Molteplici, intriganti, analiticamente attraenti e ad onor del vero tutti particolarmente significativi ( in special modo da un punto vista squisitamente tattico), gli spunti di interesse sanciti da questa, tutt’altro che sommariamente convenzionale, primordiale fase di campionato: tre le giornate disputate e, al netto di sapori distorti, iniziali contorni sfumati da un mercato ancora in corsa che ha inevitabilmente mutato l’impianto logistico e concettuale di alcune compagini (in particolar modo delle “piccole”, inevitabilmente alla ricerca, proprio allo scadere, di occasioni diversamente difficilmente raggiungibili in una sezione temporale meno prossima alla conclusione), è opportuno ( e doveroso) soffermarsi, molto più che in altre corrispettive circostanze, su quanto emerso.
Obbligatorio partire dalle milanesi: il derby che opporrà Milan ed Inter alla ripresa delle ostilità non consentirà semplicemente di far sì che le uniche due squadre a punteggio pieno abbiano modo, immediatamente, di regalare al campionato e alla nazione uno dei momenti più significativi dell’intera stagione, bensì di porre a confronto, al di là dei punti conquistati, quanto di meglio il nostro movimento, in questo momento, possa concettualmente sciorinare.
Letteralmente sorprendente la travolgente facilità (correlata ad un tangibile, palpabile, entusiasmo collettivo individualmente condiviso) con cui i rossoneri hanno assimilato, digerito, attuato e magnificamente esposto sul terreno di gioco quanto preliminarmente elaborato, in sede di costruzione della rosa, nella mente di uno staff tecnico che ancora una volta (al di là di minuzie e dettagli sui quali si può sempre disquisire) si è dimostrato all’avanguardia e foriero di idee direzionate ad un corale miglioramento dell’espressione di gioco.
L’inizialmente indigesta cessione di un simbolo come Tonali ( buono ma non trascendentale l’impatto in Premier del centrocampista azzurro) ha consentito che la squadra venisse rinnovata non solo negli uomini ma nei princìpi: nella testa di Pioli era già chiaro ciò che avrebbe dovuto verificasi e che, come sottolineato, il Milan ha sorprendentemente già ottimamente messo in pratica, sintesi emblematica di ciò che oggi si intende per calcio moderno, nella proposta, nell’intensità, nel ritmo, nella ricerca della verticalità attraverso concetti innovativi o quasi, volti ad una gestione degli spazi, ad un’occupazione visionaria del terreno di gioco, ad una dislocazione non canonica di ruoli e mansioni, ad una gestione territoriale del pallone facilitata da movimenti e tempi di gioco che abbracciano la totalità degli elementi.
Imbarazzante (innanzitutto, per l’appunto) il divario tattico, di conoscenza calcistica, nella sfida dell’Olimpico contro una Roma da definire sotto quest’aspetto, al cospetto, ad esser buoni, insufficientemente scolastica.
Mentre da un lato il Milan costruiva con Thiaw e Tomori “braccetti” di un’inedita difesa a tre (con licenza di travalicare lateralmente la metà campo avversaria garantendo un appoggio agli esterni offensivi in fase di sviluppo e consentendo l’occupazione di uno spazio imprescindibile per la manovra non solo nella zona di riferimento con la palla in conduzione ma anche e soprattutto favorendo, a palla lontana, l’accentramento dei terzini), con Krunic che svolgeva il compito di regista difensivo abbassandosi fra i centrali e dunque “pulendo” la prima uscita, mentre, dicevo, il Milan rivoluzionava il concetto di esterno difensivo (per genesi caro a Guardiola che anni fa propose questa soluzione, ripresa perennemente nella scorsa stagione quando ad affiancare Rodri era uno dei centrali, Stones, del quale, in questo primo scorcio di stagione, nel compito, ha fatto le veci Akanji) ponendo Calabria quale effettivo regista della zona mediana con Theo libero di interpretare, in base alle circostanze, se svolgere il medesimo compito, entrare dentro ( con Leao molto largo) o allargarsi ( nei momenti in cui l’imprendibile portoghese si accentrava puntando l’uomo), mentre, altresì, da un lato il Milan consentiva alle mezz’ali la ricerca della verticalità attraverso la conduzione e la prorompente fisicità ( determinando costanti appoggi a Giroud e maggiormente riempiendo l’area di rigore), con Pulisic e Leao a dare ampiezza e imprevedibilità, dall’altro la Roma assisteva impotente a cotanta sapienza opponendosi come più superficialmente, concettualmente, non si sarebbe potuto: riferimenti di zona, baricentro basso, tutt’altro che immediate letture, ripartenze assai poco pregevoli nei tempi e nella circolazione.
Quasi, passatemi il sarcasmo ed il paradosso, l’esterno fosse semplicemente costretto a fare l’esterno, il mediano esclusivamente il mediano, l’attaccante solo l’attaccante.
No, non è quello che il calcio moderno impone, non è ciò di cui una grande squadra dovrebbe rivestirsi.
La lezione di Pioli (messa in atto già nel primo tempo di Bologna e nella totalità della gara contro il Torino, letteralmente asfaltato anche dal punto di vista dell’intensità e della fisicità, peculiarità dell’identità granata da quando Juric siede sulla panchina sabauda) è aver dimostrato quanto ampio sia l’orizzonte tattico entro il quale rivestire di una precisa identità una squadra molto diversa dalle versioni non solo ormai più datate ma anche recenti dell’era di Stefano: un tecnico con il quale si ha la certezza di non essere inferiori a sé stessi, sempre pronto ad innovare, ad accogliere le più pregiate sfumature nozionistiche provenienti da colleghi ritenuti degni di poter essere emulati, ad adeguarsi alle esigenze di uno sport costantemente in evoluzione, drasticamente differente rispetto alle fossilizzazioni concettuali tutt’ora portate avanti da coloro che, forse afflitti da insufficiente passione e rispetto verso il proprio mestiere e verso le proprie compagini, sviliscono la metodologia altrui neppure argomentando ma rifugiandosi in un qualunquismo ormai becero e grottesco, puntando il dito contro questo o quel fattore da tramutare in alibi e rifiutando di constatare che la pochezza sia esclusivamente logica conseguenza delle mancanze loro perpetrate e cocciutamente ancora perseguite.
Di questa categoria non fa sicuramente parte Simone Inzaghi, il quale, pur non differenziando sostanzialmente mai di molto l’attuazione delle proprie concezioni calcistiche, è riuscito ancora una volta a far sì che l’Inter potesse esprimere al meglio le proprie doti, le proprie peculiarità, i propri princìpi ormai notevolmente inculcati ed in ogni caso molto vicini ai concetti basilari di un’espressione da catalogare come “moderna”: se le vittorie su Monza e Cagliari erano state raggiunte attraverso uno sforzo sommariamente circoscritto in virtù di una superiorità tecnica evidente ancorchè elevata dalla naturalezza del gioco acquisito in un biennio, il roboante successo sulla Fiorentina ha sentenziato che ciò che sembrava palese ad una prima istanza, ovvero che la rosa si fosse indebolita, possa non corrispondere al vero; il Thuram ammirato contro la Viola sembrerebbe dover invidiare a Lukaku esclusivamente una certa esperienza internazionale, Cuadrado e Carlos Augusto non hanno di certo diminuito il valore sulle fasce rispetto a Bellanova e Gosens, Chalanoglu continua a non far rimpiangere Brozovic quale metronomo della manovra, Frattesi è di fatto un quarto titolare nella mediana, Pavard sopperisce, seppur per motivi differenti, alla partenza di Skriniar.
Semmai è fra i pali che, oggettivamente, si può affermare che il confronto, fra predecessore e successore non regga e, con un apporto potenziale ancora però da verificare, Arnautovic non può essere equiparato ad Edin Dzeko.
Indipendentemente da ciò, l’espressione consolidata, il furore agonistico, un gruppo che sembra muoversi all’unisono dentro e fuori dal campo ( probabilmente paradossalmente cementato dalla vicenda del mancato, grottesco, ritorno di Lukaku) , l’eredità inconscia di una considerevole, individualmente intrinseca, sensazione di forza tramandata dalla cavalcata della scorsa stagione in Champions League ( con tanto di atto conclusivo ricco di rimpianti e che avrebbe potuto, con un po’ di fortuna, addirittura condurre l’Inter sul trono continentale) , paiono gli ingredienti che più impressionano la concorrenza e che contribuiscono a decretare la società nerazzurra non solo, va da sé, quale candidata autorevole alla conquista del titolo (per alcuni la favorita in senso assoluto) , bensì l’unica squadra del nostro campionato oggi pronta ad affrontare alla pari l’eccezionale Milan ammirato sin ora.
Il difficile compito che attende Inzaghi nel derby è preparare adeguate contromosse, annullare preventivamente, le risorse di una squadra, quella rossonera, in verità tatticamente camaleontica e difficilmente leggibile, con alcune lievi lacune difensive ma con un centrocampo difficilmente contenibile per fisicità, conduzione e capacità di “strappare” creando superiorità numerica sulla trequarti, attraverso gamba e tecnica: Loftus-Cheek e Reijnders sono i volti del nuovo corso rossonero, con l’olandese vera sorpresa ( conferma per chi ne conosceva le doti ) di questa primissima fase dall’annata agonistica, eccellente nel possesso, nelle scelte, nelle letture, pulito tecnicamente , bravo negli inserimenti.
Il Milan pare in questo momento il peggior avversario da affrontare per condizione mentale, sfrontatezza, facile traduzione ed esibizione sul campo di idee precise ed ammalianti, sulle quali si è ampiamente lavorato.
Di sicuro sarà elettrizzante godere degli infiniti spunti che il derby, fra meno di due settimane, regalerà dal punto di vista tattico, oltre che tecnico e come sempre ambientale.
Voltando pagina, perché non solo di rivalità meneghina vive il campionato, doveroso soffermarsi sul Napoli campione in carica che, dopo aver liquidato in scioltezza le pratiche Frosinone e Sassuolo, ha amaramente degustato il sapore amaro della sconfitta in virtù del successo ottenuto dalla Lazio al “Maradona”: una gara dai due volti, con i partenopei protagonisti di una prima frazione eccellente (seppur esteticamente resa immortale dal sublime colpo di genio di Luis Alberto) e di un secondo tempo allo sbando, durante il quale evidenti lacune tattiche, frutto della disarmonia fra i reparti, dell’incapacità di attuare corretti tempi di gioco sia in fase di possesso che di non possesso, hanno determinato orrori concettuali nelle scelte, nella corsa, nel pressing, nell’aggressione e conseguentemente nell’armonia delle due fasi.
Negatività oltremodo acuite, nonostante le due sconfitte nelle prime due giornate contro Lecce e Genoa, dall’identitaria Lazio di Sarri, intrisa notevolmente dei concetti ormai ampiamente acquisiti del tecnico toscano.
Uno sguardo sulla Juve: chi, dopo il primo tempo di Udine, si fosse reso protagonista di una formulazione di pensiero tutto sommato logica ed immediata, vale a dire che d’incanto la Vecchia Signora avesse mutato volto, atteggiamento, sistema e princìpi di gioco, ha ben presto dovuto ricredersi in virtù delle scialbe prestazioni offerte contro Bologna ( con la squadra di Thiago Motta, allenatore sublime, che avrebbe complessivamente meritato la vittoria grazie ad una lettura dell’incontro in fase di preparazione impeccabile, tramutatasi poi in uno spartito sciorinato perfettamente sul terreno di gioco, con punte concettuali elevatissime per finezza tattica ed interpretazione delle caratteristiche del materiale umano a disposizione) ed Empoli; non ingannino, perciò, i sette punti in classifica, con due vittorie contro due formazioni nettamente inferiori ed in ritardo nella costruzione (l’Udinese è oggettivamente la squadra che più si è indebolita rispetto alla stagione precedente, con pilastri come Becao, Pereyra, Udogie e Beto non più facenti parte dell’intelaiatura friulana, l’Empoli, dal canto suo, eliminato anche in Coppa Italia dal Cittadella, sembra, nonostante l’arrivo di elementi validissimi oltre ad alcuni talenti già presenti, lontana parente della frizzante versione dello scorso anno): che la Juve sia chiamata e abbia il dovere di inanellare risultati di un certo tipo è inequivocabile e nelle possibilità di una rosa all’altezza anche dell’obiettivo più importante; bisogna capire quanto ancora possa negativamente incidere l’eredità mentale, ormai cronicamente acquisita e difficilmente scalfibile, derivante da un modo a dir poco discutibile di sciorinare calcio pur decidendo, nel frattempo, di mutare alcune peculiarità.
Immediatamente la Juve ha accantonato la convincente prestazione della Dacia Arena, non suggellando uno stile di gioco più armonioso, ricco di spunti concettuali come la moderna interpretazione del ruolo di Cambiaso o un’aggressione alta e feroce, prontamente involvendo ad una versione molto più vicina all’espressione delle ultime due stagioni.
Il clamore e l’entusiasmo suscitati dopo la prestazione di Udine non hanno fatto altro che, in ogni caso, rimarcare quanto segue: difficile credere che dall’oggi al domani un tecnico possa essere capace di mutare così drasticamente idee di gioco e atteggiamento; che dietro quell’approccio ( come sottolineato da Chiesa con tanto di sottolineatura anagrafica ) ci fosse la mano di un nuovo elemento dello staff è fuori discussione, anche perché, qualora si supponesse che quanto intravisto provenga dalle esclusive direttive di chi è alla guida starebbe a significare che anche in passato questa proposta avrebbe potuto essere espressa con conseguente, ulteriore, colpa di chi, per sillogismo, ha dunque optato volutamente per scelte differenti.
Note a margine: un plauso a Baroni, preparatissimo, oculato, equilibrato, profondo conoscitore di calcio e allenatore onestamente sottovalutato; dopo l’avventura esclusivamente rimarchevole di lodi in quel di Lecce, l’avvento, altrettanto aulico, a Verona, con il fiore all’occhiello del successo sulla Roma. Dicasi lo stesso per D’Aversa che, raccolta l’eredità proprio da Baroni, ha continuato a mantenere alto l’entusiasmo in Salento conducendo il Lecce alle spalle di Inter e Milan, con quattro punti raccolti fra Lazio e Fiorentina e con il compito di contribuire ad esaltare le ormai infinite e straordinarie scoperte di un Corvino quanto mai sublime.
Per chiudere, un plauso anche a Scamacca, arrivato all’Atalanta, non tanto per la doppietta rifilata ad un Monza attualmente fotocopia sbiadita della superba compagine della gestione Palladino, quanto per aver scelto la destinazione bergamasca: Gasperini è realmente l’unico tecnico capace di esaltare chiunque e di mandare in gol qualsivoglia soluzione offensiva che risalga alla conformazione di un essere umano.
Chi vi scrive lo ha visto all’opera vent’anni or sono in quel di Crotone, allorquando anche un modesto esterno di fascia venne tramutato in infallibile goleador. Non ritengo Scamacca complessivamente un centravanti che possa vestire la maglia delle squadre più nobili, ancor meno divenirne l’attaccante di punta: è per questo che scegliere Gasperini è l’intelligente viatico per far sì (con successiva controprova) che ciò accada.
BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.
Una risposta
Da sottoscrivere e condividere in toto, aggiungo da vero cuore rossonero : la scorsa annata ero terrorrizzato all’avvicinarsi dei derby, ora sono entusiasta di giocarlo, ABBIAMO VOLTATO PAGINA, ero (un po’ lo sono ancora) tra quelli che pensavano che Pioli avesse gia’ dato il meglio ,,,,,,, ora dico grazie, grazie davvero alle invenzioni tecniche che ha dato alla nostra squadra, non so se vinceremo ma ci divertiremo sicuramente, questa squadra al netto di eventuali infortuni che possono sempre succedere è forte, forte ed è’ assemblata benissimo, ciao FVCR ❤🖤❤🖤❤🖤🍀🍀🍀