La Danimarca del 1986
Il 5 giugno 1981 i calciofili italiani sono totalmente ignari dell’ondata di gioia che di lì ad un anno li travolgerà a seguito del trionfo mundial.
Il calcio di casa nostra sta lentamente ed affannosamente tentando di rialzarsi dalla palude del calcioscommesse che da marzo dell’anno precedente ha sconvolto l’ambiente, sconquassando le classifiche e producendo lunghe squalifiche nei confronti di molti protagonisti, tra i quali spiccano calciatori di assoluto valore come Rossi, Giordano, Manfredonia, Albertosi, Pellegrini, Savoldi ed altri.
La nazionale italiana, che Enzo Bearzot ha guidato ad un Europeo giocato in casa e culminato con un quarto posto in seno ad un ambiente ancora sotto shock, è già sicura della qualificazione alla coppa del mondo da giocarsi l’anno venturo in terra spagnola quando, ad inizio estate, è chiamata alla trasferta in terra danese.
I due posti che garantiscono la qualificazione alla fase finale del mondiale sono già ad appannaggio di Italia e Jugoslavia.
Ciò nonostante, il nostro CT decide di mettere in campo la formazione titolare conscio delle insidie che la partita può nascondere.
Sarà, quella di Copenaghen, l’unica sconfitta patita dagli azzurri tra tutti gli incontri, di qualificazione e di fase finale, del mondiale 1982.
Una sconfitta per 3-1 sorprendente ed inaspettata ma assolutamente indolore di cui pochi si ricorderanno nei mesi successivi.
Un incidente all’interno di un percorso che culminerà nella gloria planetaria.
Vista dall’ottica dei danesi, quella partita rappresenta la genesi di uno straordinario periodo di calcio.
Il decennio che sta per iniziare sarà il più proficuo di sempre per il football di questo piccolo paese e culminerà con il trionfo europeo del 1992 a cui la nazionale parteciperà a seguito dell’esclusione della Jugoslavia, qualificatasi sul campo ma destinata alle conseguenze di una della più drammatiche emergenze bellico-umanitarie della storia.
L’ascesa della Danimarca ai vertici del calcio che conta è vista con assoluta simpatia dagli appassionati che intravedono qualcosa di nuovo e di inaspettato all’orizzonte.La benevolenza di cui gode la nazionale scandinava è condivisa a varie latitudini.
Si sta materializzando qualcosa di nuovo nell’aria calcistica.
In realtà la Danimarca, già nel passato, è stata protagonista ma le finale olimpiche del 1908 e del 1912 sono troppo lontane per essere ricordate.
In Italia, tuttavia, non possono essersi dimenticati delle gesta di John Hansen e Harald Nielsen, protagonisti rispettivamente nella Juventus degli anni 50 e nel meraviglioso Bologna del decennio successivo.
Se a ciò aggiungiamo che Allan Simonsen, pallone d’oro nel 1977, è considerato uno dei migliori attaccanti europei la considerazione nei confronti del calcio danese è destinata a salire.
Sono numerosi i giocatori originari della terra danese a migrare in club che in quegli anni la fan da padroni.
Ajax, Bayern, Colonia, Anderlecht, Aston Villa in tutte queste squadre troviamo un danese che, non di rado, è tra i migliori in campo.
E di lì a poco anche il campionato italiano, ovvero la mecca del calcio del tempo, si accorgerà di loro…
Il materiale umano, come dedotto, non manca ma per plasmare una nazionale competitiva è necessario un demiurgo che metta insieme questi giocatori dalla conoscenze calcistiche indissolubili ancorché poco propensi ala disciplina.
Avete presente il lego? Il gioco che da piccoli ci permette di simulare una o più costruzioni?
La Danimarca è la sua patria al punto da avergli dedicato un intero parco giochi che riveste nel Nord Europa un’importanza maggiore rispetto a quella di cui Gardaland gode da noi.
La nazionale danese di inizio anni 80 necessita di una guida che “leghi” i singoli pezzi sino ad ottenere un’edificazione di un impianto di gioco.
Il ragionamento dei vertici del calcio danese è il seguente:“Se le migliori squadre europee cercano con insistenza i nostri calciatori, per quale motivo la nazionale dev’essere considerata una cenerentola del calcio internazionale?”
Ad allenare la squadra viene chiamato il tedesco Sepp Piontek e la scelta si rivela azzeccata.
SEPP PIONTEK (tecnico della Danimarca)
Le sue idee calcistiche vanno di pari passo con un calcio dalla proposta offensiva e dinamica.
La proposta sul terreno verde è simile più a quella olandese che a quella propria del suo paese natio.
Le origine germaniche, tuttavia, lo aiutano nella conduzione fuori dal campo in seno alla quale non sempre gli riesce di imporre una mentalità rigida e disciplinata ma ottiene di far passare concetti quali la coesione, la collaborazione, il collettivo e, cosa importante, che la federazione danese riconosca ai calciatori lo status di professionisti.
Sotto la guida di Piontek i pezzi del lego cominciano ad andare al loro posto e, pur volendo impostare un gioco corale e di possesso, più allena i suoi calciatori e più si rende conto che molti di loro possiedono capacità aerobiche fuori dal comune.
Ci sono almeno 4 o 5 elementi che hanno ricevuto in dote il dono del “cambio di passo”. Dono che, all’interno di un calcio ancora non soffocato dalle linee ravvicinate, può portare vantaggi incommensurabili.
“Ah se solo facessero vita da atleti…” gli viene più volte da pensare.
Ma anche così, le cose non vanno male.
La qualificazione alla fase finale dell’Europeo 1984, all’epoca riservata a sole 8 nazionali del continente, porta al primo eccellente scalpo: l’Inghilterra di Bobby Robson.
In realtà la storica vittoria a Wembley rappresenta solo l’inizio di un percorso fiabesco in cui la leggerezza e la spensieratezza si fonderanno con valori calcistici particolarmente elevati ai quali Piontek addizionerà conoscenze strategiche e una visione di calcio estremamente moderna.
Una fiaba, dicevamo, e non potrebbe essere altrimenti considerato come ci si trovi nel paese che ha dato i natali ad Andersen.
Una favola con un distinguo importante rispetto alle altre perché il lieto fine, nella fattispecie, arriverà con sei anni di ritardo.
All’europeo 84 la Danimarca esordisce contro la Francia strafavorita e padrona di casa.
Platini e compagni devono sudare le proverbiali sette camicie per sconfiggere i danesi condizionati nell’occasione dal grave incidente che mette fuori causa Simonsen.
Pur senza il giocatore più rappresentativo il proseguo del torneo è un crescendo. I biancorossi incantano per la proposta di calcio e arrivano alla semifinale che li vede soccombere, dopo i calci di rigore, al termine di una partita (dominata) contro la Spagna.
La stampa europea, celebrata la Francia campione d’Europa, comincia ad interessarsi ai calciatori danesi.
In un periodo in cui l’Italia campione del mondo si è smarrita, l’Inghilterra si scopre superata e l’Olanda non è ancora sul punto di rinascere, è nella Bassa Scandinavia che spira l’aria nuova.
Laudrup, Elkjaer, Bergreen trovano squadra in Italia. Soren Lerby domina nel centrocampo del Bayern Monaco. Frank Arnesen dispensa pagine di grande calcio tra Olanda e Spagna. John Molby si prende la regia del Liverpool.
Tra due anni, in Messico, arriveranno all’avventura mondiale con un biennio di esperienza in più e tanta qualità.
Piontek è consapevole che in occasione del mondiale messicano la gran parte dei suoi vivrà l’apice della maturità calcistica.
Sarà quello il momento giusto per stupire il mondo.
Al CT poco importa che il livello dei difensori non sia eccelso. A lui interessa che la difesa si muova in blocco, guidata dal totem Morten Olsen, personalità da vendere e visione di gioco da regista.
MORTEN OLSEN (centrocampista e libero)
La Danimarca diventa in poco tempo la seconda nazionale per cui tifare da parte della maggior parte degli appassionati di calcio di passaporto non danese.
A colpire non è solo la spregiudicatezza del gioco.
La tenuta di gara, ad esempio, diventa da subito iconica.
L’idea dei vertici di Hummel, storico fornitore tecnico dei paesi scandinavi, è quella di vestire i danesi con una divisa unica tra le nazionali.
E così, nel biennio 1984-1986, i nostri sfoggiano una maglia per metà rossa e metà caratterizzata da leggere righe biancorosse a cui vengono apposti numeri di colore blu. L’effetto che ne esce, accentuato dai materiali “lucidi” dell’epoca, è qualcosa di mai visto prima.
Non sarà elegante (quale danese lo è?) ma è assolutamente innovativa.
Le tenute da gioco, tuttavia, per quanto particolari e gradevoli a vedersi non portano punti.
Il problema per gli avversari è rappresentato da chi quelle tenute le indossa.
Detto del regista difensivo Morten Olsen il cui percorso ricorda quello svolto un decennio prima da Arie Haan, a cui spettano la prima costruzione e la leadership difensiva in ossequio ad una straripante personalità, è in mezzo al campo che i danesi incantano.
Il casting è quanto di più variegato si possa trovare ma, con l’eccezione di un protagonista, una caratteristica accomuna i protagonisti. Sono tutti calciatori in grado di sviluppare la cosiddetta “doppia fase”. Un mix raro di corsa, interdizione, piedi buoni e geometrie.
Prendiamo, ad esempio, Frank Arnesen.
FRANK ARNESEN (centrocampista)
E’ stato protagonista nell’Ajax del post Cruijff, ha giocato in Belgio nell’Anderlecht (a quei tempi fortissimo) ed in Spagna (Valencia) per poi tornare in Olanda a vincere la Coppa dei Campioni con il PSV Eindhoven dopo sette trionfi nei campionati nazionali ed innumerevoli trofei.
E’ il termometro della squadra.
Un Tardelli con piedi da Overmars!
Ambidestro, in continuo e perenne movimento, è maestro nell’eseguire il cross rasoterra a liberare chi arriva da dietro. Definirlo ala o centrocampista laterale è riduttivo. Secondo alcuni, la facilità nel porre in essere il proverbiale cambio di passo gli ha provocato i problemi cronici alle ginocchia, senza i quali sarebbe risultato ancora più forte.
Le transizioni offensive passano da lui, tra accelerazioni improvvise e un’incredibile capacità di tagliare il campo con passaggi che tracciano sul terreno verde la linea da seguire per arrivare nel minor tempo possibile alla porta.
E che dire di Soren Lerby? In un calcio in cui vige ancora la contrapposizione tra calciatore di qualità e calciatore di quantità, funge da frangiflutti e playmaker indistintamente. Il tutto garantendo chilometri e lucidità.
SOREN LERBY (centrocampista)
Al Bayern Monaco, non propriamente una squadretta, si impone subito per personalità dimostrando innate doti da leader. Impresa non facile quando i tuoi compagni si chiamano Pfaff, Augenthaler, Matthaus, Brehme e Rummenigge. Ha trascorso la sua carriera tra Ajax, Bayern e Psv, dove insieme al connazionale Andersen alzerà nell’88 la coppa dalle grande orecchie.
Chi vuole aver la meglio nei confronti della Danimarca deve, prima, passare su di lui.
Se a questi aggiungiamo il dinamismo di Klaus Berggreen che, per quanto corra non pecca mai di lucidità e sagacia strategica, o di Jesper Olsen (dodicesimo uomo o jolly che dir si voglia) che le gioca praticamente tutte, è possibile supportare anche la storica carenza di mobilità di Molby, unico tra i protagonisti di quella squadra a cui difetta il dinamismo ma in grado come pochi di dare i tempi della manovra e di innestare i due davanti.
Già, i due davanti…
La storia del calcio è piena di coppie di attaccanti che nel corso dei decenni hanno deliziato le platee ma se volessimo, anche per gioco, individuarne una formata da due persone diverse in tutto, finiremmo giocoforza a parlare di loro due.
Il primo è un danese atipico per il solo fatto che è molto elegante.
Si chiama Michael Laudrup.
MIKI LAUDRUP (centrocampista offensivo / attaccante)
Nel calcio degli anni 80 il suo modo di stare in campo viene banalmente derubricato alla voce “seconda punta”.
In realtà è molto di più; è un precursore dei tempi.
La maniera di dribblare, utilizzando ambo i piedi, è un marchio di fabbrica che sarà replicato solo dal fratello Brian. Tende a spostarsi la palla dal destro al sinistro e con tale movimento fa fuori il difensore. Effettua il dribbling quasi sempre disegnando il campo in orizzontale ma la caratteristica di giocare sempre a testa alta lo porta a scorgere prima degli altri i movimenti dei compagni che pesca con filtranti millimetrici.
E’ il dribblomane più cerebrale che si sia mai visto. Non fosse per i modi, sempre gentili da nobile d’altri tempi, verrebbe da paragonarlo a Sivori, anche in virtù dell’attitudine a giocare con i calzettoni abbassati quasi a voler sfidare le pedate degli avversari.
Se deve scegliere tra sostanza e forma sceglie quest’ultima.
Dopo l’esperienza in maglia laziale, conclusasi con una retrocessione nonostante un tandem d’attacco di pura tecnica con Bruno Giordano, il quadriennio juventino non lo vedrà mai consacrarsi del tutto.
Sarà a Barcellona che toccherà l’apice, nel dream team di Johan Crujff in seno al quale svolgerà la funzione di regista offensivo.
Il calcio del maestro olandese lo valorizzerà come nessun altro. La sfacciataggine della compagine azulgrana, lo aiuterà a scrollarsi di dosso la patente di bello senz’anima nel momento in cui alzerà con merito la Coppa dei Campioni.
Al mondiale messicano arriva fresco di vittoria dello scudetto, risultando determinante nella fase conclusiva del torneo dopo che la Roma di Eriksson aveva recuperato otto punti di svantaggio ai rivali bianconeri.
Il compagno di reparto, come detto, è l’esatto opposto.
Preben Elkjaer Larsen, denominato “cavallo pazzo” rappresenta per quei tempi un giocatore assolutamente innovativo.
PREBEN ELKJAER (attaccante)
Chi lo definisce un bisonte di assoluta potenza non gli rende il giusto merito.
A differenza di Laudrup, è molto più concreto ma ciò non implica che non gli si debba riconoscere la patente di giocatore di qualità.
La “qualità” non è solo la tecnica, che ad Elkjaer comunque non fa difetto.
Qualità può significare molte altre cose.
Come ad esempio, il non perdere o, addirittura, anticipare i tempi di gioco.
Preben Elkajer passerà anni ad involarsi verso le porte avversarie sentenziando i portieri del campionato italiano e dell’Europa calcistica grazie ad un’incredibile capacità di orientare i propri movimenti verso la porta avversaria.
Che riceva palla a 20, 40, 50 metri dalla porta, tende a liberarsi dell’avversario con il primo controllo, che effettua sempre in movimento, grazie al quale prende vantaggio nei confronti del difendente grazie alla capacità di comprendere in anticipo lo sviluppo dell’azione.
Chi lo vede giocare si chiede come possa essere così veloce in partenza, nonostante la stazza fisica di notevole portata.
Ma più che alla velocità, nei primi attimi in cui riceve palla, si affida all’abilità nel porre in essere lo stop a seguire che gli concede di prendere quei metri di vantaggio destinati a dilatarsi quando, dopo qualche secondo, attiva una progressione da vero assaltatore che condisce con un’incredibile attitudine posturale.
E’ grazie a detta attitudine se ogni qualvolta in cui si allunga la palla per saltare l’uomo si costruisce già la giocata successiva. Sia essa una conclusione, un passaggio o un ulteriore dribbling in progressione, Elkjaer arriva all’impatto con la palla con la postura sempre perfetta. La sua capacità di coordinarsi in corsa verrà riproposta dopo qualche anno dal croato Boksic il quale, tuttavia, risulterà meno chirurgico nella conclusione.
Da uno così ti aspetteresti finalizzazioni di potenza o di stile non eccelso.
Ed invece non si contano i casi in cui, grazie ad una freddezza da vero giocatore pensante, si diverta a gonfiare la rete con esecuzioni a pallonetto o di pregevole fattura.
Trascinerà, insieme al tedesco Briegel, il Verona di Bagnoli alla conquista dello scudetto dell’85.
Il suo modo di giocare e di attaccare la porta cambierà molti aspetti del calcio di casa nostra.
A distanza di quasi quarant’anni dalla cavalcata tricolore è unanimemente conosciuto come “Sindaco” della città scaligera che non perde occasione di rendergli onore…CONTINUA.
BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.