LA DICOTOMIA DEL CALCIO ITALIANO, TRA SUCCESSO E QUALITÀ ESPRESSA. 1^ PARTE.

Può il calcio italiano essere dicotomico? Il giorno in cui il lo stesso iscrive alle semifinali delle tre competizioni europee ben cinque squadre, mi devo, obbligatoriamente, fare questa domanda.

Dove nasce questo mio dubbio di dicotomia? Nasce dal fatto che, da allenatore e da formatore di metodologia dell’allenamento, anzi da artigiano – alchimista della metodologia, ritengo il calcio italiano fortemente malato, scivolato da tempo in una spirale perversa di declino qualitativo.

Da tempo, ormai da diversi anni, sono certo che la qualità del calcio espressa dal campionato di altre nazioni sia assolutamente migliore della nostra.

Oggi penso che, concretamente,  la Premier League appartenga non ad un altro pianeta, ma, addirittura, ad un’altra galassia.

Non solo per la netta superiorità qualitativa dei giocatori. E’ innegabile che il 90% dei giocatori più forti del Pianeta Terra sia tesserato per club inglesi. Il restante misero 10% diviso tra Real Madrid, Barcellona, Paris Saint German, Bayern Monaco e in misura residuale, davvero briciole, in Milan, Napoli, Borussia Dortmund.

Soprattutto  penso per la incredibile qualità degli allenatori: Guardiola, Klopp, Arteta, Ten Hag, Emery, Lopetegui e il “nostro” Roberto De Zerbi, che un mostro sacro come Pep non perde occasione di elogiare e non credo abbia alcun interesse o ritorno nel farlo. Anzi, E pensare che la Premier si è lasciata scappare Tuchel e il più grande visionario del calcio moderno, El Loco Bielsa.

Però non penso che solo la Premier sia nettamente superiore alla qualità espressa dal calcio italiano.

Non conoscevo molto la Bundesliga. Lo ammetto e mi cospargo il capo di cenere nel dirlo.

Poi, dedicandomi alla metodologia, ho avuto modo di confrontarmi con alcuni allenatori che stimo e che hanno iniziato a farmi vedere video di club tedeschi, alcuni di seconda serie. Il calcio tedesco è un incredibile laboratorio di idee. Così ho cominciato a scaricarmi le partite ed analizzarle. Ebbene, mi sono reso subito conto di come avessi clamorosamente toppato ad avere degli stupidi pregiudizi. Il calcio tedesco è una fonte assoluta di ispirazione, per chi ha la pretesa di essere un artigiano – alchimista della metodologia, arricchita dai tre anni di Guardiola e dal lavoro di tecnici giovani e adibiti al lavoro con i giovani.

Anche la spesso derisa Ligue 1 francese è, in vero, un campionato dove forse non si esprimono particolari idee innovative, ma dove si osa sulla qualità individuale e soprattutto sulla libera espressione della creatività.

Penso però, soprattutto,  al Portogallo. Una nazione di circa dieci milioni di abitanti, ossia un sesto della nostra, con una economia, paradossalmente mi verrebbe da dire, peggiore della nostra.

Eppure ha dei club che storicamente sono all’avanguardia nella metodologia, avendo da tempo compreso che per sopravvivere, ad medio – alto, livello, ha necessità di creare profili di altissimo lignaggio da vendere.

Ma ancor di più penso al loro “pensiero” che, malgrado si confrontino quasi sempre, a livello europeo intendo, con club nettamente più attrezzati e che spendono infinitamente di più, vanno su ogni campo, contro ogni avversario, anche contro i top club, vogliosi di imporre la loro idea , non remissivi ed attendisti.

Ho lasciato per ultima la Liga, non a caso. Mi sembra entrata nell’era del “Conte Mascetti”, ossia una nobile decaduta, vittima di sè stessa, della non evoluzione dopo aver dominato in Europa e nel mondo per anni. Oggi è un campionato che, ogni volta che analizzo una partita, mi sembra fermo nel tempo. Privo di nuove idee.

Lì, da molte parti, è rimasto il Guardiola di venti anni fa. Quello che, contrariamente a quello che quasi tutti pensano (parlare senza sapere), era già morto e sepolto a Monaco di Baviera.

Di certo su tutti i campionati, Premier League esclusa, grava la difficile congiuntura economica degli ultimi anni. E’ palese che nazioni come Italia e Spagna, più di altre, vivano una situazione complicata.

Come disse Galileo Galilei, dietro una difficoltà si nasconde una opportunità. Ed ecco allora che, da anni ed anni, il Portogallo fa delle difficoltà (una nazione non tra le più ricche e una popolazione di SOLI 10 milioni di abitanti, quindi un bacino di utenza di un sesto rispetto all’Italia) una straordinaria opportunità.

Ossia lavorare nei SETTORI GIOVANILI per creare e costruire profili di caratura e levatura internazionale.

Porto, Benfica, Sporting Lisbona e Braga. Le principali Academy che, con risorse infinitamente più limitate delle squadre inglesi, tedesche, francesi, spagnole ed italiane, ogni anno lanciano a livello internazionale talenti acquisiti dai mercati esteri, soprattutto quelli dei paesi compresi nel trattato di Cotonou, da quello sudamericano, oppure buoni giocatori acquistati da interessanti club europei, rimanendo però, nel contempo, ad alto livello nelle competizioni del vecchio continente.

Club virtuosi e, cosa fondamentale che passa troppo spesso sotto silenzio, con i conti in ordine! Con il lavoro, LUNGIMIRANTE, dei settori giovanili creano un CIRCOLO VIRTUOSO che si autoalimenta.

Il calcio italiano da quanti anni non sforna un giocatore di caratura internazionale di livello assoluto? Oggi sono pochissimi i giocatori che possiamo definire top player, tra questi, Marco Verratti e pensare che in Italia la maggior parte lo ritiene un giocatore normale e troppi mettono in dubbio le sue qualità.

Basta leggere le interviste di giocatori come Sua Maestà Messi, Neymar, Sergio Ramos o da ultimo un tale di nome Gigi Buffon per capire quanto sia uno dei centrocampisti più forti degli ultimi venti o trent’anni a livello mondiale.

A lui possiamo, forse aggiungere Donnarumma e Barella.

L’unica attenuante alla difficoltà nell’inserimento dei giovani può ricercarsi nell’allungamento delle carriere dei calciatori 

Per decenni abbiamo sfornato campioni invidiati da tutto il mondo.

Abbiamo creato dualismi incredibili sui mitici numeri dieci intesi come giocatori di fantasia o in grado di cambiare la partita con le loro giocate: Mazzola – Rivera, Baggio – Mancini, Del Piero-Totti, tralasciando, si fa per dire ovviamente, Zola, Antognoni, il Barone Causio, Donadoni, il Principe Giannini, Bruno Conti, Cassano, Pirlo e chissà quanti ne ho dimenticati.

Parliamo un attimo di difensori? Si dai, facciamolo.

Limitiamoci agli ultimi trenta anni: Gentile, Cabrini, Scirea, Maldini, Baresi, Nesta, Cannavaro, Vierchowod, Chiellini, per parlare del massimo di livello planetario, ma poi ci sono i Tassotti, Costacurta, Galli, Materazzi, Ferri, Nela, Barzagli, Mannini, Signorini e anche qui l’elenco potrebbe continuare.

 Per non parlare poi degli attaccanti: Graziani, Pruzzo, Vieri, Inzaghi, Signori, Montella, Casiraghi, Massaro, Simone, Luca Vialli, Sandro Melli, Gilardino, Toni, Di Natale, Quagliarella e anche qui potrei continuare.

Solo con i portieri abbiamo mantenuto alto il livello, anche se non vedo uno Zenga, un Giovanni Galli, un Pagliuca, ne tantomeno un Gigi Buffon, ma il livello resta elevato.

Per quanto concerne i giocatori di movimento, negli ultimi dieci, quindici anni sembra che la “fabbrica” capace di produrre talenti in serie, alcuni di assoluto livello mondiale, ma moltissimi di alto livello, abbia chiuso.

Dal 2006 la caduta del livello della Serie A è stata vertiginosa. Una volta che hanno smesso di giocare i giocatori nati dal 1970 al 1980, il ricambio generazionale è stato quasi pari a zero.

Ci siamo mai chiesto il perchè? Oggi in molti, moltissimi, forse troppi, accusano il venire meno del calcio di strada.

In parte sono concorde. Ma può essere solo questa la causa?

Vogliamo dire quindi che tutto quell’elenco di campioni che ho citato prima e al quale ne mancano almeno altrettanti è esistito solo per il calcio di strada?

Per me Roberto Mancini è paragonabile ad una divinità assoluta. Lui a sedici anni giocava in Serie A e segnava nel Bologna nove goal. A tredici anni era già un ‘professionista’. Aveva molto tempo per giocare per  strada? Idem Roberto Baggio, forse il più forte giocatore della storia del calcio italiano.

Si, forse dai cinque ai dieci anni hanno giocato molto nel campetto sotto casa, ma poi, la maggior parte di loro, ha intrapreso una carriera da professionista e quindi non solo si allenava tutti i giorni e credo non gli fosse permesso di andare anche in piazzetta. Si fossero mai fatti male, spiegarlo poi alle società non sarebbe stato semplice!

Di certo la strada è stata determinante, ben diverso da importante, per il calcio dilettantistico dove si assiste al vero e gravissimo impoverimento tecnico.

Sicuramente la strada è stata determinate per gli aspetti coordinativi nei bambini e quindi, in parte, anche per i professionisti di altissimo profilo e livello.

Però addossare il fallimento totale e totalizzante della qualità dei giocatori italiani alla mancanza degli oratori, delle piazzette e dei campetti sotto casa, mi sembra troppo riduzionistico e riduttivo. Il non voler dire la verità. Soprattutto il non voler cercare la verità.

Il calcio è in continua e costante evoluzione. In Italia si parla davvero troppo poco di metodologia dell’allenamento. Quando se ne parla, a mio personale modo di vedere, lo si fa, spesso, in maniera pressapochistica, superficiale e molto spesso errata.

Io mi occupo, ormai da qualche anno, praticamente quasi a tempo pieno, di metodologia.

Sono e resto uno studente di metodologia, malgrado nel giugno 2021 abbia dato vita ad una mia scuola, la AMC FOOTBALL ACADEMY.

Da continuo studente, proprio perchè il calcio è in costante e continua evoluzione – come l’acqua di un fiume non lo puoi arrestare, ma devi seguire la corrente – cerco di capire il modus operandi delle altre nazioni europee e mi accorgo sempre più che chi oggi è più evoluto fonda le sue radici in quello che viene definito “metodo spagnolo”, che però trae la sua indiscussa e indiscutibile radice dalla scuola olandese.

Poi ognuno ci deve, come DOVEROSO sia, mettere del suo e personalizzare il percorso tenendo conto anche degli aspetti delle neuroscienze e ancora di più della parte emotiva dell’apprendimento.

Ecco che qui, a mio modesto avviso, nasce il problema. La presunzione italica.

Qui, tranne rarissimi casi, come quello di Filippo Galli al Milan dove, forse per primo, introdusse in modo pionIeristico un pensiero aperto , con un approccio metodologico co-costruito insieme alle varie professionalità , ogni società non segue una linea comune.

Questo per me è completamente sbagliato.

Conosco molti casi dove si impone un sistema di gioco, ma questo non ha nulla a che vedere con la metodologia, anzi, paradossalmente è proprio contro la metodologia.

Il sistema di gioco, tanto caro a chi commenta e scrive di calcio, è proprio l’anacronismo italico. In un calcio sempre più senza ruoli, senza nemmeno funzioni, ma fatto di spazi, qui, a dimostrazione della nostra incredibile ed insopportabile presunzione, passiamo ancora ore ed ore a parlare di difesa a quattro, a tre, di braccetti e cazzate simili.

Questo si ripercuote, ovviamente, sul metodo di lavoro nei settori giovanili, dove, sempre di più. separiamo le parti.

Per anni ed anni abbiamo dato una rilevanza incredibile alle capacità condizionali, separandole in modo netto e deciso dal contesto gioco, creando cosi probabilmente degli ottimi atleti, ma, quasi certamente, giocatori con poca comprensione del gioco del calcio.

Abbiamo riempito i campi di coni, birilli e cinesini, creando attività molto simili a “Giochi senza frontiere”, ma sempre più distanti dalla realtà del gioco.

Tutto questo ha, come conseguenza, due risultati. Il gioco espresso dalle squadre italiane è, quasi sempre, brutto. La fase difensiva è assolutamente predominante rispetto a quella offensiva.

Oggi mancano giocatori di creatività. Conti, Causio, Baggio, Mancini, Del Piero, Totti, Zola, Pirlo, Cassano, ma anche Morfeo,  Diamanti, Flachi, Robbiati, Doni, ossia quelli estrosi, quelli capaci di vedere ciò che altri non vedono, percepire in anticipo ciò che la maggior parte percepisce a giochi fatti.

E’ solo “colpa” di madri e padri non più capaci a procreare talenti?

Oppure abbiamo intrapreso volontariamente la strada chiamata “Via del risultato ad ogni costo” che quindi vede nel bambino talentuoso di sei o sette anni un limite alla vittoria con le sue giocate che spesso, a quell’età, portano ad errori?

Ignorando che è proprio su quegli errori che si sono fondate le giocate con cui Mancini, Baggio, Del Piero, Totti, Zola, Cassano e Flachi, giusto per citarne alcuni, infiammarono decine di migliaia di anime dentro e fuori dagli stadi.

Ho la convinzione che a livello giovanile si sia, da un paio di decenni almeno, intrapreso volontariamente la via del “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”.

Per fare questo anche le selezioni dei giovani professionisti si sono orientate su giocatori più pronti dal punto di vista fisico e decisamente meno dal punto di vista del talento, della creatività, della spregiudicatezza nell’osare.

Oggi un calcio fatto di microsistemi, di micro partite dentro le partite, avrebbe, anzi no, ha bisogno del futsal. Ma qui si apre un altro capitolo di cui stiamo parlando nel blog in altri articoli.

Qualche società si sta muovendo in questa direzione anche se è ancora da stabilire se lo stia facendo con il giusto approccio.

Ma è poco, troppo poco!

La base, la grande base, che rappresenta l’ottanta per cento del calcio, è formata dai settori giovanili dilettantistici. Il calcio dilettantistico e giovanile continua a rappresentare il principale movimento sportivo presente in Italia: nel 2021, non ho dati più recenti,  si contano 11.861 società e 51.343 squadre, per un totale di 1.112.343 calciatrici e calciatori…FINE PRIMA PARTECONTINUA

BIO: Alessandro Mazzarello, è nato a Genova il 3 agosto del 1977.

Laureato in giurisprudenza. Di professione, da quattro anni, Docente Scolastico, dopo aver fatto per venti anni consulenza a privati ed imprese in campo finanziario e di strategie commerciali.

La sua vera e assoluta passione è, da sempre, il calcio. Per diciotto anni ha praticato il futsal a buoni livelli, dove ha avuto anche il doppio ruolo di allenatore – giocatore in serie C/1, perdendo la finale per l’accesso in serie B con una piccola realtà e dove ha anche allenato la Rappresentativa Ligure, portandola, unica volta nella storia, alle semifinali nazionali.

Smette di giocare, a trentacinque anni, in possesso della LICENZA UEFA B e LICENZA ALLENATORE CALCIO A 5, ha iniziato ad allenare nei settori giovanili, togliendosi, da subito, enormi soddisfazioni. Alcuni dei ragazzi che ha avuto la fortuna di allenare sono oggi dei professionisti o protagonisti assoluti nel campionato di serie D. Nei suoi anni da allenatore ha avuto modo di iniziare a sperimentare la sua metodologia, un misto tra artigiano nel suo laboratorio e alchimista. La più bella esperienza quella come Responsabile Tecnico, dove ha affinato quello che poi è diventato il suo presente e, ne è certo, sarà il suo futuro, il percorso di formazione e approfondimento metodologico con la AMC FOOTBALL ACADEMY.

AMC FOOTBALL ACADEMY nasce dopo tanto, molto studio che ha parallelamente portato avanti alla sperimentazione sul campo e grazie anche ad importanti collaborazioni e costanti e continui confronti con importanti esperti del settore. Ha deciso di studiare la realtà del gioco e la sua costante e continua evoluzione, partendo sempre dal perchè di un cosa.

Determinante la creazione della P&M COACHING e PM SOCCER LAB di cui è co-founder insieme al collega mister Pasquale Palermo. Insieme hanno organizzato più di trenta incontri di formazione on line, con, adggi, oltre duecentomila visualizzazioni.

Sono sempre più convinto che possedere una LICENZA UEFA, qualunque essa sia, debba essere un punto di partenza e non di arrivo.

Costanti aggiornamenti e approfondimenti sono la sola ed unica via per poter pensare di condividere delle conoscenze con i propri giocatori e con le proprie giocatrici.

Volersi sempre migliorare arricchendo il bagaglio delle conoscenze sia la sola ed unica strada per elevare il livello del proprio lavoro sul campo.

3 risposte

  1. Gentilissimo Alessandro, tu poni giustamente l’accento sul 2006, come anno in cui si evidenzia una forte decadenza del calcio italiano.

    Facendo anche mie, perchè convincenti (ed in parte già nella mia convinzione), le tue tesi tecniche, ti faccio notare il problema economico.

    Il calcio italiano, economicamente, è vissuto su una bolla a dovuta al giochetto di gonfiare i bilanci oppure di indebitarsi oltre ogni limite. Ti ricordo il fallimento della Fiorentina, la crisi pre- fallimentare della Roma (per sanare si è distrutto un patrimonio familiare), ma anche di di Milan ed Inter. Ben 6 delle sette sorelle. Lazio e Parma sono state salvate nekl modo che tutti sanno.

    Una “pezza” viene messa dalla legge sullo spalma ammortamenti per 10 anni, in modo da diluire in questo tempo gli attivi legati alla valutazione dei calciatori (dettata dalla crescita delle plusvalenze non sempre coerenti con il valore dei calciatori). Nel 2006 l’UE boccia la norma italiana e le squadre italiane devono, da un lato fare in conti con la realtà e dall’altra mettere ancora una “pezza” (la valutazione del marchio in bilancio).

    Sostanzialmente, i grandi finanziatori del calcio italiano per vari motivi, cominciano a tirarsi indietro e avviano politiche economiche restrittive.

    Questo, ovviamente, significa il non attirare più i grandi campioni ed, anzi, favorire l’esodo di italiani verso i campionati esteri.

    A tutto questo va aggiunto che le big italiane si sono fatte sfuggire il grande business “TV a pagamento – Sponsor”, in quanto sono andati ognuno per proprio conto, finendo per svilire economicamente il valore del campionato di Serie A.

    Oggi il Napoli, per fortuna ed ho esposta la sua bandiera fuori al mio balcone (vivo nell’area metropolitana di Napoli), ha vinto il campionato di Serie A, oltre che per meriti propri, per assenza di competitors.

    Purtroppo, non è solo un problema tecnico (è ovviamente anche quello) ed economico, ma è un grave problema di mentalità nel pubblico e negli addetti ai lavori.

    Un saluto e complimenti al Napoli.

    1. Ciao Giuseppe e, come sempre, grazie per il tuo commento. Mi permetto di risponderti in vece di Alessandro. Alcuni aspetti da te toccati saranno oggetto della seconda e terza parte dell’articolo.
      Da sempre uno dei problemi da superare riguarda la capacità di proporsi come sistema, anzichè in modo parcellizzato, agli stakeholder.
      Altri Paesi, l’Inghilterra su tutti hanno un prodotto ad oggi migliore perchè in linea generale giocano un calcio che regala più emozioni anche a chi non è tifoso di questa o di quella squadra. A presto!

  2. Salve,

    Un bellissimo articolo che lascia quel che è secondo un vuoto enorme: dirigenti che ragionino su queste idee. Senza di loro, allenatori come me, che mettono da parte il proprio ego per la crescita dei ragazzi, a discapito del risultato e di risultare “bravo” ai più vengono solo che penalizzati. Ormai ho 27 anni e sono già 10 che alleno e vedo sempre le stesse scene, sento sempre gli stessi discorsi che vanno nel verso opposto alla crescita. Spero per l’Italia calcistica che ci sia prima o poi questo cambiamento, altrimenti sarà sempre più declino. Mi fa piacere aver scritto proprio oggi una tesi per il corso da match analyst ed essere arrivati, tramite lo studio dei dati, alla stessa vostra conclusione: la premier da più emozioni, ormai vincere non basta. Cruyff lo disse molto tempo prima di oggi.
    Grazie e buona giornata

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