…Nella gran parte dei settori giovanili dilettantistici non si lavora come si dovrebbe. Lo vedo, lo constato, lo tocco con mano girando per i campi. In molti casi manca la necessaria preparazione. Si scimmiotta, maledetto youtube, quel poco che si trova degli allenamenti dei grandi allenatori. Senza sapere il perchè di quella cosa, senza comprendere, senza contestualizzarla.
Allenare, come dico sempre ai miei corsisti, è un lavoro.
Anche, anzi soprattutto, nei dilettanti, che sono la fucina dei futuri calciatori, in particolare nell’ Attività di Base, serve essere PROFESSIONALI, ossia dei professionisti nel modo di lavorare.
Le due ore scarse che si passano in campo non sono il lavoro del mister. Quelle sono il divertimento. Il vero lavoro sono le ore prima a studiare cosa si deve fare e le ore successive a vedere cosa è funzionato e cosa no.
Certo, mi direte, sono molte, molte ore da investire. Quasi sempre i rimborsi sono nulli, magari cento euro al mese. Quindi… Un cane che si morde la coda mi verrebbe da dire, ma se non invertiamo velocemente la rotta, se non usciamo da quell’area maledetta dove il cartello appeso recita “Qui si è sempre fatto così”, non potremo che peggiorare. Avviarci, inesorabili, verso un baratro che ormai vediamo prossimo.
I due mondiali mancati sono solo una piccola conseguenza dei problemi, enormi, che non vogliamo vedere.
Quando penso, da formatore di allenatori, al calcio italiano, mi vengono in mente gli orchestrali del Titanic, che scelgono di suonare mentre la nave sta affondando.
Avere cinque squadre in semifinale nelle Coppe Europee, spazza via tutti gli incredibili problemi con un colpo di spazzola?
A sentire i soloni del calcio parrebbe di si.
Solo gli anarchici della Bobo TV la pensano diversamente, ma ormai il mainstream li considera eretici, senza capire che, al contrario, sono i soli ad essere collegati al fiume che scorre. Possiamo discutere i modi, possiamo discutere i termini, ma non possiamo discutere, assolutamente, il quid, ossia l’elemento fondante del pensiero.
Che il calcio italiano non funzioni ci sono altri elementi, qualora quanto detto non sia ancora sufficiente, a palesarlo, dimostrarlo, gridarlo.
Il calcio è spettacolo. Pier Paolo Pasolini, uno dei mostri sacri della cultura e del pensiero italiano in un articolo che mi pare sia del 1971 scrisse: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo.
E’ rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci.
Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.
Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio sì. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo.“
A suggellare questo pensiero, ossia che il calcio sia spettacolo, e come tale debba essere trattato, mi preme ricordare come la squadra forse più famosa nella storia del calcio sia l’Olanda del 1974 , che, badate bene , non vinse nulla, ma con il suo totaalvoetabal (calcio totale) entusiasmò non solo gli olandesi, ma tutto il mondo e ancora oggi, quarantanove anni dopo, è un assoluto punto di riferimento. Ripeto, non vinse nulla, ma fece spettacolo.
Se torniamo al calcio di casa nostra e pensiamo ad una squadra bella da vedere, chi ci viene in mente, a prescindere dal tifo di appartenenza? Indiscutibilmente al Milan di Arrigo Sacchi.
Celebri, ma soprattutto emblematiche e significative, alcune sue frasi: “ “Noi al Milan coniugavamo tre verbi: vincere, convincere, divertire” , la prima che mi preme sottolineare, la seconda, ben più recente, pronunciata in convegno a Ravenna, dove, rispondendo alla domanda di un giornalista, diede una risposta che rende bene l’idea della dicotomia che sto cercando di portare alla luce: “questo è un Paese difficile e il calcio non è altro che lo specchio della vita sociale, culturale e politica di un Paese. Le sembra che l’Italia sia incline al cambiamento? “.
Sempre pensando al nostro calcio, dove ci sono state, ante 2006, molte squadre vincenti, a parte il Milan di Sacchi che ha anche vinto ed diventato per la Uefa la squadra degli “invincibili”, le squadre più belle e di cui ci si ricorda di più non mi pare abbiano vinto.
La Roma di Spalletti, il Foggia di Zeman (è indubbio che abbia lasciato una impronta profonda ed indelebile anche altrove, ma Zemanlandia è poesia allo stato puro) e il Napoli di Sarri, definito ottovolante da quanto fosse stupendo. Bene, nessuna ha vinto nulla, ma le emozioni che hanno regalato questi tre allenatori sono destinate alla storia, ossia alla immortalità, come l’Olanda di Rinus Michels del 1974.
Dopo Sacchi il Milan vinse ancora e molto. Di certo se lo ricordano i tifosi del Milan, ma nessuna ha mai eguagliato il pathos, la bellezza del Milan di Sacchi. Allora non basta vincere per restare per sempre nella storia. Allora vincere non è la sola cosa che conta se non mi assicura l’immortalità.
Il calcio italiano non offre assolutamente uno spettacolo di livello. A dirlo non sono io, ma sono i fatti, i dati, i numeri, che sono la sola ed unica cosa che non mente mai. Sui numeri ci torneremo, ma un passo al volta in questa assurda dicotomia.
Per andare avanti, come spesso nella vita, occorre fare un passo indietro, magari anche più di uno.
Il calcio italiano negli anni ’80 e ’90 era probabilmente anche meglio della Premier odierna. Lo era perchè aveva giocatori italiani, davvero tantissimi, di altissimo livello. Anche i “gregari” erano talmente bravi che nel calcio moderno sarebbero considerati campioni assoluti.
Poi importava i migliori stranieri in assoluto. Anche le piccole squadre si permettevano degli stranieri di una qualità assoluta. Basti pensare a Zico all’Udinese ad esempio. Skuhravy e Aguilera al Genoa, Casagrande al Torino, Elkjaer e poi Caniggia al Verona, Stromberg all’Atalanta e, anche qui, ci sarebbe da perdere la testa a ripensarci a quanti campioni assoluti sono passati nelle cosiddette medio-piccole squadre.
Anzi, in casi come Sampdoria prima, Parma poi e infine Lazio, gli stranieri top player hanno portato squadre fino ad allora di provincia ai vertici non solo del campionato in assoluto più bello del pianeta, ma ai vertici del calcio europeo e quindi mondiale.
Erano però, in Sampdoria e Parma, solo tre e quindi questo avvalora, qualora ce ne fosse bisogno, ancora di più la tesi che il prodotto italiano, ossia i calciatori nostrani, erano di livello assoluto.
Non solo quelli ultra famosi ed ultra conosciuti. Un Ancelotti oggi esiste? Un Attilio Lombardo? Un Chicco Evani? E anche qui la lista potrebbe essere lunghissima.
Quindi la fabbrica ha chiuso se non solo non produciamo più stelle, ma nemmeno buoni – ottimi giocatori o li produciamo in numero assolutamente limitato?
La serie A post 2006 ha iniziato ad importare un numero sempre maggiore di stranieri, ma non più le stelle, ormai attratta dalla Liga e dalla Premier e ultimamente solo dalla Premier, ma prendendo campioni sul viale del tramonto, prossimi al canto del cigno, presunti campioni bisognosi di dimostrare di esserlo dopo aver fallito in top club europei e una marea di giocatori non all’altezza.
In mezzo a questo marasma qualche futuro campione che, non appena paventa al mondo di essere tale, non vede l’ora di andare in Premier. Stando ai dati in mio possesso oggi circa il 68% dei giocatori di serie A sono stranieri. Quindi vuol dire che su 10 giocatori praticamente 7 sono stranieri. Io tra questi sette vedo ben pochi giocatori di qualità, anzi vedo spesso l’esatto opposto.
La domanda che mi sono posto spesso e che ho, provocatoriamente, posto spesso sui miei account social è che se i settori giovanili italiani non sono in grado di produrre giocatori validi tanto quanto il 90% di quel 70%, allora è meglio chiudere i settori giovanili. O c’è altro sotto, dietro, sopra e di lato?
Non è pensabile che madri e padri non procreino più ragazzi con capacità almeno pari a questi stranieri, che non sono Gullit, Van Basten, Maradona, Platini, Papin, Savicevic, Trezeguet, Matthaus, Brehme, RiJkaard, Cerezo, Zidane, Kakà, Jugovic, Seedorf e altre decine di immensi campioni capaci con le loro gesta di infiammare le platee.
Anche le squadre del campionato Primavera sono invase di stranieri.
Allora ho cercato di capire quanti ragazzi della Primavera diventano poi giocatori professionisti. Negli ultimi 10 anni appena 622 ragazzi cresciuti in settori giovanili sono riusciti a calcare un campo di A, su un totale di 710mila tesserati.
L’Italia è addirittura ultima in Europa per il lancio dei giovani dal vivaio in Serie A: neppure il 10% dei calciatori del nostro campionato sono un “prodotto” del club di appartenenza.
Spesso si tende a pensare che basti arrivare sul gradino più alto del percorso giovanile per poi arrivare a realizzare il sogno di una vita, ma invece non è così: il 66% dei ragazzi usciti dalle Primavere si perde per strada ritrovandosi a giocare tra i dilettanti.
In questa sfida impossibile, o meglio dire scalata infinita, ci sono però squadre italiane che riescono a favorire maggiormente l’inserimento dei propri giovani nelle prime squadre. Riferendosi alla classifica stilata da Fanpage.it, al primo posto troviamo la Roma con ben 44 giocatori tra A e B formatosi nel proprio vivaio. Seguono poi: Milan, Inter, Juventus e Atalanta. In Europa si parla invece di numeri molto più elevati, dominati da Partizan Belgrado, Ajax e Barcellona, che compongono i primi tre gradini del podio. Seguono poi Sporting Lisbona e Dinamo Zagabria.
Come possiamo vedere, dati alla mano, quindi fatti e non chiacchiere ( chi mi conosce o ha imparato a conoscermi sa che odio le chiacchiere che come mi ha insegnato a dire un mio amico romano “stanno a zero” ) , i numeri, impietosi ci confermano il continuo declino di un movimento calcistico, quello italiano. Però abbiamo cinque squadre nelle semifinali europee e allora mettiamo la polvere sotto al tappeto.
Andrebbe poi ulteriormente diviso il problema tra calcio italiano, inteso come movimento calcistico di Serie A e calcio degli italiani, inteso, appunto come calciatori aventi il passaporto tricolore.
In questo viaggio dicotomico, quasi paradossale, ma assolutamente doveroso e ahimè verissimo, come dentro un roseto, si intrecciano i rovi e troviamo davvero molteplici spine.
Ripensiamo a Pasolini, alle sue parole sullo spettacolo. Mettiamoci negli occhi le immagini di Cruyff in quella meravigliosa Olanda, o il trio olandese delle meraviglie Van Basten-Gullit-Rijkaard, o ancora quel tridente dei sogni Rambaudi-Signori-Baiano , passiamo al San Paolo con Insigne-Higuain-Callejon per finire all’Olimpico con Mancini-Totti-Taddei.
Cosa hanno in comune queste squadre?
La voglia di vincere, di creare emozioni, di dare spettacolo, di fare goal!
Allora non posso non pensare ad una delle mie prime slide dell’incontro 1 del corso 1 del percorso metodologico AMC FOOTBALLA ACADEMY e alla regola 10 del regolamento del gioco del calcio: “vince la squadra che segna un goal in più dell’avversario”.
Quando quel lontano e magico 26 ottobre 1863 alla Freemason’s Tavern di Great Queen Street, nel rione di Holborn, si riunirono 11 club dell’area di Londra per uniformare i loro regolamenti, decisero di dare al gioco una visione assolutamente votata all’attacco. Diversamente avrebbero scritto vince chi prende un goal in meno.
La visione è diametralmente opposta, oserei dire antitetica.
Le squadre che restano nella storia, a prescindere che poi abbiano realmente vinto o meno, sono quelle che giocano per segnare, per il pathos del pubblico, per divertire divertendosi.
Nel mondo, oltre al Milan di Sacchi e all’Olanda di Rinus Michels, è passata alla storia, quindi consegnata per sempre all’eternità, un’altra squadra.
Quale? Il Barcellona di Pep Guardiola! Quel Barcellona vinse tutto e anche più volte.
Messi, Iniesta e Xavi erano arte in movimento. Guardiola continuerà poi a creare arte ovunque sia andato, rinnovando ed evolvendo sempre se stesso. Diciamo che Guardiola scava il corso del fiume al cui interno il calcio si evolve. Ciò che contraddistinse quel Barça fu la voglia di vincere e non la paura di perdere.
Quante squadre della nostra serie A hanno questo atteggiamento? Al di là di quello che i tecnici professano?
Tra il dire e il fare c’è di mezzo non il mare, ma una galassia.
Quanti tecnici negli ultimi quindici anni, quelli del declino della serie A, hanno combattuto un declino tecnico evidente con la forza delle idee? Eh si le idee sono la vera arma che possa trasformare una difficoltà in opportunità.
Direi che i tecnici evoluti, che onorano a pieno la regola 10 del Gioco del Calcio, sono davvero pochissimi.
Ancelotti che negli anni si è, a mio avviso, evoluto molto, probabilmente grazie anche al figlio Davide (lì perchè bravissimo e non in quanto figlio).
Mancini, che è cambiato in modo esponenziale da quando ha preso la guida tecnica della nazionale rispetto al Roberto allenatore di club.
Sarri, di cui abbiamo già parlato, anche se dopo Napoli, paradossalmente iniziando a vincere, non ha mai più ripetuto quel calcio meraviglioso visto all’ombra del Vesuvio. Zeman, che ha proseguito nel suo credo, ma non evolvendosi a mio giudizio.
Spalletti, che al contrario di Zeman si è evoluto eccome!
Una menzione anche per tecnici del passato quali, Eriksson con la Roma, Scala con il Parma, Malesani con la Fiorentina.
Tornando al presente “the last but not the least” Roberto De Zerbi, il vero innovatore assoluto!
Colui che in serie A in troppi hanno deriso, preso per pazzo, per visionario e che ora sta strabiliando il mondo intero facendo cose incredibili nel campionato più difficile del mondo, ossia la Premier, ricevendo pubblici attestati di stima da Klopp e Guardiola, due dei più grandi allenatori della storia del calcio.
FINE 2^ PARTE…CONTINUA