LA STATUA DI MARIO.

Balotelli e il suo monumento.

Il chiasma in letteratura è una figura retorica che accosta due membri concettualmente paralleli in modo che i termini del secondo siano disposti nell’ordine inverso rispetto al primo per interrompere il parallelismo sintattico.

In biologia invece il chiasma rappresenta un punto di contatto, d’incrocio.

Il chiasma può essere declinato in altre aree ma fa sempre riferimento alla lettera greca “chi” che graficamente si potrebbe descrivere come una “x” allungata.

LA LETTERA GRECA “CHI”

Il titolo e il sotto titolo di questo articolo rappresentano un chiasma da un punto di vista letterario e il suo contenuto lo rappresenta da un punto vista biologico, trovando in un ragazzo di nome Mario l’ideale punto d’incontro tra il cognome Barwuah, il vestito scelto per lui dalla natura, e il cognome Balotelli, mantello che lo avrebbe protetto da tutto ciò che in passato lo aveva ferito.

L’idea che il chiasma possa esserci utile nel raccontare quest’esultanza marmorea di Mario Balotelli deriva dal fatto che la sua sia una storia che mette insieme tanti elementi, anche apparentemente distanti e contradditori tra loro, ma che in qualche modo riescono a coesistere tra sentimenti sempre intensissimi.

Nell’estate del 2012 si svolsero i campionati europei di calcio organizzati in condivisione tra Polonia e Ucraina, il 18 di giugno l’Italia giocò la semifinale contro la Germania.

Quella sera a Varsavia ci fu però un terzo protagonista, diventato italiano da pochi anni ma che possedeva quella appartenenza da sempre.

Mario veniva da una stagione vincente e gloriosa con il Manchester City, la sua prima in Premier League gli bastò per vincere un titolo al cardio palma a cui lui contribuì in maniera determinante anche in quegli ultimi folli minuti contro il QPR, in cui l’allenatore Roberto Mancini, colui che più di tutti sembrò potersi incastrare in una occlusa casella paterna, decise di farlo entrare confidando ancora una volta nel suo talento.

Talento che illuminò a giorno quella notte polacca, in cui Mario esibì a tutti una prestazione praticamente perfetta, anche da un punto di vista rappresentativo, perché nei due goal segnati mostrò due esultanze che potevano riassumere perfettamente le sfaccettature centrali della personalità di un ragazzo capace di fare la guerra col mondo ma anche di gioire con un’intensità così viscerale da farlo tornare bambino.

Dopo il suo primo goal di testa cominciò a tirarsi la maglietta come fosse una seconda pelle, con gli occhi chiusi partorì una gioia che nella sua infanzia probabilmente aveva immaginato tante volte ma mai con quella intensità, in un attimo tutto era completo, pacificato.

L’ESULTANZA DI BALOTELLI DOPO IL PRIMO GOAL SEGNATO ALLA GERMANIA AD EURO 2012

Nella seconda esultanza Mario mostrò invece l’altra versione di sé, o meglio, non mostrò più una parte di sé.

Appena scagliato quel bolide di collo destro all’angolo alto di Herr Manuel Neuer s’indurì repentinamente, opponendosi al flusso di gioia incontrollata che scosse noi tifosi italiani, adoranti ai piedi dell’immobilismo granitico di Mario.

Solo l’abbraccio da auto scontri di Marchisio lo risvegliò da quell’incantesimo, strappandogli un accenno di sorriso più sardonico che entusiastico, ancora una volta si era rivolto alla forza dei suoi muscoli per ricordarci la sua inscalfibilità.

L’ESULTANZA DI BALOTELLI DOPO IL SECONDO GOAL SEGNATO ALLA GERMANIA AD EURO 2012

Quella esultanza fu così forte da far passare in secondo piano un gesto tecnico praticamente perfetto che, invece, mi piacerebbe mettere vicino a rappresentazioni eterne come il palleggio di Jerry West, tatuato nell’anima grafica dell’NBA e la rovesciata di Parola, anticipatrice sempre verde di bambini in attesa di eroi.

Io sono assolutamente convinto che esista un calcio italiano prima e dopo Mario Balotelli perché, ritenendo ormai superfluo ribadire come questo sport rappresenti fedelmente la nostra società, penso che lui sia uno di quei calciatori di cui ci ricorderemo per tanti diversi significati.

La complessità della sua storia rappresenta un unicum, fino a quel momento, nel calcio professionistico ad altissimo livello, un ragazzo africano nato in Italia che viene affidato ad una famiglia italiana e diviene uno dei calciatori più popolari al mondo.

Spesso la natura umana si rattrappisce nel cercare di rispondere alla complessità con semplicità, riducendo tutte le sfumature ai soli colori primari, che dovrebbero rassicurare occhi impigriti e senza più curiosità.

Concetti che ormai appaiono quasi di uso comune come inclusività, vecchie definizioni scricchiolanti come “nuovi italiani”, quando Mario cominciò a diventare solo Balotelli eravamo ancora ben lontani dal capire la persona e la storia che avevamo davanti.

Potremmo probabilmente costruire un vocabolario solo per le frasi fatte legate a Mario, ma la più ricorrente è senza ombra di dubbio quella che sottolinea come, con il talento che possedeva, abbia fatto una carriera al di sotto delle possibilità.

Proviamo per un attimo a ribaltare questa prospettiva e a pensare come una persona costretta a crescere senza i suoi genitori, in una terra in cui si sente diverso da tutti, possa vivere anche il talento come un peso che rischia di diventare solamente un’arma di riscatto da usare, perciò, soprattutto con rabbia.

Io penso che sarebbe più giusto sorprenderci per i risultati che Mario ha raggiunto nonostante le zavorre gigantesche che il destino gli aveva riservato, piuttosto che sottolinearne le mancanze, arrivando ad un’eccellenza che normalmente presupporrebbe una dedizione e una serenità a cui un’anima profondamente ferita può solo aspirare.

Non era la prima volta che Mario esultava così, con una non-esultanza, anzi potremmo tranquillamente dire che lui sia stato uno dei padrini delle esultanze paradossali, fare di tutto per raggiungere un obbiettivo e celebrare come se non fosse successo niente.

Per chi è cresciuto innamorato del volto trasfigurato di Marco Tardelli, dopo la seconda rete alla Germania, non esultare dopo un goal è quasi blasfemo, basterebbe questo per certificare un’antipatia eterna (e io sospetto che per molte persone sia stato così!).

Ma quando ci si è abituati a sentirsi criticare, additare come diversi o sbagliati può succedere che, nel raggiungere qualcosa di speciale, si tenda a sminuire il tutto per esaltare implicitamente le proprie capacità.

“Tutto questo, che per voi è speciale, per me è normale perché io sono speciale!”

Frase che potremmo usare come ideale risposta alla maglietta che Mario esibì, dopo aver segnato uno dei 6 goal rifilati dal suo Manchester City al Manchester United, con scritto “Why Always me?”.

BALOTELLI FESTEGGIA IL SUO GOL SEGNATO AL MANCHESTER UNITED

Quella sera però, ricordandoci che la sua armatura non se n’era andata, ci mise nuovamente in guardia, si riappropriò di una parte di sé di cui per adesso non può e non vuole fare a meno.

Chissà se sarà ancora così indurito quando questo suo pezzo di vita si concluderà, dopo che tutti avranno voluto criticare/amare/avere un pezzo di lui, intrappolato e protetto allo stesso tempo dal calcio, che non potrà più indicargli una via di cui dovrà ridefinire il senso da solo.

Ma perché non può esultare come gli altri?

Perché non riesce semplicemente a gioire?

La vita gli ha portato una famiglia che lo ama e che gli ha permesso di dare spazio al suo talento, perché sembra sempre arrabbiato?

Penso che la risposta a questa domanda sia nella definizione che rappresenta al meglio l’idea di adozione: una bellissima cosa che nasce da due lutti, l’impossibilità di generare e l’abbandono.

Gli esseri viventi per stare in piedi hanno bisogno di ogni singola biforcazione delle proprie radici, la semplicità spetta solo alle fondamenta delle costruzioni, alla immobilizzante certezza del cemento e non al delicato equilibrio dell’esistenza umana.

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
  • Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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