ANDRIJ ŠEVČENKO: VOLTO LEGGENDARIO DELLA STORIA ROSSONERA.

Un colonnello. Nel destino. Per colui che dell’Armata Rossa avrebbe dovuto far parte per scelta genitoriale, esigui battiti di tempo prima che il Comunismo si dileguasse fra Mosca e Berlino a colpi di Perestrojka e picconate all’ormai ventottenne simbolo supremo della divisione territoriale tedesca.

Tre anni dopo il disastro di Chernobyl.

No, non deve essere particolarmente semplice, secolarmente, rivestire i panni di un bambino ucraino in senso diacronico: Kiev da abbandonare è un ricorso che sembra caratterizzare la storia di un popolo che fonda l’essenza dell’altra metà del mondo, quella russa.

Due blocchi. Contrapposti. Freddamente in guerra da quasi cinquant’anni. Ancora in vigore quando l’esplosione di una centrale nucleare costringe gli abitanti della summenzionata capitale a dirigersi verso le zone costiere per evitare inevitabili  contaminazioni. Fra questi, un bambino di nome Andrij con, va da sè, la sua famiglia.

Un piccolo uomo che, “sfuggito” alla volontà paterna inesorabilmente e culturalmente volta all’iniziazione alla vita militare, fa già parte delle giovanili della Dinamo, fiore all’occhiello del mondo calcistico sovietico.

La più titolata compagine dell’ex Urss con altresì tre sigilli internazionali, rispondenti a due coppe delle coppe e ad una supercoppa europea.

Firmati dal Colonnello. Valerij Lobanovs’kyj, precedentemente al massimo grado degli Ufficiali dell’Armata Rossa, è figura leggendaria del calcio mondiale.

Duro e rigido, seccamente monoespressivo. E vincente. Uno dei  “managers” più vincenti della storia del football.

Che, nel 1988, quale mancata apoteosi, fu costretto a piegarsi dinanzi alla straordinaria Olanda di Rinus Michels e Marco Van Basten non coronando il sogno di condurre sul tetto d’Europa, per la seconda volta ed in un frangente storico particolarmente significativo e che avrebbe assunto contorni travalicanti il solo risultato sportivo, la madrepatria.

No, non fu soltanto un “capo” da ossequiare. Fu il primo allenatore ad analizzare scientificamente campo e allenamenti, uno dei primi a creare calciatori universali senza ruoli esplicitamente definiti, fornendo loro una sublime preparazione atletica grazie al determinante apporto di Petrovskij, cui erano affidate le sorti agonistiche dei velocisti russi.

Il mancato soldato, non più bambino e ormai “adulto”, da tre stagioni nella prima squadra della Dinamo,  incontra il Colonnello nel 1997. Lobanovs’kyj aveva già allenato e reso grandi ( con successive alterne fortune all’estero, a testimonianza della bontà delle capacità del tecnico di costruire formazioni che attraverso il collettivo esaltavano, probabilmente più del valore oggettivo, gli elementi a disposizione) Michajlicenko, Zavarov, Aleinikov, Blokhin e Belanov ( entrambi palloni d’oro, rispettivamente nel 1975 e nel 1986): ma con Shevchenko ( sì, proprio il bambino Andrij) conobbe l’apice dell’espressione individuale del calcio ucraino.

Shevchenko, incredibilmente veloce e completo ( rapido, tecnico, abile con entrambi i piedi, forte nell’uno contro uno, buon colpitore di testa e sontuoso nelle soluzioni balistiche), fece conoscersi in maniera definitiva al mondo in una sera d’autunno di 26 anni fa: la Dinamo del Colonnello affronta il Barcellona al Camp Nou e surclassa i blaugrana per 4-0 nella fase inaugurale, a gironi, della Champions League.

Sheva è autore di una tripletta. L’Europa romanza su Andrij. Che, nel frattempo, continua a vincere in patria e conduce la compagine di Kiev alle semifinali della più importante manifestazione continentale nella stagione successiva: il Bayern, per un soffio, in virtù dell’uno a zero maturato nella gara di ritorno in terra di Germania, ha la meglio su Shevchenko e compagni dopo il rocambolesco tre a tre in Ucraina, con la Dinamo inizialmente portatasi sul 3-1 grazie ad una doppietta di Andrij, che assurgerà a capocannoniere dell’edizione con dieci reti ( comprendendo il turno preliminare ) fra cui tre marcature rifilate al Real nei quarti.

Conseguenza delle strabilianti performance, il terzo posto nella classifica dell’ultimo pallone d’oro dello scorso millennio, vinto da Rivaldo su Beckham.

A ventitrè anni e successivamente all’esposizione sui campi del continente del proprio indiscutibile talento e del proprio valore, per Andrij giunge il momento di abbandonare gli enigmatici, per alcuni versi ardui ed ostili ma pur sempre forieri di romantiche, intrinseche e viscerali, emozioni, luoghi natii.

Ad attenderlo, nell’allora campionato più importante del pianeta, è il Milan campione in carica, reduce, per l’appunto, dalla conquista dello scudetto con Zaccheroni in panchina.

Titolo che non sarà difeso e dunque replicato nella stagione inaugurale di Sheva che, però, alla stregua di quanto seppe fare il solo Platini, vince la classifica cannonieri da esordiente. Il terzo posto al pallone d’oro è bissato nel 2000, alle spalle di Figo e Zidane ( che, vinto il titolo europeo con la Francia, in realtà perse quello che sarebbe stato un meritato premio a causa di una testata rifilata ad un giocatore teutonico in una sfida di Champions League contro l’Amburgo, con la maglia della Juventus ).

Con i rossoneri i titoli collettivi latitano ad arrivare anche alla seconda e alla terza stagione di militanza all’ombra della “Madunina”. Per uno dei migliori giocatori del panorama mondiale le parziali gratificazioni personali non possono più bastare. Per agguantare quel pallone d’oro ormai solo più volte sfiorato è necessario raggiungere la gloria con il Milan.

E se l’attesa del piacere è essa stessa il piacere, come definire, se non irraggiungibilmente inebriante, un trionfo atteso e compiutosi attraverso un percorso che ha visto la società meneghina prevalere prima sull’altra metà cittadina e, nell’atto conclusivo, addirittura sulla Juventus? Come poter supporre, preliminarmente, un copione secondo il quale Sheva sarebbe stato assoluto protagonista di entrambi gli scenari? Suo il gol all’Inter nella semifinale di ritorno che spalanca le porte di Manchester.

Suo il rigore decisivo contro gli eterni rivali bianconeri e al cospetto di Gigi Buffon.

Istantanee iscritte nella leggenda ed inequivocabilmente, va da sè, indelebili, iconografia suprema all’interno di una storia secolare.

Ironia della sorte, al successo in Champions League non segue il trionfo individuale: il pallone d’oro è vinto da Pavel Nedved, neppure in campo nella finale dell’Old Trafford a causa della squalifica rimediata successivamente all’ammonizione subita contro il Real Madrid nella gara di ritorno delle semifinali.

L’ambita sublimazione individuale  avvenne, finalmente, l’anno seguente, dopo che Shevchenko condusse il Milan al titolo di campione d’Italia laureandosi nuovamente capocannoniere della Serie A.

Il calcio è, notoriamente, uno di quegli ambiti in cui pare assurdamente inesorabile che corsi e ricorsi, vittorie e sconfitte, narrazioni e stesure, paiano compiersi secondo un disegno che parrebbe suggerire, indipendentemente dall’individuale tensione verso la categoria della trascendenza, volontà superiori, volte a dipingere trionfi, cadute, rivincite e capovolgimenti: se l’immagine di Andrij sul dischetto dell’area di rigore in terra di’Inghilterra sarà per sempre conservata ai posteri quale attimo fra i supremi della storia rossonera, la stessa istantanea, in terra di Turchia, al cospetto di Dudek, sancirà uno dei momenti più incredibilmente tristi del Milan.

Andrij, dopo una partita surreale, con Maldini e compagni tre metri sopra il cielo del Liverpool, fallisce, dopo la sorprendente rimonta anglosassone, il rigore decisivo. Una ferita che la squadra ed Ancelotti riscatteranno due anni più tardi in quel di Atene: senza Sheva, trasferitosi al Chelsea.

Ma questa è un’altra storia. Che includerà anche il ritorno in Lombardia di colui che, nella leggendaria storia rossonera, ha l’onore e l’esaltante merito di collocarsi alle spalle del solo Nordahl quale migliore marcatore della storia del Milan. Di colui che, districatosi in tenera età fra avversità che mai dovrebbero appartenere allo scenario umanitario, dribblato un percorso che sembrava essere inevitabile e che la storia ebbe fortunatamente modo di contribuire a dileguare, è divenuto volto permanente e leggendario dell’intera storia moderna del football.

BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.

8 risposte

  1. crederci nel profondo ,la storia dentro la storia ancora una volta, più grande è il sogno è più si ambisce,da bambino probabile soldato a Shevchenko il re dell’est❤️

    1. Grazie per l’accurata descrizione della grande persona e serissimo atleta.Perchè,quando penso a Sheva,mi vengono(in primis) in mente le sue grandi qualità umane,la sua serietà e gran dedizione al lavoro,e la sua fierezza! Qualità,a mio parere,indispensabili per essere campioni! Caratteristiche del perfetto giocatore da Milan!Andrij grande orgoglio rossonero! Sempre Forza Milan💪❤️🖤🙌🙂

      1. Grazie a te per il tempo dedicato alla lettura. Qualsiasi tentativo volto alla trasmissione di qualsivoglia tipologia di sapere acquisisce significato esclusivamente nel momento della condivisione.

    1. Ha ragione, abbiamo corretto Signor Spaggiari. Ci scusiamo e ringraziamo per l’attenzione dedicataci.
      Ci piacerebbe conoscere anche il suo pensiero rispetto alla qualità del racconto.A presto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Leggi anche