DIDIER DROGBA E LA SUA NOTTE DA SEMI DIO.

Il pregiudizio più forte che si appiccicò alla mente della maggior parte degli appassionati di calcio, appena si delineò la finale di Champions League 2011/12 tra Bayern Monaco e Chelsea, fu che si fosse apparecchiato, per di più sul tavolo di casa, un ricco risarcimento sportivo a favore del club bavarese, vittima negli anni precedenti di numerose e cocenti delusioni.

È in situazioni come questa che gli adepti più intimi della sfera pentagonata iniziano a sentire aria di “Linea Maginot”!

Le certezze che appaiono inattaccabili a molti diventano invece, per questi templari del calcio, un quadro che assume caratteristiche sempre più diaboliche con, da una parte la squadra travestita da vittima sacrificale che si smaschera nutrendosi in maniera cannibalesca della sfiducia di tutti e, dall’altra parte la vincitrice annunciata zavorrata da claustrofobiche aspettative che, inevitabilmente, la spezzeranno.

In notti come quelle il destino ha bisogno di un alleato, di uno strumento potente da usare per opporsi a quello che sembra un determinismo sportivo.

Negli spogliatoi dell’Allianz Arena, quel sabato 19 maggio del 2012, c’era un giocatore ancora inconsapevole di un copione che lo avrebbe reso assoluto protagonista attraverso un’altalena emotiva intensissima.

Per la mitologia greca un semidio è una persona nata dall’unione di una divinità e un umano, una creatura con abilità speciali come un dio ma senza il privilegio dell’immortalità.

Ormai, nel calcio moderno, questo tipo di paragone potrebbe calzare per la maggior parte dei protagonisti che normalmente danno vita ad una partita (arbitri inclusi!), rappresentanti di un’estetica tanto inscalfibile quanto omologata.

In questo scenario si staglia la figura di Didier Yves Drogba Tébly, con i suoi lineamenti scolpiti e non disegnati, con radici più forti caratteristiche di chi le ha dovute difendere, con i piedi sull’Europa ma lo sguardo sempre rivolto alla sua Africa.

Drogba probabilmente non aveva bisogno di quella partita per mostrarci la sua origine divina, noi l’avevamo riconosciuta da tempo soprattutto per quello che faceva fuori dal campo, ma in quella serata ha rivelato anche a sé stesso come si fosse incredibilmente avvicinato a quell’eternità esclusiva degli dèi.

Il primo tempo della partita sembrò tuttavia recuperare tutte le più rigide previsioni perché il Bayern cominciò a rimpicciolire il Chelsea, intrappolandolo costantemente in una zona di campo che la squadra inglese, però, amava maneggiare accettando quello squilibrio come unico viatico possibile per incidere.

Anche le storie dei due allenatori rappresentavano perfettamente l’asimmetria che c’era in campo, da un lato Jupp Heynckes che io non riesco a raffigurare senza il Meisterschale in mano e dall’altro Roberto di Matteo, subentrato tre mesi prima a Villas Boas con l’idea di essere di passaggio, senza saper che quel passaggio lo avrebbe condotto verso l’eternità.

Quando arrivò il goal, nonostante fosse il trentasettesimo del secondo tempo, fu quasi scontato, come scontato sembrò che lo segnasse Muller “alla Muller”, giocatore che possiede efficacia ed eleganza in maniera inversamente proporzionale ma impersonifica perfettamente affidabilità e tenacia, spesso individuate come le germaniche più trasversali.

I minuti successivi al goal cominciarono a delineare le prime crepe nelle sicurezze di tutti, il Bayern si accomodò come un boa constrictor che non vuole stritolare e si limita ad intralciare con il suo spessore, mentre il Chelsea prese inaspettatamente vita elettrizzato dalla paura della sconfitta e liberato dalla consapevolezza di non avere più nulla da perdere.

A tre minuti dalla fine Juan Mata batté un calcio d’angolo con il suo sinistro e un secondo dopo il semidio della Costa D’Avorio, capace con i suoi compagni di far sospendere una guerra civile inginocchiandosi in un video mentre supplicava i suoi connazionali, si aggrappò alla sua eccellenza e colpì la palla di testa anticipando Jerome Boateng, imprimendo con quella torsione una forza che solitamente si ottiene solamente quando si calcia.

Insieme ai tifosi del Chelsea esultarono anche i templari del calcio, compiaciuti nel vedere confermata la loro profezia e, di conseguenza, la loro boriosa competenza.

Ma il destino di quella partita era quello di oscillare costantemente tra ineluttabilità e sorpresa, tra l’eroe per caso, Di Matteo, e il tirannico Kaiser Heynckes, probabilmente perché entrambe le squadre avevano nel loro passato sconfitte cocenti che le rendeva incapaci di essere prepotenti nel prendersi la vittoria.

Scegliere a quale semidio si possa far riferimento ci viene indicato dallo svolgimento della partita, perché all’inizio del primo tempo supplementare Drogba si trovò a difendere nella sua area di rigore e toccò il tallone di un avversario, Olic, causando un calcio di rigore.

Il tallone risultò fatale anche a colui che, insieme ad Ercole, è il semidio più popolare, l’iracondo Achille che trovò nel suo stesso tallone la via per sperimentare la sua mortalità, eredità di sua madre, la dea Teti, e di come lo imbevve nelle acque protettrici dello Stige tenendolo per quella parte del corpo che diverrà per un’intera cultura simbolo di fragilità.

Ma la parte divina di Drogba ebbe la meglio anche su uno dei pregiudizi più antichi del calcio, quello che potremmo definire come “il contrappasso dell’area di rigore” per cui gli attaccanti risultino efficaci e letali in quella avversaria quanto impacciati e maldestri nella propria.

Quella notte rese inefficace anche quella tradizione perché Robben non trasformò il rigore e la partita arrivò all’epilogo più intenso.

Il fatto che Drogba abbia trasformato il rigore decisivo regalando la sua prima e unica Champions League al Chelsea, arrivati a questo punto del racconto, sembra quasi superfluo da scrivere e probabilmente, se non fosse realmente andata così, mi sarei sentito obbligato a mentire mistificando la storia!

Questa certezza mi arriva dal coraggio e dalla generosità di un atleta che ha accettato di vivere tutte quelle emozioni, gioia, paura, sconforto e calma assoluta, gestendole con una forza psicofisica che dubito fortemente possa appartenere a questo mondo.

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
  • Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

2 risposte

  1. Ciao Davide, l’accostamento alla linea Maginot per me appassionato in modo particolare della campagna di Francia 1940 è davvero geniale, complimenti per l’articolo, sono anche rimasto impressionato dalla tua biografia! 👏

  2. Ciao Ambrogio, grazie mille per le BELLISSIME parole!
    Devo dire che il richiamo alla storia francese è praticamente genetico perché mia madre era francese.
    La scrittura è una passione(come il calcio) e quando si ricevono commenti come il tuo non si può chiedere di meglio!
    GRAZIE!

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