TRIBUTO A ROBERTO DE ZERBI.

Guardiola ( che ne tesse le lodi da tempo avendolo, subitaneamente, va da sé, per lampanti competenze ed immediate vibrazioni, “riconosciuto”) lo ha appena definito uno degli allenatori più influenti degli ultimi vent’ anni, affermando che il Brighton è, attualmente, senza ombra di dubbio, la migliore squadra del pianeta ( verosimilmente, naturalmente, circoscrivendo l’affermazione alla capacità espressiva di una compagine ovviamente inferiore a molte altre qualora il parametro fosse il potenziale livello assoluto, ergo innalzando implicitamente il valore del lavoro effettuato).

L’Inghilterra è, unanimemente, ai suoi piedi( con Klopp e Lopetegui letteralmente estasiati da quanto ammirato in alcune circostanze); l’Italia lo conosce bene ma, a onor del vero, nel momento in cui la professione lo ha spinto a valicare le Alpi verso Oriente, in direzione Ucraina ( nei mesi immediatamente precedenti l’infausto scoppio di un conflitto ignobile, come lo sono tutti quelli di cui l’uomo si è reso protagonista dai primordi), l’idea di quanto il nostro campionato stesse privandosi di un protagonista assoluto del calcio moderno non pare essere stata epidermicamente avvertita a sufficienza.

Arteta ( allievo di Pep ed evidentemente sensibile, per eredità di formazione, alle vibrazioni analitiche suggerite dall’estetica concettuale) sembrerebbe averlo contattato nel corso della corrente annata affinchè meglio, il tecnico dell’Arsenal,  potesse comprendere la capacità di collocare, in zone nevralgiche del terreno di gioco, i terzini in fase di costruzione (spiegherò meglio cammin facendo).

Subentrato a stagione in corso (dopo essersi preliminarmente soffermato sulla valutazione di quella che avrebbe dovuto essere la rosa a disposizione per capire se ci fossero i margini per cui quest’ultima risultasse adatta al gioco da sciorinare e altresì sostituendo un manager che si era contraddistinto al punto tale, sulle rive della contea dell’East Sussex, da guadagnare la chiamata dell’ ambizioso Chelsea), Roberto De Zerbi ( a volte la narrazione sottende la predilezione di cornici introduttive volte ad esaltare enfaticamente i contenuti) ha condotto ( attraverso concetti sublimi per cui anche l’erba accanitamente da calpestare ritengo sia stata onorata di poterlo essere) per la prima volta nella storia il Brighton alla qualificazione nelle competizioni europee.

Un’impresa di per sé lodevole e praticamente inimmaginabile, raggiunta scegliendo coerentemente la strada che per molti avrebbe potuto essere la più difficile, la più impegnativa, la più rischiosa, tendenzialmente più adatta ad un’esposizione più prettamente idonea ad un tendone da “circo” (luogo che, per alcuni, dovrebbe essere unicamente prescelto perché possa essere ammirato “lo spettacolo”), tra l’altro fra i colossi del campionato più impegnativo e qualitativo del panorama globale: quella di un’aulica espressione che, abbracciando il dominio di campo e pallone come concetto basilare ed identitario, determinasse l’innalzamento di  aspetti di cui il mondo dovrebbe essere invaso, vale a dire bellezza, conoscenza, qualità, contemporaneamente esibiti, sfoggiati, ostentati, sbandierati in nome di un’educazione umana prima ancora che sportiva e volta al rispetto del proprio lavoro e di chi ne fruisce in termini di passione, emozioni, attaccamento, brividi.

Un sistema di gioco, 1-4-2-3-1 dell’ex tecnico del Sassuolo (suscettibile di variabili numeriche qualora esclusivamente graficamente valutato, ma, è noto,sono i princìpi ed i concetti, al di là dei numeri,  a determinare il disegno tattico), inequivocabilmente volto alla costruzione dal basso (la migliore che esista, Pep dixit), con i terzini che affiancano i mediani di riferimento in zone del terreno di gioco solitamente diversamente occupate ( in alcune circostanze Theo Hernandez ha adempiuto a questa interpretazione del ruolo), con un uomo pronto a varcare la soglia verticale della pressione avversaria, da scavalcare puntualmente affinchè, attirati gli elementi della compagine sfidante, possano essere sfruttati gli spazi inevitabilmente a disposizione, con i quattro uomini più avanzati facilitati nella possibilità di gestire, palla a terra, il frutto della manovra.

L’ampiezza è infatti appannaggio degli esterni d’attacco, doverosamente adatti all’uno contro uno, con movimenti circostanti direzionati a favorire lo scarico al portatore di palla e contemporaneamente, alternativamente , l’attacco alla profondità, con una disposizione verticale dei mediani e del trequartista in appoggio alla punta centrale.

Naturalmente, sorvolando su concetti basilari che suppongo essere a conoscenza di chi mi sta ascoltando con gli occhi, il principale movente della costruzione dal basso e del possesso è la creazione di spazio alle spalle della linea mediana, successivamente da ottimizzare, in rifinitura, attraverso verticalizzazioni e cambi di gioco favoriti dai movimenti degli uomini più offensivi.

Attraverso sovrapposizioni, tagli, triangolazioni, l’obiettivo è creare superiorità numerica in diverse zone del terreno di gioco.

In fase difensiva i riferimenti sono rappresentati dall’uomo, in un uno contro uno comunque più ragionato rispetto ad alcune evoluzioni estreme di allenatori come Gasperini e Juric, e dalla chiusura, specie del trequartista e della punta, delle linee di passaggio, attraverso la compattezza tipica di una squadra corta che, non disdegnando lunghe diagonali, ha come primo obiettivo l’immediato recupero della sfera.

A seconda della zona in cui il pallone viene recuperato si decide se ripartire da una manovra ragionata o se attaccare subito la profondità; il principale pericolo, ovviamente sottinteso e considerato dallo staff, è rappresentato dalle transizioni difensive, considerando il molto campo alle spalle in caso di perdita del possesso palla, motivo per il quale è necessario far leva su difensori centrali esplosivi e veloci per evitare di subire contrattacchi decisivi e per mantenere una linea alta coprendo al meglio gli spazi fra il portatore di palla e l’attaccante.

La posizione “scalata” di Caicedo e Mac Allister ha consentito al Brighton di risalire il campo passando per il centro, toccando il pallone massimo due volte, attirando la pressione avversaria per poi scaricare sull’esterno attraverso passaggi filtranti o triangolazioni a tutto campo: un gioco dinamico volto, attraverso la tecnica, a disordinare l’impianto della squadra avversaria muovendo il pallone secondo tempi sincronicamente allenati.

Non basta costruire dal basso o conoscere determinate linee per sorprendere efficacemente il rivale: De Zerbi punta molto sull’attrarre l’individualità avversaria nell’intento di dare la sensazione che il pallone possa essere recuperato dai dirimpettai per poi saltare la pressione, come detto in precedenza; è per questo che servono elementi tecnicamente validi nel controllo della sfera ed è per questo che Webster, fedelissimo di Potter (ed in ogni caso stimatissimo anche da De Zerbi), ha perso la titolarità a favore del più qualitativo Colwill che, per onestà intellettuale, ha “usufruito” della peculiarità di essere mancino, favorendo ulteriormente una impostazione che per antonomasia tende alla precisione assoluta.

Alla stregua di quanto raccontato, un uomo decisivo nella stagione è risultato Mitoma che personifica non solo l’idea calcistica di De Zerbi ma il coraggio intrinseco che questo tipo di calcio richiede, accettando il rischio e la giocata.

Ed è particolarmente da lodare come, a favore dell’esaltazione del gruppo e nonostante la caratura del giocatore in questione, la gestione tecnica abbia deciso di poter fare a meno di Trossard, volto nuovo del calcio continentale, ricco di qualità e con un’ottima percezione della porta in fase di finalizzazione, ceduto all’Arsenal.

Roberto sa che migliorare l’individualità comporta un innalzamento dell’espressione collettiva e punta molto sulla crescita di ciascuno dei componenti della rosa: è indispensabile partire dalle qualità e dalle caratteristiche dei calciatori, i quali devono saper presidiare il campo per una giusta occupazione degli spazi, esaltando dinamismo e flessibilità all’interno della conoscenza preliminarmente infusa, offrendo linee di passaggio alla conduzione, in modo tale da consentire al portatore di non forzare la giocata.

Se si perde il possesso in un momento di gestione a centrocampo e l’avversario non ha tempo di spazio e gioco, l’elemento più vicino attacca il possessore, mentre quelli più lontani vanno sui riferimenti, lavorando sulle linee di anticipo.

De Zerbi ha da sempre basato il suo gioco sul possesso, ma, quest’anno, il dominio di palla ed avversario è letteralmente divenuta la norma; del resto, come affermato dallo stesso tecnico bresciano, buttare la palla e andare allo stacco di testa tentando di recuperare su un rimbalzo vuol dire scommettere: i dettagli di un lavoro ben fatto non hanno nulla a che vedere con un benché minimo alone di “scommessa” , di pressapochismo, di minimalismo, di casualità.

Fatti non fummo a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza: competenza e qualità differenziano sempre il valore.

Il destino subìto è soltanto la scuola dei deboli.

  • ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio

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