LA COMUNICAZIONE: CONFINI O ORIZZONTI?

In prima pagina una foto dell’Fbc Seregno.

La comunicazione è la forma più elevata che abbiamo per relazionarci con gli altri esseri viventi; viene utilizzata dagli animali, dagli uomini, dalla natura, dall’universo, dalle anime e anche dai defunti attraverso credenze religiose o esperienze personali che ne hanno dato prova, o anche perché semplicemente nella loro vita terrena hanno lasciato un segno all’umanità o ai propri cari.

Può essere usata per un semplice dialogo, per manipolare il pensiero degli individui, per migliorare la vendita dei propri prodotti, per far scoppiare una guerra o per far tornare la pace.

Può creare muri insormontabili o aprire orizzonti sconfinati.

Ma alla fine ed in parole semplici, che cos’è la comunicazione?

In generale si tratta di un processo di scambio di informazioni tra il mittente (chi invia il messaggio) e il destinatario (chi lo riceve), che sono entrambi elementi attivi.

L’origine di questa parola è latina, deriva da communicare, mettere in comune (cum – insieme e munis – ufficio), propriamente che compie il suo dovere con gli altri, ma anche rendere comune, far conoscere, far sapere oppure dal lato ecclesiastico partecipare all’altare cioè alla mensa eucaristica (Enciclopedia Treccani).

Ma in definitiva comunicare è dare e ricevere, è partecipazione, è dialogo, è interazione, è relazione, è esprimersi ed ascoltare allo stesso tempo.

Tutti comunicano, anche chi non proferisce parola lo fa.

La comunicazione può essere di tipo verbale, paraverbale o non verbale.

La prima, quella verbale, altro non è che ciò che esce dalla nostra bocca, quindi parole e frasi con il loro significato ed eventuali codici e ovviamente il suo livello dipende dalla conoscenza e dalla cultura degli interlocutori; la comunicazione paraverbale invece riguarda il modo in cui la comunicazione viene espressa e cioè il volume, il tono, il ritmo, l’energia e la cadenza della voce di chi parla, mentre l’ultima, quella non verbale si riferisce al linguaggio del corpo e quindi alla gestualità, la postura, la prossemica, la mimica facciale o il movimento delle braccia.

Soffermandoci un attimo sulla comunicazione paraverbale possiamo anche aggiungere che al pari della comunicazione non verbale, invia spesso messaggi inconsapevoli e di tipo emotivo.

Sciorinate queste definizioni, va aggiunto però, che per comprendere quello che il nostro interlocutore intende comunicarci dobbiamo fare attenzione a tutti gli aspetti della stessa in quanto gli studi hanno dimostrato che ciò che viene percepito durante una comunicazione “vocale” è per il 55% dovuto alle espressioni facciali, per il 38% al tono, volume e ritmo e per il restante 7% alle parole.

Questi dati, secondo me, sono abbastanza indicativi; se alle parole accompagniamo espressioni facciali o un tono che si discosta da quanto abbiamo detto è possibile che creiamo in chi ci ascolta dei dubbi sul fatto che le nostre parole siano vicine alla realtà.

Ma quando qualcuno di noi comunica qualcosa a qualcun altro, come viene elaborato il messaggio da chi ci ascolta?

Come ci spiega benissimo la Dott.ssa Lucangeli, non credo servano presentazioni per lei, punto di riferimento assoluto, ci sono tre vie con cui la mente scambia ed elabora informazioni.

La prima è da fuori a dentroe cioè quando ricevo informazioni dall’esterno sotto forma di parole, comportamenti, emozioni ecc.; poi c’è il processo da dentro a dentro ovvero l’elaborazione, la trasformazione delle informazioni in entrata ed in uscita, il mio connettoma (mappa delle connessioni attraverso cui il nostro intero radar fa esperienze e apprende) che trasforma quello che sei tu in quello che io ti riporto, arricchito di me, delle mie memorie, errori e bisogni.

È la trasformazione attiva, la vita mentale, è il modo che il sistema ha di comunicare con sé stesso e di esprimere la propria unicità.

Infine, c’è il processo da dentro a fuori, quando vado nelle mie memorie e porto fuori delle informazioni, non solo conoscenze dichiarative ma anche il modo in cui le dico, ad esempio il rossore, la voce tremante, le emozioni che arrivano dall’altro e determinano una reazione.

Queste tre vie di scambio ed elaborazione di informazioni, ci sono utili per capire anche qualcosa in più su quello che chiamiamo errore.

A tutto questo va aggiunto che, come ci dicono ancora gli studi, in particolare quelli della Lucangeli, ogni cosa che ci viene detta e che interiorizziamo viene immagazzinata nell’area del cervello deputata insieme all’emozione che abbiamo provato nell’istante in cui abbiamo fatto quella determinata cosa e perciò, nel momento in cui richiameremo la memoria relativa a quella cosa per ripeterla, insieme ad essa uscirà fuori anche l’emozione provata la prima volta.

Per spiegare meglio quanto detto sopra prendiamo ad esempio lo sport, il calcio in questo caso: quando un bambino tenta un dribbling davanti la propria porta e l’allenatore dalla panchina (che in questo caso si comporterebbe da istruttore e non da allenatore) gli lancia un bell’urlo con un secco “NO!” seguito da varie imprecazioni, al di là del risultato del dribbling, che andrebbe comunque incoraggiato perché entrano in gioco altre componenti come la fantasia mentale e la fantasia motoria, il bambino interiorizzerà che quel gesto è sbagliato perché è stato accompagnato da una o più emozioni negative, per cui la volta successiva, per evitare di provare le stesse brutte emozioni e sentirsi inadeguato, il bambino invece di tentare nuovamente il dribbling, calcerà la palla il più lontano possibile per la gioia di chi ama il calcio giocato sulle stelle e i calciatori di personalità.

Battute a parte, ricordandoci tutto quello che abbiamo detto finora, consci del fatto che, specialmente con i bambini, il solo risultato cui dobbiamo puntare è lo sviluppo del loro potenziale, unico e diverso per ciascuno di loro, non solo dal punto di vista tecnico ma anche e soprattutto quello etico e morale, abbiamo il compito di dar loro fiducia e sicurezza e accompagnarli nel loro percorso di crescita senza giudicarli.

Pensate se l’allenatore comunicasse il suo punto di vista invece che in tono assoluto, perentorio e senza diritto di replica, ma attraverso un dialogo fatto di domande per cercare di capire il punto di vista del bambino in quel momento, visto che l’allenatore non è dentro al campo e non è il protagonista della partita, ha una visuale distorta di quello che succede dentro al rettangolo verde con una prospettiva schiacciata, non ha la visione di tutto l’insieme, secondo voi che effetto avrebbe su chi ascolta? Farebbe sentire il bambino protagonista, lo responsabilizzerebbe invece di intimorirlo, permettendogli in una situazione simile di scegliere la soluzione migliore in quel momento.

Questo è un modo propositivo di mostrarsi verso l’altra persona, non giudicante, che non genera ansia a stress in chi ascolta, perché l’errore è una risorsa non una colpa o un sintomo di una patologia, ma piuttosto una richiesta di aiuto (AIUTAMI AD AIUTARTI, PARLAMI ED AIUTAMI A CORREGGERTI) che, se compresa bene è nutriente per il cambiamento.

«…Un giocatore si vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia…» (F. De Gregori – La leva calcistica della classe ’68)

Per terminare, tengo a ribadire un concetto che per me è fondamentale ed è quello dell’unicità degli individui, per cui la comunicazione non può essere standardizzata, ma va calibrata in modo diverso a seconda di chi abbiamo davanti, non possiamo pensare di comunicare allo stesso modo con un bambino o con un adolescente o con un adulto, ma nemmeno con due bambini della stessa età perché le necessità, i bisogni e lo stato d’animo dei due sono diversi.

Consiglio personale: iniziate lavorando su voi stessi cercando di capire quali sono le vostre aree cieche, quelle su cui vi sentite in difetto, scrivetevele e datevi un voto, tanto sappiamo benissimo che non c’è miglior giudice di noi stessi, ci conosciamo benissimo anche se non vogliamo ammetterlo e almeno nei nostri confronti dovremmo essere sinceri; dopodiché lavorateci sopra, costa fatica ma ne varrà la pena.

Se non siamo noi i primi disposti a migliorare, difficilmente riusciremo a far migliorare gli altri.

«Per far crescere un bambino che diventa un adulto che possa far luce dentro di sé è necessario che abbia a fianco adulti che sappiano fare la loro parte di adulti, I care, mi prendo cura di te, ti ho a cuore, “ho a cuore cosa senti tu, di te”» (Daniela Lucangeli)

BIO: GIANNI PARENTI

  • 1981 all’anagrafe perché l’anima la sa molto più lunga, Ingegnere Civile, UEFA C, Match Analyst, Tutor di eventi in Educazione Emozionale (Emotional Sport Academy e Pedagogia Viva).
  • Allenatore, collaboratore e allievo AMC FOOTBALL ACADEMY, appassionato studente di calcio e non solo.
  • Grato alla vita, in cammino nella ricerca della libertà dell’anima.

5 risposte

  1. Tutto molto interessante ,complimenti . Anche negli adulti vi é un grande lavoro da fare ,alle volte in parallelo, alle volte in sovrapposizione per una migliore trasmissione e comunicazione tra le parti. Buon lavoro.
    Moreno.

    1. Ciao Moreno, grazie mille! L’intento è proprio quello di creare confronto e sono d’accordissimo con te che il lavoro da fare sia proprio quello che tu scrivi.
      Grazie ancora e buon lavoro anche a te

  2. Grande Gianni.Ne abbiamo discusso tante volte. Ottimo articolo. Non dico altro , sai che si condivide tutto . Un abbraccio

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