Sono passati oramai due anni dalla sera del 19 aprile 2021 quando alcuni tra i club calcistici più prestigiosi d’Europa presentavano in modo improvviso il progetto di quello che sarebbe dovuto diventare il più importante torneo continentale calcistico per club.
Una competizione, indipendente dall’UEFA, destinata, nelle intenzioni delle maggiori società inglesi, italiane e spagnole, a prendere il posto dell’attuale Champions League, secondo uno schema di torneo “semichiuso” con alcune compagini ammesse di diritto ed altre per merito sportivo.
Come sia andata a finire è noto a tutti.
A seguito delle proteste dei tifosi d’oltremanica, nove delle dodici società promotrici si sono ritirate lasciando a Real Madrid, Barcellona e Juventus il compito di promuovere un progetto la cui realizzazione ha sì subito un’interruzione ma non per questo può dirsi accantonata.
L’impatto che il comunicato dell’aprile 2021 ha avuto nei confronti degli appassionati è risultato, senza ombra di smentita, “dirompente in negativo”. La reazione all’annuncio è stata quasi univoca, nell’osteggiare le intenzioni dei club ideatori del progetto, frutto di un sentimento popolare portato ad interpretare il torneo “semichiuso” come un affronto al merito calcistico, al sogno del tifoso, alla possibilità di assistere alle cosidette “favole del calcio”.
E’ emersa una conflittualità di intenti tra le alte sfere dirigenziali e la platea degli appassionati.
Da un lato vi è l’esigenza di rendere più qualitativo il massimo torneo continentale, con un maggior numero di confronti tra squadre di elevato appeal, al fine di massimizzare gli incassi dalla vendita dei diritti televisivi.
Dall’altro, i supporters rifuggono con convinzione dall’idea di una competizione che preveda la partecipazione assicurata ad alcuni club, a prescindere da un’effettiva qualificazione sul campo.
Scopo dell’analisi di seguito proposta non è quello di prendere posizione in favore dell’una o dell’altra visione ma di ampliare, per quanto possibile, l’oggetto delle riflessioni affinché opinioni e pensieri possano formarsi secondo giudizio e non secondo pregiudizio.
Per farlo prenderemo a parametro alcuni principi che sottendono alle prese di posizione di chi è contrario alla Superlega, provando a tracciare una linea di demarcazione tra le verità fattuali e i luoghi comuni che, parafrasando un mito di Platone, possiamo definire “post verità applicate al calcio”.
- LA SUPERLEGA NON S’HA DA FARE
Come anticipato, sin dalle ore immediatamente successive all’annuncio dell’aprile 2021, il progetto di Superlega ha incontrato l’ostracismo degli appassionati. Un ostracismo a prescindere, prima ancora di comprendere come sarebbe stato strutturato il torneo e prima ancora venissero rese note le modalità di ammissione delle squadre non aventi di loro il diritto alla partecipazione.
Ad avviso di chi scrive, opporsi alla realizzazione di un progetto senza prima analizzarlo, è esercizio poco nobile. Ci sta di non condividere un’idea, un programma, un piano ma solo dopo averlo valutato e, possibilmente, compreso. Nella fattispecie, tutti coloro i quali si sono scagliati contro il progetto Superlega hanno osteggiato un qualcosa di cui non erano a conoscenza, considerate le carenze comunicative da parte degli ideatori, rivelatisi incapaci di spiegare aspetti di primaria importanza.
All’idea che alcuni club sarebbero stati ammessi di diritto, si è scatenata una sommossa popolare (e mediatica) atta ad esaltare concetti quali il merito, il calcio romantico, la difesa dei piccoli club, l’idea che il calcio appartenga ai tifosi ecc.
La realtà dei fatti è un’altra: non c’è stato nessun dibattito, nessuna spiegazione, nessun tentativo di far chiarezza sugli aspetti eventualmente innovativi.
E ad oggi non è dato sapere se davvero la Superlega sia destinata ad andare contro suddetti concetti.
Si è deciso che avrebbe rappresentato il male assoluto del calcio.
E si è fatto sì che l’idea naufragasse sul nascere.
- ROMANTICISMO O IPOCRISIA?
Nessun dubbio che l’esigenza di rimodulare la principale competizione europea per club nasca da motivazioni economiche, dovute ad uno stato di mala gestione finanziaria del calcio professionistico.
Il ricorso alla spesa non sostenibile, tuttavia, rappresenta non di rado un errore dovuto, da parte delle società, al fine di accontentare gli stessi appassionati che oggi avversano la Superlega. Alcuni dei quali, nel momento in cui la loro squadra del cuore non si rafforza tecnicamente con l’acquisizione di calciatori di alto livello, arrivano a criticare ferocemente i dirigenti e le proprietà.
Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: da un lato i tifosi si scagliano contro il calcio-business, contro il “Dio denaro” e contro la sottomissione dei valori sportivi in favore del profitto. Dall’altro, gli stessi appassionati, storgono il naso (quando non criticano in maniera veemente) nel momento in cui le loro squadre abbassano il monte ingaggi dei calciatori e, quasi inevitabilmente, la loro forza tecnica.
Più che il concetto di calcio romantico, andrebbe perpetrato il concetto di calcio sostenibile.
Nel breve periodo, tuttavia, la virtuosa ricerca della sostenibilità potrebbe privare il tifoso dei cosidetti “sogni estivi da calciomercato”.
Una domanda a questo punto sorge spontanea: quando parliamo del calcio business che uccide i sogni, a quali sogni ci riferiamo?
Se il sogno è quello di tornare ad un calcio meno legato al profitto, sta bene rinunciare ad una aumento degli introiti ma, se il sogno è quello che fa godere l’appassionato al pensiero che la propria squadra si assicuri le prestazioni dei calciatori di maggior valore, allora è un sogno che va di pari passo con la forza economica.
Il continuo riferimento al calcio di una volta pare più un esercizio dialettico che un effettivo intendimento nei fatti se è vero, come è vero, che l’avvento delle pay tv e la sequenziale ondata di calcio televisivo ha portato via migliaia di spettatori ai campionati dilettantistici e agli altri sport di squadra.
Spesso ascoltiamo affermazioni atte a rimpiangere il tempo in cui, con la radio incollata all’orecchio, si immaginavano le azioni raccontate dai Ciotti, dai Ferrretti e dagli Ameri, ma quanti, tra codesti nostalgici, oggi preferiscono la radio alla visione della partita in TV?
Pochissimi.
Ergo, anche tra gli appassionati alberga un filo di ipocrisia.
Continuiamo ad ascoltare strali contro il troppo calcio in TV ma le rare pause del campionato, per consentire gli impegni della nazionale, sono sempre più mal sopportate. Senza considerare come, nel periodo estivo in cui la serie A è ferma, vi siano lusinghieri dati di audience in occasione delle amichevoli che vengono trasmesse.
Alla luce di ciò, è lecito desumere che la Superlega si tramuterebbe in un successo di ascolti senza precedenti con gli appassionati delle squadre più importanti eccitati all’idea di affrontare a scadenza settimanale le migliori squadre d’Europa anziché “sorbirsi” partite dall’esito scontato.
- TIMES ARE CHANGING
Al netto delle reminiscenze legate al calcio che fu, che in quanto apprezzato in età giovanile rimane più facilmente ancorato al cuore dei supporters, ogni contesto è destinato a subire dei cambiamenti.
Siano essi intesi, di volta in volta, come evoluzione o involuzione, rappresentano l’emanazione dei tempi che cambiano.
Il sistema calcio si scontra da sempre con un eccesso di conservatorismo che, se da una parte consente di tenere in vita tradizioni e usanze, dall’altra rischia di precludere a prescindere la possibilità di percorrere strade innovative.
Fare la guerra al mondo che cambia, anche quando lo si fa per seguire direzioni opposte a quelle che vorremmo seguisse, rappresenta un esercizio con poche chances di successo.
Anche i più strenui difensori dei concetti antichi, spesso portatori di buoni consigli, non possono pensare di impedire al contesto sociale di seguire le pulsioni e le tendenze che, giocoforza, animano e caratterizzano la vita di noi tutti.
Il classico esempio del telefonino, da molti indicato come male assoluto per il decadimento della qualità dei rapporti, del livello culturale, del linguaggio in uso e delle formalità educative, ma al quale pochissimi rinunciano in quanto strumento indispensabile per interagire in ambito professionale, informativo e nei rapporti umani, la dice lunga su come sia il mondo a cambiare le abitudini di chi vi alberga e non viceversa.
Lo stesso dicasi per il calcio: come possiamo pensare di arginare l’avanzare di nuovi format e di nuovi modelli di competitività se questi modelli sono necessari alla sopravvivenza del sistema? O, peggio ancora, se sono proprio detti modelli a consentire la creazione del prodotto a cui il tifoso accorda il maggior gradimento?
Senza considerare come il progetto bocciato prevedesse una parte di introiti destinata alle squadre che non vi partecipano. Siamo sicuri che ai proprietari delle “provinciali” quei quattrini non facciano comodo?
I giovani appassionati non sono cresciuti nell’epoca in cui l’album delle figurine Panini da completare rappresentava un’autentica chimera.
Sono cresciuti masticando nozioni di calcio internazionale sin da bambini. A loro interessa maggiormente un Barcellona- Milan o un Inter-Bayern rispetto ad un incontro tra la Juventus ed una medio-piccola.
Chi rimpiange il calcio di un tempo deve avere l’onestà di ammettere come qualche decennio orsono la differenza di valori tra grandi e piccole fosse inferiore, in seno ad un torneo nazionale più competitivo e più interessante.
I campionati si vincevano con la media inglese (vittoria in casa pari in trasferta) pari a zero.
Nel tempo in cui viviamo la situazione è cambiata; l’appeal dei tornei nazionali tende a scemare.
Se escludiamo le preferenze di stampo territoriale (il napoletano che tifa Napoli, il fiorentino che tifa viola e via dicendo…) le preferenze degli appassionati si stanno spostando sulle grandi squadre.
Ciò accade in virtù del fatto che non è più ipotizzabile il ripetersi di una situazione che aveva visto squadre come il Torino, il Bologna, Il Verona, la Sampdoria, il Parma ed altre trionfare in competizioni importanti e crearsi così un “portafoglio tifosi” all’esito dei successi sul campo.
A ciò si aggiunga come l’interesse delle giovani leve si stia spostando sempre più verso i top players, in ossequio ad un costume made in USA, stile NBA, che tende ad ergere a figura centrale dell’evento la “star” e non la partita.
Per come è naufragato il processo del 2021, si potrebbe essere portati a pensare che l’ondata emotiva e passionale sia stata sufficiente a respingere i modelli calcistici di nuova generazione.
Chi scrive, tuttavia, non può ignorare come i grandi e i piccoli cambiamenti si verifichino spesso per inerzia, in seguito ad un processo modificativo dei contesti che potrà essere interrotto ma mai del tutto respinto.
Se qualcuno corre molto più veloce di me, posso pensare di fargli lo sgambetto e fargli perdere del tempo, ma se è in grado di correre più veloce, è destinato, giocoforza, a riprendermi e a superarmi.
- LA SUPERLEGA NON RICONOSCE IL MERITO SPORTIVO
Uno dei punti più dibattuti è quello relativo al merito sportivo che impedirebbe la presenza in Superlega alle squadre che se ne guadagnano il diritto sul campo, secondo l’attuale regolamento.
Una sorta di diseguaglianza che, a detta di molti, nulla a che vedere con i principi dello sport.
A prescindere dalla circostanza secondo cui le squadre ammesse di diritto, nel 90% dei casi, si qualificano a prescindere all’odierna Champions Legaue, alcune situazioni devono essere evidenziate.
Anche nell’attuale sistema residuano delle diseguaglianze di notevole impatto. Siamo perfettamente a conoscenza di come alcune nazioni possano iscrivere alla massima competizione continentale un numero maggiore o minore di squadre in relazione al ranking di riferimento del paese.
Già questo è sufficiente per dimostrarci come il merito sia tutelato in maniera diversa a seconda che una squadra partecipi ad uno piuttosto che ad un altro campionato.
Il format del 2021, che, lo ribadiamo, non è stato oggetto di alcun dibattito, prevedeva un numero di posti fissi ed un numero inferiore di posti conquistabili sul campo.
E’ condivisibile il pensiero di chi ritiene che la ripartizione potesse (rectius, dovesse) essere rivista riequilibrando in parte le proporzioni.
Il punto di partenza, tuttavia, dev’esser un altro, ovvero sia l’ipotesi di organizzare un playoff tra le squadre alla caccia del posto all’interno delle 20 compagini ammesse. Ciò consentirebbe a compagini che si sono distinte sul campo, ma che non hanno l’appeal dei club più prestigiosi, di confrontarsi tra loro con delle sfide presumibilmente equilibrate e ricche di interesse (e quindi di introiti) nei mesi precedenti all’avvio del torneo vero e proprio.
Chi obietta che ci si ritroverebbe ad iniziare la stagione in anticipo non potrà ignorare come, già nella situazione attuale, i playoff di Champions, di Europa e di Conference League vengano disputati in piena estate con preliminari che vedono alcune le squadre in campo sin dall’ultima decade di giugno.
Nel caso italiano potremmo ipotizzare, prendendo a parametro la classifica attuale, di vedere Milan, Inter e Juventus ammesse con Napoli, Lazio e Roma a giocarsi il playoff. Il che potrebbe portare ad iscrivere solo 3 squadre in caso di mancato passaggio del turno ma potrebbe vederne iscritte 5 o 6, in caso di successo.
Non è stato possibile conoscere, nel 2021, il criterio di ammissione per merito.
Di sicuro sarebbe stato opportuno valutare il format ed, eventualmente, concertare una soluzione meno restrittiva per le compagini meritevoli, consci che un playoff di alto livello sarebbe potuto risultare particolarmente apprezzato.
- CON LA SUPERLEGA NON POTREMMO PIU’ASSISTERE ALLE FAVOLE NEL CALCIO
Ribadito come la Superlega permetterebbe la partecipazione alla fase “calda” del torneo a 20 squadre anziché le 16 che attualmente escono dai gironi autunnali, è doveroso analizzare l’assioma secondo cui un format semichiuso non permetta l’ascesa alle formazioni meno attrezzate, precludendo a priori nuove favole calcistiche.
Quando si parla di favole si tende a citare, nel contesto italiano, le imprese del Parma di Tanzi, della Samp di Mantovani, del Torino di Borsano e così via.
Queste compagini, erroneamente definite “piccole”, quando hanno ben figurato in Europa avevano uno status tutt’altro che basso. Erano formazioni composte da calciatori che militerebbero in squadre ammesse alla Superlega.
Il Torino finalista in Coppa Uefa schierava Casagrande, Scifo e Martin Vasquez. Il Parma aveva un colosso come Parmalat alle spalle. La Samp, a cavallo degli anni 90, era una squadra di qualità eccelsa.
Non erano favole, erano corazzate! Frutto di investimenti, ma sarebbe più appropriato definirle spese, notevoli.
Il Parma di Tanzi ha inziato la propria parabola in un campionato in cui dettavano legge il Milan di Berlusconi, l’Inter di Pellegrini e, successivamente, di Moratti nonché la Samp di Vialli e Mancini, e l’ha finita ai tempi della Roma e della Lazio più forti di sempre, transitando per l’epoca della Juve di Lippi e il regno del Milan di Capello.
Ergo, non è vero che le grandi società stritolano le piccole.
Di sicuro, servono competenze per reggere l’urto.
Il problema, piuttosto, è stato il modo con cui si è scalato il mondo del calcio, molto meno virtuoso rispetto ai contestati principi della Superlega.
Ragionamento analogo andrà svolto quando si citano l’Anderlecht (che schierava negli anni del massimo fulgore più di un esponente dell’Olanda di Michels), l’Aston Villa o Il Nottingham Forrest.
Non erano piccole squadre bensì assoluti “squadroni” che, per valore tecnico, non avrebbero problemi a trovare cittadinanza all’interno del format ad ammissione semichiusa.
- I CAMPIONATI NAZIONALI PERDONO INTERESSE
Se dibattendo in merito agli aspetti precedenti ci siamo limitati a porre dei quesiti o dei dubbi, in relazione alla presunta perdita di interesse dei campionati nazionali, riteniamo di poter obiettare senza timore di smentita.
L’esempio della pallacanestro, contesto in cui il sistema Superlega è in vigore da anni e ha riqualificato l’intero movimento, ci viene in soccorso.
L’impegno in Superlega, a scadenza quasi settimanale, è destinato a togliere tempo agli allenamenti, a ridurre le energie e ad affaticare le squadre partecipanti che si troverebbero nella condizione di togliere tempo alla preparazione delle sfide del campionato nazionale.
Sfide che, in tal modo, risulterebbero destinate ad un maggior equilibrio (o ad un minore disequilibrio che dir si voglia), rendendo le distanze tra grandi e piccole meno siderali, grazie al fatto che le seconde godrebbero di una miglior condizione e di maggior tempo per preparare le partite a fronte di avversari che, oltre alle situazioni suelencate, si troverebbero a dover gestire un dispendio di energie mentali di notevole impatto.
Cosa rimane ad oggi del progetto Superlega non è dato saperlo. Né è pensabile privare la collettività degli appassionati della possibilità di manifestare il proprio dissenso. L’auspicio, tuttavia, è che in futuro, prima di abiurare un progetto si abbia almeno la pazienza di analizzarlo e, possibilmente comprenderlo.
Dire no a prescindere è un malcostume tipico di non è in grado di argomentare.
L’impressione è che, volenti o nolenti, si finirà per veder attivato un format simile a quello proposto due anni fa. Sarebbe preferibile che un’eventuale simile soluzione prendesse vita a seguito di una concertazione che tenga conto, per quanto possibile, dei desideri degli appassionati e delle esigenze dei piccoli club piuttosto che scontare gli effetti di un muro contro muro destinato a non produrre alcun beneficio alle parti interessate.
BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento