largamente ammonito, ovvero sottintendere che lo spettatore possa essere distratto, fornendo conseguentemente un prodotto che possa coinvolgerlo non elevandone le capacità critiche e conoscitive.
Il calcio non è di chi ama solo i grandi incontri, anzi, è esattamente il contrario: la passione non è tale se circoscritta ai grandi eventi; il calcio nasce, e ha la sua ragione d’esistere, perché è universale, che si tratti di erba o fango, di uno stadio da 80.000 posti o di un pittoresco e ruspante campetto di periferia o quanto meno di un impianto di provincia, che si tratti di Juventus-Milan o di Newcastle- Sunderland , per citare una delle gare più sentite dell’intero panorama britannico ( il cosiddetto derby del “Tyne and wear”, degli Hannover contro gli Stuart, con i due centri distanti appena 19 chilometri), il calcio è di chi ne degusta e riconosce l’essenza, ne viviseziona la globalizzazione, di chi riesce ad emozionarsi per il semplice rumore dello strumento magico, di un palo colpito, di un tackle in una pozzanghera, di chi riconosce le motivazioni storiche, sociali, politiche, d’appartenenza, di un evento ritenuto “secondario”.
Di chi assorbe e interiorizza l’aura costituzionale di ogni territorio, di chi sa cosa significa il calcio a Catania piuttosto che a Pisa.
La passione conduce ad apprezzare il calcio nella sua totalità, anche nella sua vulnerabilità, nelle sue dinamiche tecniche e geografiche: senza una conoscenza che abbracci una stratificazione, come può esserci competenza? Come riconoscere e collocare i valori? Come distinguere capacità e prospettive?
L’avvento delle dirette televisive ( fino ai primordi degli anni novanta circoscritto alle competizioni europee, con una sintesi di una ventina di minuti, romantica e seguitissima, di un incontro di Serie A alle 18.40 ogni domenica dopo “90° minuto”) ha regalato la disponibilità della partecipazione all’evento e, or dunque, è da annoverare naturalmente quale accezione positiva; il primo, storico, posticipo televisivo del campionato italiano con l’avvento della pay tv, Lazio-Foggia dell’agosto del 1993, è indiscutibilmente un evento spartiacque.
Negli anni, ingolfare il prodotto decretando per esigenze televisive la non contemporaneità di praticamente quasi tutti gli incontri, ha comportato neutralizzare nello spettatore medio la volontà di apprezzare il “secondario”: avendo a disposizione molteplici possibilità distinte di usufruire della visione calcistica ( e ovviamente sottintendendo una disponibilità quotidiana circoscritta alla “possibilità” di poter scegliere), l’appassionato ha iniziato a selezionare il meglio; un processo razionale figlio della logica impossibilità ( e dipendenza ) di assistere a tutti gli incontri.
Senza entrare infinitamente nel merito di un’analisi che richiederebbe una stesura pressoché illimitata, questo processo ha inevitabilmente condotto al pensiero che del calcio vada offerto l’esclusivo lato nobiliare ( sulla cui selezione bisognerebbe, in ogni caso, discutere).
Io credo che la reale linea di demarcazione sia avvenuta attraverso tre eventi fondamentali, che, nel dato di fatto, hanno mutato la storia del calcio, la concezione delle competizioni europee e l’accettazione della disuguaglianza quale approdo inevitabile pur all’interno di un contesto che sembra suggerirsi democratico: parlo della sentenza Bosman, della cancellazione della Coppa delle Coppe e dell’aumento del numero di club appartenenti ai campionati principali aventi la possibilità di accedere alla Champions League riformulata sul finire degli anni novanta ( la prima edizione della vecchia Coppa dei Campioni sotto la nuova denominazione risale alla stagione 1992-93; l’anno precedente con “Champions League” si faceva riferimento ad una specifica fase all’interno della manifestazione che andava a sostituire gli ultimi turni ad eliminazione diretta: è per questo che il logo sorto per rappresentarla è costituito tutt’oggi da otto stelle disposte in modo tale da formare un pallone da calcio, faceva riferimento alle otto società caratterizzanti i due gruppi conclusivi del torneo le cui vincitrici si sarebbero affrontate in finale).
La legge “Bosman” del 1995, dal nome del semi-sconosciuto calciatore belga che si rivolse alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea perché venisse regolamentato, alla stregua degli altri lavoratori dipendenti, il trasferimento dei calciatori professionisti fra le società appartenenti alle Federazioni dell’Unione, stabilì che i calciatori avrebbero acquisito la libertà di trasferirsi senza alcun vincolo in coincidenza della scadenza del contratto.
Questo evento ( che consentiva alle società un consistente risparmio economico sull’acquisizione del cartellino) assieme all’apertura al tesseramento di più giocatori stranieri che sino all’inizio degli anni novanta era limitato a soli tre elementi per società o, successivamente, ad un numero superiore con la limitazione, però, di poterne schierare solo tre in campo ( bisogna sottolineare che la riapertura delle frontiere avvenne in Serie A solo nel 1980 e con l’esclusiva possibilità di tesserare un solo giocatore, il secondo tesseramento venne liberalizzato due anni più tardi e solo nel 1988 fu possibile tesserare in rosa tre calciatori non indigeni), determinò, inevitabilmente, la concentrazione dei migliori talenti europei nei campionati più importanti, Serie A su tutti, quale torneo migliore del panorama globale.
La conseguenza principale, facilmente preventivabile, fu l’impoverimento tecnico di tante società, anche nobili, del panorama europeo, facenti parte di campionati “secondari”: liberalizzata la possibilità di iscrivere nella propria rosa più giocatori stranieri, incrementato di volta in volta il numero delle gare da dover disputare, i club dei campionati più ricchi hanno aumentato il proprio valore tecnico a discapito di club che, indipendentemente dal blasone, non erano più in grado di fronteggiare gli ingaggi delle società italiane in particolare e dunque di trattenere gli elementi più validi.
Così, mentre nel 1982 la Juventus era costretta a cedere Brady per tesserare Platini, ed in ogni caso, in virtù del numero ridotto di impegni, non aveva l’esigenza di annoverare fra le proprie fila alternative che fossero paragonabili ai titolari (le rose erano mediamente costituite da diciotto giocatori, di cui un paio sostanzialmente giovani promesse), nel decennio successivo non solo ci fu la possibilità di coniugare nel ventaglio a disposizione dell’allenatore la contemporanea presenza di gente del calibro di Van Basten, Gullit, Rijkaard, Boban, Savicevic e Papin, ma ciò divenne via via indispensabile per mantenere altissimo il livello della competitività con l’avvento del “turnover” ,dettato dal calendario più fitto di impegni.
Zico ad Udine, Ramon Diaz ad Avellino, Briegel ed Elkjaer a Verona, furono possibili per questi motivi: limitazione del numero di stranieri tesserabili da ogni singolo club e assenza della necessità di avere una rosa quantitativamente omogenea nella qualità; si giocava di meno e meno si aveva bisogno di rimpiazzare Tardelli e Cabrini con elementi,nel limite del possibile, loro accostabili.
La sentenza Bosman e la caduta dei limiti del tesseramento degli stranieri, assieme al’insana idea di riservare privilegi e soldi alle società dei campionati conseguentemente sempre più economicamente importanti, hanno rivoluzionato alcuni concetti basilari del merito sportivo e della competenza calcistica: alcune nazioni hanno in pratica iniziato ad allevare giovani promesse con l’inevitabile consapevolezza di essere ceduti in Italia, piuttosto che in Spagna o Inghilterra; l’Ajax non ha potuto più sostanzialmente godere della propria scuola di formazione attraverso la quale mantenere tecnicamente la competitività nel panorama delle competizioni internazionali, non più Kluivert, Seedorf, Davids, i De Boer, Litmanen, Overmars e Kanu a comporre una squadra capace di centrare due finali consecutive di Champions League nel 1995 e nel 1996, bensì seconde linee, calciatori di categorie consone al livello tecnico ed economico di un campionato ridimensionato come quello olandese.
Dal 2000 le prime nazioni del ranking UEFA possono schierare quattro compagini in Champions League, mentre i campioni nazionali di paesi anche con una notevole cultura e storia calcistiche sono costretti a partire dai turni preliminari: privati di uguaglianza di possibilità, talenti e soldi, com’era possibile per alcuni club mantenere la competitività?
Avrebbe potuto mai nascere un fenomeno come il Parma dell’ultimo decennio dello scorso millennio in una nazione diversa dall’Italia?
Goteborg, Feyenoord, PSV, Anderlecht ( la decima formazione europea del secolo scorso secondo l’Istituto di Storia e Statistica del calcio riconosciuto dalla FIFA, in una classifica guidata dal Real davanti alla Juventus e stilata alla fine del Novecento per ogni continente) , Benfica, Dinamo Kiev, Celtic Glasgow, Malines, Steaua Bucarest, Stella Rossa, come avrebbero potuto continuare a rendere onore ad una grande tradizione e ai successi ottenuti in campo internazionale?
E, conseguentemente, chi ha più ragion d’essere in una Superlega? I club appena citati o Manchester City e Paris Saint Germain i cui complessivi allori internazionali si fermano a due succcessi in Coppa delle Coppe e i cui complessivi titoli nazionali, diciotto(8 per gli inglesi e 10 per i francesi), sono stati conquistati 14 volte negli ultimi dieci anni?
In ultima istanza: prima che l’assurda, immorale, cancellazione della cara Coppa delle Coppe e l’allargamento della Champions alle squadre dei campionati principali mutassero la storia dello scenario calcistico europeo, determinando effettivamente l’esistenza di un’Europa di Serie A ed una di Serie B con la sola riformata Champions a recitare un ruolo da protagonista e ad essere agognata dalle società storiche del continente nel proprio palmares, la Coppa UEFA era , a tutti gli effetti, “quantitativamente” la più qualitativa fra le competizioni internazionali e, sostanzialmente, la vera antenata dell’attuale Champions League.
Accoglieva, infatti, le squadre classificate dal secondo al quinto posto dei campionati principali (comunque nelle nazioni dal ranking più elevato): era dunque la sola vincitrice dei tornei nazionali a classificarsi per la vecchia Coppa dei Campioni ( un’esclusività che si basava sul diritto democratico di accedere al potenziale titolo di campione d’Europa solo dopo essersi laureati campioni dei propri Paesi) che, così, vedeva iscritte, numericamente, un numero minore di formazioni blasonate e competitive che confluivano, per l’appunto, in Coppa UEFA.
Un disequilibrio di forze numerico che faceva della UEFA la coppa qualitativamente più ricca ma, sostanzialmente, l’ultima per “importanza burocratica”, poiché annoverava formazioni che non erano ivi qualificate per aver vinto qualcosa, come accadeva invece per la Coppa delle Coppe, ritenuta il secondo torneo continentale, la cui vincitrice era designata a disputare la Supercoppa Europea).
Bisogna dunque innanzitutto non equiparare i trionfi ottenuti nel nuovo millennio in Europa League con i successi nelle edizioni antecedenti la riforma, decisamente più prestigiosi; creare un dislivello emozionale e tecnico tale da disconoscere la difficoltà, la grandezza e la bellezza di un trionfo in Coppa delle Coppe o in Coppa UEFA, ha rappresentato l’anticamera della predisposizione mentale alla costituzione concettuale di un torneo elitario che condensasse i desideri…degli appassionati mediocri!
Il calcio vivifica sé stesso attraverso alcune epopee esclusivamente figlie dell’epica sportiva, coinvolge e influisce sull’inconscio collettivo in virtù di imprese che, a onor del vero, in più circostanze sono state dettagliatamente narrate su questo blog.
In definitiva non conta quanto fattibile possa essere una competizione naturalmente dal contenuto tecnico elevatissimo, quanto si possa far leva su una sostenibilità maggiore e quanto possa essere sottolineato il fatto che possano esserci ovunque delle categorie ( che, a onor dell’antico e primordiale concetto di merito dovrebbero scaturire dall’agonismo e dalla sana opposizione figlia esclusivamente della mai immorale legge del terreno di gioco) : le conseguenze globali, come, immediatamente, il totale declassamento dei campionati nazionali e di tutto ciò che a catena ne consegue, sarebbero nefaste.
Lo streaming non può uccidere un secolo e mezzo di romanticismo, il contenitore non può prevalere sul contenuto e, soprattutto, non può prevalere l’abominio secondo il quale se non vinco o pecco di gestione porto via il pallone. Sarebbe aberrante.
9 risposte
La Superlega nasce,anzi vorrebbe nascere,per avere tanti soldi da ripianare i conti in rosso di alcuni club( che poi rimodernano anche i loro stadi ! E quindi ti chiedi se siano in debito oppure no). Che poi se dovessero farla con alcuni club che di storico oltre il loro panorama nazionale,di europeo non hanno chissà che . L’alba della Champions ben narrata da Federico Buffa,e la competizione che rende “Gloriosi” alcuni club che vogliono questa competizione,senza le numerose coppe vinte forse non avrebbero lo stesso flusso che hanno oppure di cui godono . Non si può dare tanta colpa agli Inglesi per la Potenza della loro Lega, Post 1996 e quindi il l’oro europeo, hanno reso i Club aziende,e hanno attirato investitori,che anche aiutati dalle politiche nazionali possono investire in patrimonio immobiliare con le strutture (centri di allenamento,stadi multi uso, aperti e che producono ricavi .) cose che da noi in Italia ad esempio,siamo rimasti ad insalatiere di cemento , con stadi di proprietà comunali , con leggi che bloccano tante cose, e quindi è normale che non arrivano tanti investimenti. I costi sono elevati perché esempio, puoi mai pagare un ragazzo 200ml di euro , e dargli 15 ml annui per una stagione buona ? Puoi mai pagare commissioni a non finire ? No! Perché ciò che esce e più di ciò che entra . Quindi bisognerebbe mettere un tetto di spesa,così dimezzi almeno i costi di gestione rosa . Creando ciò si chiude la possibilità a chi sa lavorare di creare qualcosa che ancora oggi porta i padri di famiglia,i figli,ad abbandonare la domenica la propria casa dopo una settimana di lavoro , per seguire i propri colori . Che essi siano di A,B,C,D. Che poi fai la Superlega, bene ! Ma quante persone penso possano sopperire al costo di andare non so a Liverpool,a Madrid, ogni volta ? Che fate ? Giocate solo tramite ricavi tv e stadi semivuoti? . Quindi il calcio e , e sarà sempre passione della gente . Senza gente che va allo stadio non ci sono gare, ne vendita di gadget, ne maglie , nulla . Lasciamo il calcio a chi veramente ama ciò , e allontaniamo un po’ sti affaristi che infondo fanno solo i loro interessi.
Grazie Vincenzo per l’accorata spiegazione.
A presto e buon lavoro.
Bellissimo testo
Grazie Rita, rispondo a nome di Andrea che,penso,lo fara’ nei prossimi giorni.
Premetto che sono contrario alla “superlega”. Se la vogliono se la facessero pure, ma senza il consenso e senza rientrare nell’ambito delle Leghe “pubbliche”, poco importa se queste ultime giuridicamente sono “Enti pubblici” (non lo so), ma lo sono di fatto.
Il sistema europeo dei campionati di calcio è bello perchè è premiante, in positivo e in negativo (le retrocessioni), il tutto con una rotazione annuale.
Poi, come giustamente evidenziato, chi decide chi entra nella superllega e con quali prospettive future?
L’attuale sistema premiante adatta le situazioni ai nuovi tempi, noi che eravamo il primo campionato ora non lo siamo più. Il Genoa che ne ha vinti subito tanti, ora è in B. Altri soggetti nel frattempo si sono affacciati alla ribalta. nC’è continuo rinnovo.
Bene, se siamo 50 Paesi in Europa, allora 4 gironi di 20 squadre cadauno, proporzionando il numero di squadre per nazioni al numero di abitanti. Quindi, se alcune di quelle squadre promotrici non rientrano nel gruppo stabile, penso non vorranno più la super lega.
Allora tra Milan e Inter ne potrebbe stare solo una. Poi che succede alle altre tantissime squadre che militano nelle leghe nazionali? In America hanno i “college”. Noi buttiamo a mare il tifo e l’amore per la propria squadra, svuotando la nostra vita passata da tifoso?
Vincenzo D’Aniello, concordo, questo è uno “sporco” (lo dico io) affare per dare più soldi a chi ne ha già tantissimi.
Personalmente dico basta e quando sarà arrivata la mia ora, voglio che lo sia da tifoso della mia Fiorentina.
Grazie per il commento Giuseppe, la tua posizione e’ chiara! Credo che tantissimi siano contrari all’idea della Superlega in linea di principio.Nessuno ci ha mai spiegato pero’, nello specifico, presupposti e format.Piu’ avanti proveremo a raccogliere qualche elemento in piu’ in proposito.
Bravi gli autori, davvero bravi. La mia paura, perchè io stesso in qualche modo vi appartengo, è che questo appello, grido di allarme, ben documentato, sia storicamente che culturalmente, sia ad appannaggio di pochi. Secondo me, ai “potenti” del calcio, non solo mancano gli strumenti per capire il contesto di quanto vogliono occupare e possedere sempre di più, ma anche l'”A-B-C” culturale per capire un articolo come questo e magari farne tesoro!
Articolo a dir poco meraviglioso. Andrebbe letto a reti unificate in prima serata. Grazie per gli innumerevoli spunti di riflessione e la densità del contenuto. Marco
Ti ringrazio, fin troppo gentile.