GEORGE BEST.

Protestante.

Mai termine fu più collimante ed appropriato benché temporalmente preliminare all’instaurazione dell’attuazione.

Protestante.

In pochi altri casi come questo sintesi etimologica e semantica pressoché completamente esaustiva di un’esposizione vitale, di matrice sociologica. Nell’Irlanda, globalmente intesa, benché divisa, da sempre, territorialmente ed ideologicamente; protestante, contro i cattolici, per discendenza patriarcale: Dickie, infatti, era membro dell’Orange Order, una confraternita fondata nel 1796 quale tributo a Guglielmo d’Orange, sovrano anche di Inghilterra e Scozia.

Belfast, Irlanda del Nord, Regno Unito (quando la politica sovverte e contemporaneamente non sembra smentire la geografia), George: primo di sei figli di una classica famiglia “working-class”. Padre operaio, madre (alcolista) idem.

Protestante, nel decennio delle disapprovazioni, dei dissensi e delle rivoluzioni, dei sogni d’uguaglianza e dei diritti sociali, della lotta di classe, della controcultura come fenomeno contrastante l’autorità quale emblema giustificativo del potere nella società.

Siamo negli anni sessanta e, “protestante”, svestito delle accezioni religiose, è purezza linguistica, semantica, come non mai.

Siamo negli anni della Guerra Fredda, di un mondo bipolare che sembra esclusivamente foriero di schieramenti e divisioni, di fazioni, di idee contrapposte, di guerriglia concettuale; siamo nel decennio della “immaginazione al potere” di Marcuse ( lungimirante pensatore precursore delle critiche alla società neocapitalistica, americana quanto sovietica, totalitarie ancor più che precedenti comparazioni), della “primavera di Praga”, di Martin Luther King, della rivoluzione sessuale, degli hippy e di Woodstock. Della minigonna e dei Levi’s. Di Bob Dylan, di Kerouac e della beat generation, della Pop Art.

Negli anni dei Beatles.Quattro ragazzi i cui pianti da neonati venivano singhiozzati dal rumore delle bombe naziste. Quattro artisti che riconducono la Gran Bretagna sulla scena mondiale dopo la disfatta di Suez. Quattro? E George? Il quinto.

Protestante, per vocazione. Geniale, come disse Bob Bishop a Matt Busby, quando lo scorse, quindicenne. Irriverente, sin dalla doppietta al Benfica nei quarti del sessantasei, non ancora ventenne. Predisse a Busby, Bishop:”questo ragazzo ti farà vincere la Coppa dei Campioni”.

Wembley, 1968: lusitani ( favoriti, più blasonati, già due volte sul trono) sconfitti. Dribbling, finta secca e palla in rete durante i tempi supplementari, dieci anni dopo il disastro aereo di Monaco di Baviera (allorquando, al terzo tentativo di decollo, il volo di linea che avrebbe dovuto ricondurre lo United dei “Busby Babes” in patria, si schiantò sulla recinzione dell’aeroporto di Monaco-Riem, in Baviera, ove si trovava per una sosta programmata  al fin di rifornirsi di carburante dopo essere partito da Belgrado successivamente all’incontro, terminato 3-3, contro la Stella Rossa).

“Bere mi piaceva sempre di più e finii per ubriacarmi al punto che il seguito del più grande giorno della mia carriera di calciatore per me è solo un buco nero. Non ricordo di essere uscito dallo stadio e non ricordo di essere andato alla cena ufficiale del Russel Hotel, anche se mi dicono che ero presente”.

Campione d’Inghilterra, campione d’Europa: pallone d’oro, a soli 22 anni, davanti a Bobby Charlton, Dragan Dzajic e Franz Beckenbauer.  Dopo la vittoria contro il Benfica, il Daily Express gli riservò una rubrica personale: “fu più o meno in quel periodo che la stampa nazionale iniziò davvero ad occuparsi di me. Credo che mi avessero notato perché ero diverso dagli altri. I calciatori di allora non portavano capelli lunghi e non giocavano con la maglia fuori dai calzoncini. E ti insegnavano a non toglierti mai i parastinchi. Ma le regole sono fatte per essere infrante e io le infrangevo tutte, non perché fossi un ribelle o perché stessi cercando di dimostrare qualcosa. Ero semplicemente fatto così. Niente di più”.

Protestante. Naturalmente protestante. “Se amavi il calcio ed eri tanto fortunato da giocarlo a livello professionistico, non avresti potuto scegliere un decennio migliore in cui vivere. E se eri un potenziale alcolista non avresti potuto sceglierne uno più pericoloso. Negli anni sessanta succedeva di tutto. E tutto sembrava possibile”. Erano anni decisivi per il calcio inglese, campione del mondo in carica in virtù della kermesse casalinga del 1966 ( probabilmente non in bacheca se all’epoca fosse esistito il VAR) : per supponenza prima ( il calcio latino e dell’est, nonostante lo spessore indiscutibile di alcune compagini, era considerato, senza possibilità di accurata valutazione, in maniera a dir poco supponente ed arrogante, non all’altezza del football praticato in patria, che del football era la patria dal 1873) e per politica isolazionista poi, l’apertura alle coppe europee non risultava unanime.

Il fatto che l’età media della formazione coinvolta nel disastro aereo di Monaco di Baviera fosse molto bassa, fu fondamentale nella creazione di quella mitologia intorno alla squadra che divenne centrale nella carriera di Best, giovanissimo, fortissimo e vera e propria reincarnazione, massimale, dei ragazzi del cinquantotto: la propensione internazionale dei “teenagers”, prorompente, sul piano sociale, fu uno degli elementi che contribuì all’interruzione dell’isolazionismo del football d’oltremanica .

La televisione, il cui avvento coincise con l’incoronazione della Regina Elisabetta, era presente, nel decennio fra i più importanti della storia dell’umanità, in quattro case su cinque: inevitabilmente cambiarono le abitudini degli inglesi nei confronti delle partite di calcio, trasmesse con sempre maggiore frequenza.

Interessi economici, sponsorizzazioni, pubblicità, ”costrinsero” il football di Sua Maestà ad abbandonare l’oblio: Best, in questo contesto, rappresentava la sublimazione del percorso storico e sociale. Media e tabloid scoprirono che oltre agli attori ed ai musicisti anche gli sportivi avevano una vita privata da dare in pasto al pubblico.

George si distacca dalla working-class e diviene volto aristocratico, benché anarchico, decennale, sintesi del cambiamento sociale che in un certo momento, secondo alcune teorie che abbracciano diramazioni del pensiero filosofico in altri ambiti, fu in ogni caso costretto in parte a naufragare.

George. Best.

Non bastasse l’essere protestante ancor prima di esserlo, le verità già disvelate sulla sua vita prima che la stessa potesse rendersi protagonista della conclamazione della predizione nominale.  Sublime, sinuoso, tecnicamente divino, vellutato, probabilmente la migliore ala che il calcio europeo abbia conosciuto.

Il migliore.

E anche il più bello.

Differentemente “non avreste mai sentito parlare di Pelé”. Pubblicitá. Denaro. Per donne, alcol, automobili. Il resto,”sperperato”. “Se mi avessero dato la possibilità di scegliere fra segnare al Liverpool da ventisette metri dopo aver saltato quattro uomini e andare a letto con Miss Mondo, sarebbe stata una scelta difficile. Per fortuna ho ottenuto entrambe le cose e una di queste davanti a cinquantamila persone”.

Irlanda del Nord e Olanda ebbero modo di affrontarsi in un incontro di qualificazione valevole per l’accesso al mondiale argentino del 1978. Correva il ‘76 e, la gara, mise di fronte verosimilmente i due talenti europei più puri di un’intera generazione: George Best, va da sé, che non riuscí nell’impresa di condurre la sua piccola nazionale alla fase finale del successivo campionato del mondo, e Johan Cruijff , stella indiscussa dell’Olanda vice campione in carica.

Fra le molteplici, a suo modo infinitamente geniali, dichiarazioni del fuoriclasse britannico, c’è da annoverarne una relativa al dualismo con Cruijff e su chi fra i due potesse essere considerato il migliore in assoluto. In un’intervista antecedente l’incontro, per lo più una chiacchierata informale, a precisa domanda Best rispose che sul campo si sarebbe reso protagonista di un tunnel nei confronti del tre volte pallone d’oro.

Ciò accadde.

La storia narra che George, dopo aver compiuto “l’umiliante” gesto tecnico, disse al rivale:” sei il più forte di tutti solo perché io non ho tempo”.

Via dallo United nel 1974: Stati Uniti, Australia, Sudafrica e compagini minori inglesi ed irlandesi. Estremista. Ma, da contrappasso, dipendente. Negli anni iconici dell’uguaglianza e della libertà, contro le sottomissioni. Per l’indipendenza individuale. Dipendente. Un eroe diverso dai nostri eroi:lo ha fatto per sé stesso, non per noi. Lo ha fatto probabilmente senza sceglierlo, senza che l’alternativa potesse seriamente essere contemplata, lo ha fatto per divertirsi, perché potesse essere sublimata l’accezione di un mondo inquieto, individualmente voglioso di sradicare catene secolarmente acquisite e mai più seriamente ritenute tali.

Ha continuato a farlo, e ancora. E ancora. Nessun altro modo che non fosse esagerare, sempre e comunque. Dentro e fuori dal campo. 

Che fosse un gol al Bernabeu a diciannove anni, una doppietta al Da Luz, un sigillo nell’atto conclusivo della più importante manifestazione continentale nella cornice domestica di una Londra felicemente frastornata da un’espressione musicale verosimilmente non più replicabile.

Pelè lo definì il più forte.

Alla stregua di Diego inutile soffermarsi in giudizi contorniati da illusorio moralismo e sin troppo facile qualunquismo: un percorso è storia, scritta dalle preliminari condizioni che sanciscono, del percorso, variabili, alternative.

Non tutte. A volte non si sceglie come, oltre a dove e quando. E, se ci basassimo sull’esclusiva, incredibile, predizione dei nomi, tutto non poteva che essere già scritto ed essere come differentemente non avrebbe potuto. George, Best. Protestante.

  • ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.

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