UN TRIBUTO A MISTER CARLO MAZZONE: “LA MASCHERA POPOLARE DIETRO AD UN UOMO CHE NON SI È MAI NASCOSTO”.
“Se famo il tre a tre vado sotto ‘a curva!”
Ogni volta che rivedo quel filmato recupero anche la nitida sensazione di avere sperato con tutto il mio cuore che il Brescia facesse quel goal, un po’ per il sadico piacere di vedere scatenarsi la furia di mister Mazzone contro chi aveva passato la partita insultandolo e anche per consentirgli di onorare una promessa fatto “di pancia” e che, proprio dentro ad una pancia, lo avrebbe riportato.
È il 30 settembre 2001 e si sta giocando Brescia contro Atalanta, partita da sempre ricca di tensione ma che quel pomeriggio raggiunse un picco d’intensità assoluto quando uno dei suoi protagonisti, apparentemente neutralizzato dalla sua romanità, si trovò invece a sentir insultate proprio le sue radici, i suoi legami più cari, più intimi e profondi.
L’aspetto di questo episodio che, però, è rimasto più potentemente incastonato nella memoria del tempo è stato il plebiscito di empatia che ha portato tantissimi di noi spettatori a correre idealmente con mister Mazzone quelle folli decine di metri.
Probabilmente questo è anche il motivo per cui nessuno quel pomeriggio riuscì a trattenerlo, nonostante non avesse più le prestazioni atletiche di quando in gioventù rappresentava un baluardo difensivo dell’Ascoli, in un lampo si trasformò nel più inarrestabile dei tailback…che nessuno voleva realmente fermare.
Anche il fido vice Menichini apparve impotente nel provare a gestire la furia del suo amico di una vita, portando i due a rappresentare un incrocio tra una coppia comica del cinema muto e Don Chisciotte con il suo fedele Sancho Panza.
C’è un’immagine di un esterrefatto Cristiano Doni, giocatore simbolo di quella Atalanta, a cui fa da sfondo in lontananza un Mazzone trafelato mentre rientra dalla sua cavalcata, ancora intento a scrollarsi di dosso tutte le persone che si erano avvicinate a lui come fanno i cavalli mentre mandano via le mosche con la coda.
In quell’inquadratura si legge chiaramente un labiale in cui Doni dice: “ma cos’è questa roba?” domanda a cui nessuno, ancora adesso, potrebbe rispondere senza prima provare un pizzico d’imbarazzo, visto che ciò che era appena successo aveva oggettivamente dell’incredibile.
È difficile trovare in quell’episodio qualcosa di propositivo a qualsiasi livello, sportivamente parlando rappresenta lo smarrimento del leader di un gruppo che si fa risucchiare dalle provocazioni, da un punto di vista pedagogico è l’epitaffio del modello educativo.
E allora perché quelli che hanno condannato quel gesto, con la veemenza che avrebbe potuto senza dubbio meritare, sono in netta minoranza?
Perché Mazzone non è stato messo su una gogna mediatica coordinata da tutti i montessoriani del mondo?
Quando sor Carletto rientrò a centrocampo lo aspettava l’arbitro Pierluigi Collina, una figura mitologica che, come nessuno, è riuscito ad interpretare il ruolo in tutte le sue sfaccettature, autorevole, comprensivo, duro, paterno, fraterno.
Collina non estrasse nemmeno il cartellino rosso, indicò semplicemente lo spogliatoio a Mazzone che, dal canto suo, aveva già facilitato il tutto allargando le braccia in segno di scusa e di accettazione.
Come se anche Collina, percependo magari un imbarazzante lampo di empatia ma non potendoselo permettere, avesse deciso di mimetizzarlo gestendo in maniera automatica la sanzione, senza però eccedere nell’enfasi espulsiva che spesso gli arbitri aggiungono.
Proviamo a chiederci questo:” cosa abbiamo visto in quel pomeriggio?”
Un uomo di 60 anni, allenatore ed ex calciatore con una lunghissima esperienza alle spalle, che perde il controllo delle sue azioni, dopo essere stato insultato ripetutamente da una parte del pubblico che, mediamente, avrebbe potuto essere stato coetaneo dei suoi figli e che, a sua volta, diventa oggetto d’insulti.
In quell’istante tutto si è ribaltato, i giovani che smettono di rispettare l’anzianità e l’adulto che perde ogni tipo di comprensione e tolleranza per l’inadeguatezza della gioventù.
Un uomo adulto sente di dover difendere la propria madre defunta dagli insulti di alcuni ragazzi, tornando indietro alla dimensione figliale in cui l’unica offesa che ci autorizzava ad usare le mani era quella rivolta alla madre.
Ecco cosa mi fa tornare in mente quel “se famo er terzo goal vado sotto ‘a curva”, mi rimanda a quando da piccoli si spiegava agli amici che l’unica cosa che non avremmo mai tollerato sarebbe stato un insulto alla nostra amatissima mamma, come se quella comunicazione avesse il compito di delimitare i confini della persona che stavamo diventando e che volevamo che gli altri vedessero.
Ma cos’è che rende la madre di Mazzone più importante di quella di tutti i giocatori o degli altri allenatori che sono obbligati a tollerare dolorosamente quelle offese durante ogni partita?
Il modo in cui Mazzone esplose in quel pomeriggio in realtà rappresentò più un grido di disperazione che un tentativo di contrattacco, una maschera di rabbia e tristezza che non aveva nulla a che fare con la rivalsa sportiva del risultato recuperato, ma che semplicemente ritraeva un uomo anziano che non poteva più tollerare l’impossibilità di non poter proteggere il ricordo di una madre amatissima.
Proseguendo in questa immaginaria oscillazione esistenziale pensiamo a come da adulti ci piacerebbe poter difendere i nostri figli da ogni sopruso, anche a costo di calpestare tutti i manuali di pedagogia del mondo e, anzi, vedendo in eventuali reazioni protettive esplosive un valore aggiunto o un puntello ancora più solido per il rapporto con i nostri figli.
Anche da bambini l’idea del super papà ci rassicura e ci inorgoglisce, mentre crescendo il papà che ci viene a salvare abbattendo tutto e tutti non è sempre ben accetto, a volte la vergogna di aver subito un sopruso da qualche coetaneo viene paradossalmente amplificata dal tentativo salvifico di un genitore più attento alla propria frustrazione che a quella del figlio.
Mazzone corse incontro ai tifosi atalantini gridando loro tutte le maledizioni possibili perché avevano osato dissacrare il ricordo di una madre fondamentale per la persona che era diventato, dando a quella gigantesca frustrazione una priorità assoluta anche su un lavoro che lo aveva reso ricco e famoso, tornando ad essere un figlio protettivo che per un insulto contro sua madre avrebbe potuto fare di tutto.
Ma allora…perché siamo stati un po’ tutti Mazzone in quel momento?
Perché lui, con tutto quel carico d’inadeguatezza, ci ha svegliato da un torpore che ci ha portato ad accettare comportamenti palesemente inadeguati semplicemente perché “sono cose che succedono in una partita di calcio”.
Non chiediamoci perché in quella circostanza abbiamo simpatizzato per Mazzone ma piuttosto perché abbiamo accettato da sempre insulti e offese inconcepibili nascosti sotto la coperta omertosa del “comportamento da stadio”.
Carlo Mazzone ha sempre parlato di quell’episodio raccontando di un suo fratello più esplosivo che lo sostituisce ogni domenica quando deve andare a sedersi in panchina.
La narrazione è chiaramente bellissima, penso tuttavia che la prospettiva sia esattamente quella opposta, perché in realtà la parte più autentica di ognuno di noi si manifesta proprio quando siamo in campo dove, quindi, non ci trasformiamo ma riveliamo noi stessi.
A rendere quel pomeriggio ancor più denso e surreale contribuì la presenza sugli spalti di un ragazzo catalano che osservava il tutto con occhi sgranati ma anche pieni di curiosità, ignaro di come sarebbe stato essere allenato da quel signore che, come biglietto da visita, gli stava regalando un’immagine di sé stesso, con i pochi capelli rimasti ormai elettrizzati, mentre faceva la guerra contro il mondo.
Quando Josep Guardiola, divenuto a sua volta uomo e allenatore, raggiunse con il suo Barcellona la prima finale di Champions League a Roma, sentì il bisogno di avere vicino a sé, in un momento così speciale, quel signore che in un folle pomeriggio di 10 anni prima gli aveva spiegato che non esistevano altri modi di essere, se non essere sé stessi…questa resterà per sempre e per tutti l’eredità di Carletto, Sor Carletto, Mister Carlo Mazzone.
BIO: Davide Bellini
- Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
- Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.
2 risposte
Non ricordo bene, ma credo che Baggio giocava nel Bresci e fece una grande partita. Questo per dire che che ho sorretto con la mia mente quella corsa di Mazzone, e che quella partita ci aveva regalato un Baggio strepitoso.
Io già ammiravo il Mazzone allenatore dell’Ascoli e, lui e Baggio, ci hanno regalato quel momento meraviglioso.
A parte questa considerazione, devo dirti che purtroppo in certi casi io tolleravo l’offesa alla madre dei calciatori, la trovavo divertente, anche perchè non vera. Ma non mi immedesimavo nella realtà del calciatore o allenatore.
Sono comunque molto d’accordo con te,
Ciao Giuseppe mi fa piacere che tu abbia potuto empatizzare con quello che ho scritto!
Grazie