LE NAZIONALI CHE NON HANNO VINTO IL MONDIALE MA SONO ENTRATE NELLA STORIA DEL CALCIO: LA NAZIONALE COLOMBIANA DEL ’94.

Se, come sostengono alcuni, il tragitto ed il percorso sono più importanti dell’approdo alla meta, ciò di cui ci accingiamo a scrivere rappresenta l’estremizzazione del concetto in ambito calcistico.

Una storia suggestiva e complessa. Una storia di calcio ma anche di altro. Una storia che, come tutte le storie latino americane che si rispettino, si presta a più interpretazioni. Intrisa di protagonisti che non toccheranno mai lo stato di “vincenti seriali” ma saranno in grado di unire una comunità e di far sognare un paese alle prese con l’incubo di un continuo regolamento di conti.

Ad inizio settembre del 1993 i gironi sudamericani di qualificazione al campionato del mondo (all’epoca più di uno) sono chiamati a stabilire le partecipanti alla kermesse che di lì a nove mesi prenderà il via negli Stai Uniti.

Notoriamente Argentina e Brasile si qualificano senza problemi alla fase finale, spesso accompagnate dall’Uruguay. La quarta squadra, viceversa, tende a variare in base ai cicli e alle “covate” di talenti nazionali.

Negli anni settanta e ottanta è toccato a Perù e Cile prendere parte al mondiale, in seguito è stata la volta del Paraguay (1986).

Successivamente, ha fatto capolino una nazionale “nuova”, simbolo di un paese che vive di calcio e grazie al calcio riesce a trovare quell’unità di intenti che le vicende quotidiane tendono a ledere, preso com’è ad assistere a due guerre che si combattono per il controllo del traffico della droga.
La prima è la guerra che lo stato prova a combattere contro i narcotrafficanti che non esitano a riempire le strade di sangue e di cadaveri. L’altra è quella che combattono tra loro i cartelli di Calì, di Medellin e da un po’ di tempo di Bogotà.

E’ questa la situazione in cui versa la Colombia dei primi anni 90.

Uno stato senza regole, dove tutto è incerto e dove nulla è in grado di tenere unite le persone eccetto, come detto, l’amore per la nazionale.

La compagine dei cafeteros ha partecipato all’ultima edizione del campionato del mondo tenutasi in Italia uscendo agli ottavi di finale contro il Camerun anche a causa di un’uscita scellerata del portiere Higuita, sino a quel momento tra i migliori della squadra.

Da lì la squadra è cresciuta e si accinge a giocare in casa dell’Argentina la partita decisiva per la qualificazione alla coppa del 1994.

La novità risiede nel fatto che nella classifica del girone gli argentini stanno dietro alla Colombia.

Ergo quest’ultima potrà contare su due risultati.

Quella che andrà in scena al Monumental di Buenos Aires il 5 settembre 1993 sarà la recita più importante del calcio colombiano di sempre.

Non sarà una partita di calcio, sarà una lezione esplicativa di un modo di interpretare il football.

Un capolavoro, si badi bene, strategico e non tattico.

Un calcio pensato e programmato secondo i dettami della modernità pallonara a cui, tuttavia, non difetta l’elemento romantico.

                   “Una volta mi hanno detto che in questo secolo ci sono

                    stati tre soli grandi avvenimenti in Colombia.

                   Lo scoppio del La Violencia nel 1948, la pubblicazione

                    di Cent’anni di Solitudine nel 1967 e la sconfitta per 0-5 dell’Argentina

                   per mano della nazionale colombiana nel 1993.

                   E sapete qual’è la cosa peggiore? Che è proprio così”

                            (Gabriel Garcia Marquez)

Il sistema difensivo argentino salta completamente per aria a fronte degli attacchi dei colombiani.
La squadra in maglia gialla si muove come fosse un blocco unico, in perfetto stile Sacchi verrebbe da dire, ma, a differenza del calcio caro allo stratega di Fusignano, la fase offensiva è in grado di alternare l’occupazione dello spazio su ritmi alti a fasi di gioco più compassate sublimando la ricerca del passaggio filtrante.

Delle cinque marcature colombiane ve ne sono quattro con l’uomo liberato davanti al portiere.

La Colombia si qualifica come prima del girone.

Gli appassionati argentini, inebetiti da quanto si palesa ai loro occhi, applaudono gli avversari.

Le gerarchie si ribaltano: Redondo, Simeone, Ruggeri, Batistuta, Balbo e tutti gli altri saranno costretti a “spareggiare” con l’Australia nel tentativo di lavare l’onta subita.

Non sarà semplice per loro far fuori i canguri, nonostante per l’occasione venga richiamato Diego Maradona. Ce la faranno solo al termine di un doppio confronto dominato dalla tensione durante il quale, come sempre, El Diez li porterà fuori dal tunnel.

Nel frattempo, il paese che prende il nome da Cristoforo Colombo è impazzito di gioia.

La stampa colombiana parla di “parricidio”, ricordando come il calcio argentino rappresenti il  riferimento del football colombiano sin dai tempi di Pedernera, Di Stefano e di molte star biancocelesti ingaggiate a colpi di dollari nella lega Colombiana degli anni 50.

Spazzata via l’Argentina, gi eroi pallonari diventano delle autentiche star. Alcuni di loro non sanno, o forse non possono, dire no agli inviti del più famoso dei narcotrafficanti. Trattasi, manco a dirlo, di Pablo Escobar che li chiama a giocare lunghe partite nella prigione dorata che ha preteso gli venisse costruita, con tanto di lussi e divertimenti di ogni genere, in cambio della sua resa.

Gli sponsor si litigano i giocatori più rappresentativi divenuti oramai delle popstar.

Alcuni tra i nazionali trovano fortuna e soldi in Europa.

La compagine dei Caribe diventa il simbolo del riscatto di una nazione.

L’interesse dei calciofili si riversa in massa verso questa rappresentativa che pare in grado di riscrivere la storia calcistica del Sudamerica al punto che la Umbro, storica casa di abbigliamento  di stampo anglosassone, ottiene di diventarne il fornitore tecnico in previsione della Coppa del Mondo 1994.

Gli esperti di tutto il mondo godono nello scrivere della nazionale colombiana anche se, a dire il vero, pochi di loro conoscono ne conoscono la genesi.

Non si tratta di un’esplosione improvvisa bensì di un percorso graduale sotto la guida di un Commissario Tecnico dalla testa fredda, dall’animo nobile e dal carattere mite.

Francisco Antonio Maturana Garcia detto El Pacho ha costruito la “sua” nazionale passo dopo passo.

L’ALLENATORE DELLA COLOMBIA FRANCISCO MATURANA

Nessun volo pindarico, nessun eccesso emotivo tanto a caro al paese di provenienza.

Un uomo totalmente estraneo ai due opposti contesti sociali, la violenza ed il nadaismo, che aveva visto materializzarsi durante l’infanzia e la gioventù.

Secondo il suo credo, la razionalità non è un limite. Anzi.

E’ convinto che solo un pensiero spiccato possa dar vita ad emozioni credibili.

L’effimero non fa per lui. L’estetica sì!

Studio, applicazione, disciplina da un lato. Fantasia, divertimento e ironia dall’altro.

“Il sesso prima delle partite?

E’ una questione personale dei calciatori.

La cosa importante

 è che non lo facciano durante le partite”

(Francisco Maturana)

Il concetto di base che Maturana riesce ad innestare nella mente dei suoi è il seguente:

Il calcio sta modificando i suoi principi tattici e tecnici. Se rimaniamo fermi al football di estrazione latino americana rischiamo di soccombere dal punto di vista atletico, strategico e del collettivo. Solo ponendoci alla pari su questi piani potremmo far pesare la nostra inventiva e la nostra tecnica.

In caso contrario, non saremmo posti nella condizione di usufruirne.

Durante il primo triennio alla guida della nazionale, El Pacho allena anche una squadra di club: l’Atletico Nacional di Medellin che porta nel 1989 alla vittoria in Copa Libertadores e ad una manciata di minuti dai calci di rigore dell’Intercontinentale. Accadrà poi che un calcio di punizione di Alberigo Evani spezzi i sogni dei suoi ma l’immagine che offre al mondo è quella del primo tecnico capace di confrontarsi contro il Milan di Sacchi con principi simili a quelli del mister rossonero e, per buona parte della gara, a metterlo in difficoltà.

IL GOAL SU PUNIZIONE DI ALBERIGO EVANI NELLA FINALE DI COPPA INTERCONTINENTALE MILAN-ATLETICO NATIONAL DI MEDELLIN 1-O GIOCATASI IL 17 DIC 1989.

Va da sé che con l’allenatore del Milan la stima è altissima oltre che reciproca.

La nazionale sotto la guida di Maturana è la traslazione dell’Atletico di Medellin in maglia gialla anche perché il tecnico chiede ed ottiene che il proprio club tesseri solo giocatori di nazionalità colombiana.

Si difende, ovviamente, a zona ed anziché attendere gli avversari si va a pressarli.

Il sistema di riferimento è l’1442 anche se, rispetto ai canoni europei, viene riadattato nella fase di possesso.

Nell’idea iniziale di Maturana, l’enghance tanto caro al calcio sudamericano avrebbe dovuto lasciar posto ad un centrocampista centrale in più, in modo da formare una linea di centrocampo a 4 con due esterni di fascia abili nell’interscambio di posizione con i terzini di riferimento intenti a sovrapporsi.

La realtà ha detto altro se è vero (come è vero) che il CT, al fine di non disperdere il genio del suo numero 10, ha concesso una licenza ai propri principi e ritagliato, a misura del suddetto, una funzione che possiamo definire una via di mezzo tra quella di regista e di trequartista.

Così facendo i due centrali di centrocampo si ritroveranno a  svolgere compiti totalmente diversi.

Il più ammirato dai romantici del calcio sarà quello con i boccoli biondi per cui Maturana, come detto, fa uno strappo alla regola.

Per Sacchi (e gli studiosi della materia) l’elemento imprescindibile sarà invece il compagno di reparto, anch’egli dai lunghi capelli ma di colore nero.

Come anticipato, la fase di possesso è di duplice matrice. Da un lato vi è l’intento di occupare lo spazio e di aggredire la metà campo avversaria sfruttando la superiorità numerica. Dall’altro, grazie alle libertà concesse al biondo, si tende alla ricerca del filtrante per accendere il motore dei velocisti dal passo lungo e felpato.

Nel periodo che precede il mondiale statunitense, la Colombia di Maturana gioca ventisette partite ufficiali, perdendone solo una.

Il processo di innalzamento tecnico ha inizio con la partecipazione a Italia 90 che si conclude agli ottavi di finale. A seguire un quarto posto raggiunto durante l’edizione della Copa America del 1991 e un terzo posto in quella del 1993, uscendo in semifinale ai rigori contro l’Argentina padrone di casa, successivamente demolita nella gara del Monumental.

Il gioco è brillante. La modernità dei concetti calcistici trova nei risultati un appiglio importante. E, cosa fondamentale, l’unità di intenti non è mai in discussione nonostante la presenza in gruppo di individualità di spiccato carisma e di assoluto valore.

Nell’identificare gli uomini chiave tra i Caribe degli anni 90, è doveroso fare un distinguo tra i personaggi iconici e i calciatori a cui Maturana consegna i codici del suo sistema di gioco.

Secondo la narrazione popolare e letteraria, a farla da padrone è il trio composto da Renè Higuita, Carlos Valderrama e Faustino Aspilla.

Josè Renè Higuita Zapata detto “El Loco” rappresenta una delle figure più eccentriche della storia del calcio.

Il fato vuole che nonostante un decennio abbondante di titolarità al centro della porta dei Cafetoros, non partecipi al mondiale americano. Giocherà quello precedente (1990) e quello successivo (1998) ma mentre i suoi compagni affronteranno l’esperienza di USA 94 lui non sarà convocabile.

Infortunato? In polemica con il CT? Vittima di un rendimento scadente?

Nulla di tutto ciò.

Non sarà convocato perché detenuto in carcere.

La legge colombiana punisce severamente coloro i quali si rendono parte attiva nelle trattative per la liberazione dei soggetti sequestrati. E Higuita è stato riconosciuto colpevole di mediazione in merito ad una trattativa atta a liberare un malcapitato. I sette mesi di detenzione cadono durante lo svolgimento della Coppa del Mondo.

Di Higuita si è sempre scritto e parlato come di una figura folkloristica, ricordata per gli eccessi e le libertà che era solito prendersi con la palla tra i piedi.

Nulla di più inesatto.

Per Maturana il portiere dai riccioli neri rappresenta qualcosa di importante nella fase di costruzione. Non tanto per le doti balistiche, peraltro di tutto rispetto e certificate da 40 goal in carriera di cui 3 in nazionale, quanto per la possibilità di elevare il portiere sin quasi all’altezza della linea dei difensori consentendo ad uno dei centrali difensivi di addizionare un elemento al centrocampo durante la fase di uscita palla. Il tutto nel tentativo di beneficiare della superiorità numerica nella zona nevralgica del terreno di gioco. Zona in cui la Colombia tende a creare una fitta ragnatela di passaggi in attesa di lanciare le sue frecce offensive.

Un ragionamento non dissimile da quello sviluppato da Rinus Michels al momento di affidare la porta dell’Olanda a Jongbloed.

Indimenticabile rimarrà il marchio di fabbrica del portiere colombiano, ribattezzato “il colpo dello scorpione”, ovvero un modo particolare di colpire la palla con le suole di ambo le scarpe, tuffandosi in avanti dopo che questa ha superato la propria sagoma, facendola passare nuovamente sopra la propria testa.

IL PORTIERE RENÈ HIGUITA NEL “COLPO DELLO SCORPIONE”

Gesto, a metà tra il calcio e l’acrobazia, che troverà la propria celebrazione a Wembley allorché, nel corso di un’amichevole Inghilterra-Colombia, il nostro si opporrà in tal modo ad una conclusione di Jamie Redknapp.

Il secondo del trio lo abbiamo già incontrato in questo blog nel momento in cui abbiamo celebrato la poesia del numero 10 in Sudamericana, descrivendolo così: “Anche fuori dai confini brasiliani il calcio latino americano sforna esemplari di arte calcistica, capaci di far sognare il pubblico pur se poco inclini alla fase di non possesso. Appartiene a questa cerchia Carlos Valderrama, il più famoso 10 nella storia dei “Cafeteros”, dal portamento regale e dai tratti distintivi, abituato a “telecomandare” i compagni di nazionale di un paese, la Colombia, che lo idolatra. Il carisma di cui gode è tale da indurre anche un teorico dell’organizzazione come il CT Maturana a consentirgli licenze poetiche ad altri precluse”

https://www.filippogalli.com/2023/02/20/il-numero-10-la-poesia-del-calcio-in-italia-europa-sudamerica-e-3-parte/(si apre in una nuova scheda)

Carlo Alberto Valderrama Palacio, detto “El Pibe” è un’autentica divinità calcistica della Colombia. E’ il capitano dal carisma debordante, l’uomo di classe, il giocatore dell’ultimo passaggio come segnale distintivo di chi preferisce l’assist al goal. Ha una visione di gioco illimitata, si muove come un Rivera dal look sgargiante per via dei lunghi capelli tinti di biondo.

CARLOS VALDERRAMA, IL NR.10 DELLA COLOMBIA

Manda in porta con regolarità Asprilla, Valencia, Rincon e chiunque abbia nello scatto il suo punto di forza.

Anche quando sembra assopirsi, muove sempre la palla.

L’intelligenza, non solo calcistica, non gli fa difetto. E’ uno dei pochi calciatori colombiani del tempo ad aver completato il percorso di studi ed essere cresciuto in una famiglia di intellettuali.
A volte può sembrare un vigile, fermo nel traffico a dirigere le operazioni, altre volte un comandante che corre in aiuto dei soldati. Libero o marcato la vuole sempre e i compagni lo accontentano sapendo che a breve saranno ricompensati.

Lo abbiamo premesso: Maturana gli concede licenze ad altri non concedibili perché è rapito dall’incredibile capacità di trattamento della palla e dall’attitudine continua nel mandare i compagni in rete.

Due controindicazioni:

1. Non è a suo agio (eufemismo) nella fase di non possesso il che per i principi del CT rappresenta un grosso guaio.

2. Il dinamismo gli difetta e l’idea del Pacho di mutuare l’1442 di stampo europeo si infrange su questo scoglio.

Poco male: la Colombia non può e non vuole rinunciare alla propria creatività.

Il sistema di gioco sarà una via di mezzo tra l’1442 e l’1433.

All’equilibrio in mezzo al campo ci penserà qualcun altro.

El Pibe, nel momento in cui Maturana assume la guida della nazionale, ha già maturato un cospicuo numero di presenze da capitano.

Non è uno dei ragazzi del Nacional Medellin.

E’ un elemento che brilla, eccome, di luce propria. Dopo un primo anno di difficoltà, si è preso per mano il Montpellier portandolo alla vittoria della Coppa di Francia. La sua esperienza internazionale è ciò che necessita a calciatori che militano quasi tutti in squadre colombiane.

“Nel gioco europeo non era suo agio,

era un esponente naturale del tenere la palla in movimento.

Ma era così dotato che potevamo dargliela

 quando non sapevamo che altro fare, sapendo che non l’avrebbe mai persa.

 Spesso gli riuscivano cose che la maggior parte di noi si sognava.”

(Laurent Blanc)

Se Valderrama è salito agli onori della cronaca prima dell’avvento di Maturana sulla panchina colombiana, l’ultimo componente del trio si è aggregato dopo qualche anno di permanenza del CT.

Faustino Asprilla, detto “El Pulpo” esplode nella stagione 1992-93 nel Parma di Scala che, guarda caso, è una delle poche squadre italiane che sviluppa la fase offensiva con il sistema latinoamericano. Prima dell’arrivo di Tino, Melli e Brolin si spartivano il fronte offensivo partendo larghi e stringendo verso la porta, con il sindaco Osio a fungere da enghance.

FAUSTINO “TINO” ASPRILLA ATTACCANTE DELLA COLOMBIA ED IN ITALIA GIOCATORE NEL PARMA.

Dal Parma  ad essere protagonista della nazionale il passo è breve.

Devastante negli spazi, è in grado di arpionare sempre e comunque il pallone su cui si avventa. Talvolta pare perdere il controllo della sfera o, peggio, scegliere una traiettoria di corsa non direzionata verso la porta. In realtà, possiede un’innata capacità di correggere la postura mentre si invola verso la rete. L’illusione degli avversari che si allunghi la palla si dissolve nel momento in cui, un attimo prima del loro intervento, gliela sposta lasciandoli di stucco.

Per lui sembra tutto facile; mai un’espressione od una smorfia che dimostri uno sforzo o un patema.
E’ l’immagine di chi gioca per divertirsi.

Nella memorabile serata del Parricidio ne mette a segno due con facilità disarmante.

Ama partire da sinistra, in ossequio ai grandi attaccanti sudamericani del passato, ma risulta incontenibile anche da destra.

Calcia e, soprattutto, segna con ambo i piedi. Che si tratti di sentenziare il portiere da dentro l’area  dopo un fuga in solitario o di trafiggerlo con una conclusione dalla distanza per lui non fa differenza.

Quando accelera è imprendibile per chiunque. Nel momento in cui il difensore risente dello sforzo profuso per inseguirlo Tino accelera. L’incredibile capacità aerobica unita ad altrettanta elasticità muscolare fa di lui un quattrocentista con la palla al piede.

Sarà un goal di Faustino Asprilla ad interrompere la serie infinita di vittorie del Milan di Capello.

L’abitudine agli eccessi e una vita fuori dal campo non propriamente da atleta gli renderanno breve la carriera privando gli appassionati di un calciatore unico nel suo genere.

In nazionale divide il fronte d’attacco con Valencia ma quando l’esterno destro di centrocampo (Rincon) si alza, si forma un tridente naturale con due frecce sulle corsie esterne che non vanno al cross ma puntano direttamente la porta avversaria.

 Eccola la variante dell’ 1442 a cui Maturana ha pensato.

Con un esterno come Rincon è un attimo passare all’1433 con due punte larghe e una centrale di riferimento.
Ed ecco spiegato perché sul lato sinistro del centrocampo venga schierato Gomez, di professione mediano. Perché, quando Rincon si alza, con un movimento in senso antiorario, lui e Alvarez vanno a giocare da interni coprendo le spalle a Valderrama.

PASSAGGIO DAL SISTEMA 1442 ALL’ 1433 ATTUATO DA MATURANA

Abituati come siamo oggi alla fluidità dei sistemi non c’è da nulla di sorprendente ma se rapportiamo le idee del CT colombiano al calcio di trent’anni orsono c’è solo da levarsi il cappello.

Ancora una volta ci imbattiamo in una situazione, cara a chi scrive, in cui il collettivo e la struttura di squadra non mortificano il talento, anzi lo esaltano!

Definito il trio delle meraviglie che, anche per questioni di immagine, fa impazzire supporter e  sponsor, è doveroso spostare l’attenzione su altre due individualità. Forse meno attraenti agli occhi dei più ma autentici punti cardinali nello scacchiere di Maturana.

E’ opinione di chi scrive che nel calcio, e negli sport di squadra in generale, nessuno sia  indispensabile.  Vi sono, tuttavia, questo sì, elementi che hanno l’attitudine a determinare.

Nel nostro caso, come detto, sono due.

Il primo è Andres Escobar.

Leader per definizione.

Detiene le chiavi della fase difensiva e della prima costruzione. La sua leadership si basa su criteri opposti rispetto a quella di Valderrama.

Sobrio, razionale, per nulla eccentrico. Guida la difesa con poche parole. I compagni gli van dietro prendendo ad esempio ogni suo gesto.

Non trova posto nell’elenco dei cavalieri difensivi del calcio sudamericano che comprende Passarella, Figueroa, Nasazzi e Chumpitaz perché è meno sfacciato, meno umorale.
E’ un cavaliere dai modi gentili, razionale come lo desidera il suo maestro ed allenatore.

Maturana vuole andare oltre il concetto di difensore impavido, guerriero ed istintivo.

Intendendo la fase difensiva come anticamera di quella offensiva, pretende un atteggiamento più cerebrale.

Il “suo” centrale difensivo deve ragionare prima che affondare.

Andres Escobar interpreta il ruolo alla perfezione e, grazie ai suoi piedi ed alla sua visione di gioco, permette alla Colombia di “impostare da dietro”.

Volendo trovargli un paragone nel calcio europeo di quei tempi, diviene lecito pensare a Belodedici, mitologico ed elegante libero della Romania e della Stella Rossa. Ma questi era solito giocare “staccato” mentre Escobar, che porta il numero 2 in ossequio alla storica numerazione in uso ai difensori centrali sudamericani, si muove in seno ad una difesa in linea.

L’altro elemento chiave si chiama Leonel Alvarez.

Soprannominato “El Leon”,  fondamentale nel gioco dei cafeteros per svariati motivi.

In seno ad una compagine paragonabile ad un’orchestra, che suona su spartito da cui emergono gli assoli jazz dei frombolieri offensivi, El Leon non può che essere considerato il percussionista imperterrito.

In parole povere colui che dà i tempi.

Instancabile nel portare il pressing, gli spetta la palma di miglior in campo nell’Intercontinentale dell’89, quando toglie il respiro ai quattro centrocampisti rossoneri che per 120 minuti se lo ritrovano sempre di fronte. Specificato che stiamo parlando di Fuser, Donadoni, Ancelotti e Rijkaard, non proprio degli sprovveduti, il nostro non si fa problemi di sudditanza e come un moto perpetuo va a caccia di ogni pallone che staziona nella zona centrale del campo.

In nazionale gli viene chiesto molto di più.

Dovendo dividere quella zona con Valderrama, che ha avuto in dote tanti doni ma non quello del dinamismo, deve correre per due.

E Alvarez svolge il compito alla grande. Senza mai rinunciare alla lucidità in fase di impostazione considerato come, oltre alla capacità di recupero palla, possieda un’ottima visione di gioco.

Incarna perfettamente il calciatore dalla doppia fase tanto cara a Rinus Michels e ad Arrigo Sacchi che, trovatoselo di fronte, si appunta il nominativo e lo farebbe salire nell’aereo per Milano se non potesse contare su Ancelotti e Rijkaard.

Se manca Valderrama il popolo colombiano è consapevole che difficilmente si divertirà. Se manca Alvarez sa che difficilmente la nazionale vincerà.

La compagine dei Caribe è al punto più alto di sempre, i calciatori quasi tutti all’apice in carriera, il popolo impazzisce di gioia e non vede ora che la kermesse iridata abbia inizio.

L’unica preoccupazione è data dal sorteggio perché la Colombia sarà inserita in quarta fascia e potrebbe imbattersi in un girone complicatissimo. Brasile, Italia, Germania, Spagna, Argentina potrebbero materializzarsi e rendere difficoltoso il cammino sin dall’inizio.

L’urna in realtà accontenta i colombiani (anche se visto a posteriori il sorteggio non fu poi così benevolo) perché finiscono nel girone degli Stati Uniti ai quali la qualifica di testa di serie è  concessa solo perché paese ospitante. 

Le altre due nazionali del girone, Romania e Svizzera, sono ostiche e Maturana fa notare che trattandosi di compagini europee saranno ostacoli difficili da superare. L’ambiente, tuttavia, non recepisce il pericolo assorto com’è dai pronostici di importanti figure del calcio mondiale, Pelè su tutti, che indicano la Colombia tra le favorite per la vittoria finale.

Un piccolo campanello d’allarme squilla nei primi mesi del 1994 quando Valderrama è vittima di un infortunio che sulle prime sembra pregiudicargli la partecipazione al mondiale.

Il timore, o meglio il terrore, che El Pibe non sia presente negli States, scompare a fine aprile quando i boccoli biondi fanno ritorno in campo e con loro la fascia di capitano al braccio del profeta di Santa Marta.

La popolarità della nazionale è sempre più alta con la conseguenza che, in un paese in cui la delinquenza ed il contrabbando la fan da padrone, è impensabile che le organizzazioni criminali non guardino con attenzione ad un fenomeno di quel genere.

Il giro di scommesse clandestine legate al campionato del mondo assume dimensioni non immaginabili e i cartelli della droga gestiscono un numero illimitato di puntate che prevedono la vittoria dei beniamini di casa nelle partite del girone.

Si parte per gli States, il cui governo ha dichiarato “guerra diplomatica” alla Colombia e ha chiesto l’estradizione di numerosi trafficanti di Calì e Medellin, con la consapevolezza che non si andrà a far la figura dei comprimari ma anche con un po’ di superficialità ritenendo che la squadra non faticherà a qualificarsi per la fase ad eliminazione diretta.

Volando negli USA i calciatori lasciano un paese che, calcio a parte, è messo ancora peggio che nell’autunno dell’anno prima.

L’uccisione di Pablo Escobar ha dato vita ad un vuoto di potere nella gestione del traffico della droga con i cartelli di Calì, Medellin e Bogotà impegnati in una guerra senza esclusione di colpi.

 Il 18 giugno 1994 la Colombia esordisce al Mondiale contro la Romania. Fortuna vuole che il girone dei colombiani preveda lo svolgimento delle gare nei pressi della costa Ovest, con un clima mite il che sarà determinante per arrivare alla fase finale della competizione in buona condizione fisica. Teatro della gara è il Rose Bowl di Pasadena, gremito di ispanici come non mai e ansioso di assistere alle gesta degli artisti in maglia gialla.

Nel pomeriggio newyorkese si è consumato il primo scalpo a sorpresa del mondiale.

L’Irlanda di Jackie Charlton ha sconfitto l’Italia di Sacchi.

Roberto Baggio, una delle stelle conclamate della Coppa del Mondo, non ha brillato.

Ma adesso tutti aspettano la recita di Valderrama.

In previsione di Colombia-Romania, si è parlato di tutto: della straordinaria compagine dei Caribe, dell’attenzione dedicata ai protagonisti, del genio di Valderrama, dell’assenza di Higuita e delle giocate che Tino Asprilla è pronto a sfoggiare.

Tutto questo deve aver irritato Gheorghe Hagi, capitano rumeno dalla classe infinita e dall’atteggiamento ribaldo.

Ha in comune con Valderrama la renitenza verso la fase di non possesso, il che lo obbligherà ad adattarsi a giocare da seconda punta nel momento in cui sbarcherà nei campionati più importanti. Ma quanto a classe non è da meno. E ci tiene a farlo notare.

Pronti via e manda in goal Raducioiu, attaccante che nei precedenti tre anni di serie A ha cambiato tre squadre retrocedendo con tutte e tre. Abilissimo a smarcarsi, meno a concretizzare.

La Colombia accusa il colpo ma prova a reagire. Nel momento in cui comincia a tessere la propria tela, tuttavia, il Maradona dei Carpazi si inventa un goal da oltre 40 metri.

Il risultato finale di 3-1 in favore dei rumeni è una doccia fredda ma il format del mondiale è tale che la qualificazione è ancora possibile. Passano le prime due e le quattro migliori terze dei gironi. La Colombia non può uscire.

Maturana è consapevole che il lavoro principale da svolgere prima della sfida contro gli USA sarà di natura mentale e psicologica. Ha bene in testa il da farsi e vuole portare i suoi ad un livello di concentrazione massimale.

La squadra all’esordio ha sofferto le pressioni e la tensione. E’ capitato anche all’Italia.

Ora la parola d’ordine è concentrazione.

Anche il più integerrimo tra gli esserei umani, anche colui che mai cederebbe di fronte alle peggiori minacce, ha un punto in cui può essere minato.

Francisco Maturana è uomo d’altri tempi; per lui l’onestà e la rettitudine vengono prima di tutto. Si è illuso di dare un’immagine diversa del proprio paese grazie ai comportamenti che pretende prima da sé e poi dai suoi ragazzi.

Mai scenderebbe a compromessi, nemmeno sotto tortura.

Ma se ad essere minacciata è la tua famiglia, allora le cose cambiano.

Esponenti di uno dei più cruenti cartelli della droga fanno pervenire, all’indomani della sconfitta con la Romania, un fax nel ritiro colombiano.

Il testo è succinto ma molto chiaro: “Se Gomez gioca contro gli Usa faremo saltare casa sua e quella di Maturana”.

Sembra un replay di Italia 90, quando gli impedisti sloveni imposero al CT Jugoslavo Ivica Osim di lasciar fuori Sretko Katanec nella sfida con l’Argentina per il timore che una vittoria slava rallentasse il processo di indipendenza della Slovenia https://www.filippogalli.com/2022/12/17/le-nazionali-che-non-hanno-vinto-il-mondiale-ma-sono-entrate-nella-storia-del-calcio-la-jugoslavia-di-italia-90-2-parte/(si apre in una nuova scheda)

Stavolta la minaccia è ancor più cruenta.

El Pacho sa perfettamente che per quelle persone passare dal dire al fare non sarà un problema.

Avevano puntato enormi flussi di denaro sulla vittoria contro la Romania e non tollerano di aver perso. Hanno individuato il colpevole della sconfitta nella figura di Gabriel Jaime Gomez e ne ordinano l’uscita dall’undici titolare. Gomez che, esattamente come i suoi compagni più noti, non ha ben figurato contro i rumeni, è un elemento importante. E’ lui che compensa, con sagacia tattica e duttilità, le scorribande dei frombolieri offensivi.

Di fronte alle minacce di morte, gli equilibri del sistema di gioco non hanno importanza. Fossero state rivolte solo a lui, Maturana non le avrebbe ascoltate ma l’idea di porre in pericolo la famiglia sua e quella di un suo ragazzo fa sì che il Barrabas, così è soprannominato Gomez, esca di squadra.

Preparare una partita decisiva ad un campionato del mondo in queste condizioni è praticamente impossibile.

Convinto di lavorare dal punto di vista mentale, El Pacho si ritrova in una situazione di terrore.

Il pensiero comune dei calciatori è che se dopo la prima sconfitta si è arrivati a tali minacce, a cosa andrebbero incontro qualora dovessero soccombere anche al termine della seconda sfida?

Scenderanno in campo con la paura. Ma non la paura di essere eliminati.

La paura che possa accadere qualcosa di grave.

In condizioni normali, la Colombia avrebbe “fatto la partita” contro gli USA dal primo al novantesimo. Ma di normale, oramai, non c’è più nulla.

Accade l’imponderabile.

Nel tentativo di intercettare un traversone basso proveniente da sinistra, Escobar insacca la propria porta.

Il più bravo di tutti incappa in una scena tragicomica.

Lui che è salito agli albori per eleganza, postura, tecnica e pulizia di intervento si rende protagonista di un gesto goffo, grossolano, fuori tempo e privo di coordinazione.

Di palloni del genere in carriera ne avrà controllati a migliaia, forte di un senso della posizione senza eguali.

Ma quando non si è tranquilli, quando si ha paura, anche i gesti più comuni possono risultare letali.

Con Escobar affonda tutta la Colombia, Non solo quella calcistica.

Il resto della gara con gli Stati Uniti è un calvario.

L’espressione acuta e penetrante di Maturana lascia posto a quella di un uomo triste e rassegnato.

La vittoria nella terza gara contro la Svizzera servirà solo ad acuire i rimpianti di una squadra che non vede ora di lasciare gli States.

Al ritorno a casa, Andres Escobar non si nasconde.

Non è mai stato uomo da microfoni o copertine ma capisce che è lui a dover prendere la parola.

E se ne esce con una frase che in un mondo civile dovrebbe valere la normalità. Si dice dispiaciuto ed amareggiato per l’accaduto ma aggiunge che l’eliminazione prematura “non è la fine del mondo”. Sempre di una partita di calcio si tratta.

Purtroppo per lui i cartelli della droga non la pensano così. Sulla qualificazione della Colombia alla seconda fase sono state giocate ingentissime somme di denaro. Le perdite economiche sono risultate notevoli e lui ne è il responsabile principale.

Sarebbe cosa buona e giusta barricarsi tra le mura domestiche e aspettare che le acque si calmino.
Sparisce per qualche giorno dai radar ma i demoni lo tormentano e una sera non ce la fa più.

Decide di recarsi in un locale di Medellin su consiglio della fidanzata che lo vede spegnersi e deprimersi giorno dopo giorno.

Giunto sul posto qualcuno lo apostrofa pesantemente, forse convinto che voglia abbordare una ragazza presente.

Capisce che non è aria e fa per andarsene ma al momento di raggiungere l’auto viene assassinato senza pietà.

E’ l’epilogo di una storia piena di contraddizioni. Di entusiasmi, forse eccessivi, e di disperazione.

La Colombia del Parricidio calcistico  chiude la propria epopea a seguito di un omicidio reale.

Il calcio dei Caribe rimarrà indelebile nella memoria degli appassionati ma sarà impossibile slegarlo alla situazione sociale del paese di quegli anni.

Alcuni dei suoi protagonisti continueranno a dipingere football mentre il paese, pur tra mille difficoltà, proverà ad uscire dalle storture del narcotraffico.

Per anni il calcio rimarrà l’unico svago popolare ad unire le persone e quando nel 2001 la nazionale trionferà in Copa America non ci sarà colombiano la cui memoria non torni alla squadra che trionfò a Buenos Aires nella partita più bella.

IL CT di quella squadra, finalmente vincente, sarà manco a dirlo Francisco Maturana.

Note a margine.

– Nella stagione 1991-1992 Maturana venne chiamato alla guida del Real Valladolid e ottenne l’acquisto dei suoi pupilli Valderrama ed Alvarez. Purtroppo, sin dai primi mesi, le vicissitudini economiche del club condizionarono la stagione non rendendo possibile testare il calcio del Pacho nel contesto europeo;

– La numerazione a cui si fa riferimento nel pezzo, in voga in Sudamerica, che contemplava il centrale difensivo con il numero 2, trae spunto dal sistema di gioco denominato “metodo” (WW) che prevedeva i due centrali difensivi più bassi rispetto ai terzini di fascia che andavano ad allinearsi con il volante posto davanti ai due centrali. Seguendo la numerazione progressiva, il 2 ed il 3 erano i centrali, il 4 ed il 6 i terzini ed il volante posto in mezzo a loro portava il 5.

 BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

2 risposte

  1. Complimenti Alessio, sia per le ricerche e sia per la narrazione, sia quella tecnica e sia quella letteraria.

    Credo, ma non ne sono molto sicuro, a Italia ’90 io, nell’anello basso, dietro la parta di Higuita con mio figlio, quando prese il gol sul mancato dribbling. Ho ancora qualche dubbio che l’ho visto in TV, ma ricordo che esultai al gol di Milla, non ti nascondo che ero un tifosissimo di quest’ultimo.

    Comunque, anche oggi non mi piacciono i dribbling in area come ultimo uomo portiere o altro che sia chi li fa. E’ inevitabile che prima o poi si prenda gol.

    Un saluto.

    1. Grazie mille Giuseppe.
      A leggerti verrebbe quasi voglia di proporre un pezzo sul Camerun di Italia 90.
      In realtà l’errore di Higuita avviene, con la Colombia già sotto di un goal durante i supplementari, nel disperato tentativo di accelerare le operazioni e portare superiorità numerica.
      Siamo stati un po’ severi con lui nell’affermare che la Colombia è uscita da Italia 90 anche a causa del suo errore. Però, considerato che in seguito i Cafeteros risucirono ad accorciare le distanze, chissà… Magari senza quel dribblimg errato sarebbero rimasti in corsa…

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