Giovani e sport sono con tutta evidenza un binomio inscindibile: una relazione quasi naturale che vede l’attività sportiva svolgersi durante le diverse fasi dell’età evolutiva. Una evidenza che ne rivela l’inevitabile implicazione formativa e quindi relazionale: un giovane in formazione e un adulto (allenatore, dirigente, genitore,….) con lui impegnato in un percorso di apprendimento (tecnico-sportivo).
Ma sgombriamo subito il campo da equivoci o falsi miti : lo sport non è buono o cattivo per definizione. Nessun automatismo ne garantisce l’assoluta positività: le derive dello sport ne sono ahimè una triste testimonianza: doping, overtraining, alimentazione, farmaci, stress da performance, abbandono precoce ecc.
Tanti sport, un solo sport, tutto intero.
Lo sport assolve ad una funzione formativa a patto che se ne rispettino tutte le sue dimensioni costitutive: dimensione ludica, competitiva, relazionale (con i pari età e con gli adulti), morale ( il mondo delle regole intese in un’ottica formativa e non necessariamente ed esclusivamente punitiva), cognitiva (i processi di apprendimento che sollecita),fisico-atletica (schemi motori, capacità coordinative e condizionali), emotiva ( emozioni, sentimenti, paure…)
Dimensioni da intendere non come una mera somma di parti ma come un insieme di quell’ universo unico e unitario quale è la persona del giovane atleta.
Caratteristiche tutte necessarie, presenti contemporaneamente e in forma complementare, non separabili una dall’altra nell’evento sportivo. E quando una di questa prende il sopravvento in maniera esasperata (pensiamo per es. oggi alla dimensione competitiva nei bambini) a scapito di tutte le altre, perde la sua occasione formativa e si può trasformare in esperienza negativa, può fare male e procurare danni di varia natura ( fisici, psicologici, morali…) e alla lunga determinare l’abbandono della pratica sportiva stessa.
Ma direi che non basta ancora: lo sport è formativo quando queste dimensioni sono declinate in maniera coerente rispetto all’età, alle caratteristiche evolutive e persino personologiche di chi le pratica ( i giovani atleti non sono dei professionisti in piccolo!).
Oggi per esempio si assiste ad una sempre più marcata precocizzazione della performance ( per ragioni e interessi a volte legati alle società sportive), della prestazione, del risultato, della specializzazione in una disciplina sportiva ( o in un ruolo…)….
E’ ormai una pratica diffusa quella di iniziare l’attività sportiva in contesti strutturati (le società o associazioni sportive) a 5-6 anni.
Appare a tutti evidente quanto e come questo fenomeno abbia una ricaduta formativa decisiva e richieda un surplus di attenzioni anche alla luce degli stili di vita, del contesto socio-culturale in cui ci troviamo a vivere. Bambini che come sappiamo, insieme alla straordinaria ricchezza tipica di questa età, oggi portano fragilità per esempio sul piano motorio ( si parla di analfabetismo motorio); sul piano esperienziale con una sensibile mancanza di spazi e momenti di gioco sociale e libero in ambienti autogestiti; difficoltà dei giovani dal punto di vista socio-relazionale che fanno parlare di ritiro sociale ( e non solo come conseguenza del Covid-19) e di individualismo (basti pensare all’utilizzo dei social e alla ricerca esasperata della propria immagine, dell’apparire..).Per quel che riguarda il piano emotivo basti pensare alla difficoltà a reggere e accettare l’errore/limite anche a causa di un eccesso di protezione da parte dei genitori ( la stessa presenza, quasi sempre non discreta ma invadente e ingombrante, del genitore in occasione di allenamenti o partite del proprio figlio, ha un impatto significativo circa la qualità dell’esperienza sportiva che il bambino vive).
Ecco allora che lo sport può rappresentare un’occasione preziosa per consolidare o rafforzare un percorso di crescita alla luce di bisogni tipici dell’età evolutiva ma anche nuovi rispetto al contesto socio-educativo in cui il giovane è immerso. Esasperare la richiesta di performance (senza cadere nell’estremo opposto di negarla!) in ambito sportivo nei bambini di 5-6 anni significa non comprendere chi si ha davanti ed esporre il bambino ad una forzatura non rispettosa delle sue condizioni esistenziali, personali ed evolutive ( è superfluo sottolineare come questa deriva chiami in causa tutti gli adulti, nessuno escluso, a cominciare dai tecnici e dai dirigenti sportivi, per non parlare dei media, dei genitori…).E’ richiesto piuttosto di accompagnare il giovane coinvolto nella pratica sportiva rispettandone le differenti reazioni emotive.
In altre parole non si può prescindere da un’attenzione al giovane atleta qui ed ora, nella complessità delle sue dimensioni costitutive (fisiche, mentali, cognitive, affettive, emotive, relazionali…)
Accompagnare lo sviluppo della persona del giovane atleta nella sua globalità attraverso la pratica sportiva vuol dire per esempio riconoscere che il giovane sportivo partecipa ad una rete affettiva e relazionale che ne costituisce un tratto originario della sua personalità di cui non si può non tenerne conto.
In quest’ottica diventa particolarmente significativo individuare e mettere a tema quegli aspetti che caratterizzano sia l’intero processo educativo del giovane sportivo ( i bisogni, le motivazioni, le fasi e i principi dell’apprendimento…) sia il contesto specifico in cui si colloca l’intervento di formazione sportiva (la fascia di età , il tipo di società sportiva, dilettantistica o professionistica, individuale o di squadra, ludico- ricreativa o agonistica…) fino a guardare il giovane nella sua unicità, del qui ed ora, nel rispetto delle mutevoli situazioni legate ali contesti e alle necessità di ogni singolo individuo. Conoscere chi è il giovane atleta , questo giovane atleta, le sue risorse, motivazioni, potenzialità, i suoi limiti (conoscere chi sono concretamente i propri giovani atleti in quel dato momento cronologico , il loro contesto culturale , la loro situazione familiare,…).
L’evoluzione della programmazione tecnico-tattica (soprattutto nelle società altamente competitive) intesa come personalizzazione dell’allenamento e della preparazione dell’atleta, troppo spesso è rivolta ad una raffinata conoscenza delle sole caratteristiche fisiche, tecnico-tattiche, mentali e psicologiche e in maniera marginale alla conoscenza delle condizioni di vita del giovane nel suo insieme (andamento scolastico, qualità delle relazioni dentro e fuori del campo…).E’ utopistico parlare di personalizzazione a questo livello?
Giocare per vincere, vincere con il gioco.
Le life skills, o non cognitive skills, cioè quelle competenze trasversali oggi al centro dell’azione formativa e da tutti ritenute così decisive ai fini dello sviluppo e della crescita del giovane, possono trovare a pieno titolo nell’attività sportiva un eccellente luogo di esercizio e di cura : capacità relazionali, di adattamento, di iniziativa, di osservazione, di valutazione e decisione, capacità di scelta, capacità pratiche, di problem solving, capacità di collaborazione, di gestione delle emozioni, di accettazione del limite e dell’errore……
A patto che la metodologia utilizzata (e qui è chiamata in causa la competenza anche tecnica dell’adulto perché è attraverso la tecnica, attraverso la relazione tecnica che passa una personalizzazione della relazione) sia intenzionalmente guidata a promuovere le diverse potenzialità che lo sport sollecita. Allora lo sport è educativo: tirar fuori, valorizzare, favorire la realizzazione di dimensioni già presenti nel giovane. Adulto (allenatore/dirigente) come facilitatore di processi, creatore di occasioni…
Possiamo così concludere che, in un tale contesto, il successo dell’attività sportiva consisterà nel realizzare un’esperienza capace di “tenere insieme” le diverse dimensioni rispondendo così al desiderio di benessere e di sviluppo armonico del giovane.
Ma per poter programmare una corretta metodologia didattica in ambito sportivo, dobbiamo partire da quell’universo chiamato giovane , dove caratteristiche psico-motorie, tecnico-tattiche, cognitive ed
affettive si fondono in un’esperienza unica e personale, dove qualità della relazione e apprendimento tecnico danno vita ad un binomio vitale.
L’esperienza sportiva è una questione motoria, tecnica, cognitiva e affettiva nello stesso tempo. Più un bambino sta bene con sé stesso, con il proprio corpo, con i compagni, con l’allenatore, più impara. Fare sport vuol dire fare un’esperienza tutta intera, unitaria, pratica.
Conoscere le caratteristiche motorie, tecniche, affettive, cognitive e psico-dinamiche del giovane sportivo è un fattore necessario per realizzare quella formazione armonica ed integrale (e non specialistica e settoriale) da tutti agognata e che è possibile solo a patto di gettare, in continuità con l’età precedente le seguenti fondamenta:
Costruire una corretta e solida immagine di sé (in che cosa consiste il mio valore agli occhi dell’allenatore? quanto valgo? solo se sono bravo e faccio gol? ) e una positiva apertura alla relazione con il compagno-risorsa;
Valorizzare il rinforzo prodotto dalla prestazione intesa come l’espressione il più compiuta possibile delle proprie potenzialità/talenti qualunque essi siano (in questo consiste la vera riuscita);
Realizzare una socializzazione nel gruppo come esito dell’apprendimento delle abilità sociali, quali ad esempio il rispetto delle regole (altrimenti si verificano strategie di esclusione);
Trovare il giusto equilibrio tra competizione e cooperazione ( voglia di “farsi vedere/emergere” e scoperta del valore del compagno/squadra). Gli altri/squadra come necessari alla mia affermazione dove la mia individualità rappresenta una risorsa per il gruppo superando la sbagliata contrapposizione individualità vs collettivo, accompagnando e sostenendo la capacità di far evolvere il proprio egocentrismo ( il ragazzo riconosce l’importanza delle diverse forme di collaborazione…).
Nella consapevolezza che fare sport non può essere spunto e pretesto per spostare il problema su un piano educativo o morale trascurando o eludendo la specificità della pratica sportiva. Le dimensioni sopra descritte devono trovare riscontro all’interno della pratica sportiva, in quanto il patto implicito con il giocatore si basa sulla pratica, sul miglioramento delle sue abilità sportive. Perchè un giovane si avvicina ad un adulto-allenatore? Per migliorare nello sport che pratica. In sostanza: attenti alla iperspecializzazione, alla precocizzazione, allo stress da performances ma anche alla desportivizzazione (utilizzo il tuo interesse per fare altro: ti aggancio sulla tua passione rispetto ad uno sport e poi ti faccio fare laboratori…)
Perchè la grande “leva” che gli adulti non devono farsi sfuggire è rappresentata dalla motivazione che spinge il giovane a fare sport.
Il giovane sportivo è particolarmente animato dalla voglia di misurarsi (la gara, la lotta, la sfida), di ottenere dei risultati (dimostrare il proprio valore). Impegna le proprie energie non solo in vista della “soddisfazione nell’immediato” ed è disposto , se l’adulto saprà incoraggiarlo e valorizzarlo , ad impegnarsi in vista di obiettivi che richiedono continuità e impegno nel tempo.
Si educa allenando, bene!
E’ esattamente il profilo pedagogico dell’attività sportiva a suscitare la domanda: come lo sport educa? a che cosa educa? che cosa si propone di educare? quali finalità educative gli sono proprie? quali condizioni perché esso dispieghi la sua intrinseca capacità di promozione culturale ed umana?
Ciò che conta, ciò che dà valore all’attività sportiva è innanzitutto il processo stesso che si realizza nel mentre, la competizione in sé, per il valore che le abbiamo riconosciuto. Paradossalmente un’attività agonistica può anche non essere infiorata di successi, ma ciò non toglie il valore formativo del percorso e perciò la soddisfazione dello sportivo.
L’appartenenza al gruppo dei pari età( la squadra negli sport collettivi) rappresenta un momento altrettanto decisivo per la crescita armonica ed equilibrata del giovane. A mano a mano che il bambino cresce, l’altro (compagno o avversario) assume la connotazione di una relazione sociale carica di valori quali l’amicizia, gli affetti, il senso di gruppo e l’appartenenza alla squadra, il confronto, il rispetto… Di contro oggi, il modello educativo prevalente tende ad esasperare la prestazione individualistica, al voler emergere individualmente: la dimensione della collaborazione, tratto costitutivo dell’attività sportiva e nello stesso tempo bisogno primario della persona sembra non essere al centro del percorso formativo.
Anche la regola in questo senso riveste un significato positivo in quanto non è vista come ostacolo alla propria libera espressione ma piuttosto come reale aiuto ad un reciproco rispetto di sé, del contesto e delle persone.
Infine, l’altro fattore caratteristico dell’attività sportiva consiste nell’esperienza intensa e quotidiana che il giovane si trova a vivere con l’adulto, sul campo di gioco e fuori, nell’attività propriamente sportiva e in alcune situazioni, nei momenti extrasportivi.
E’ in questo contesto di prossimità costante con il mister/allenatore che il giovane può sperimentare l’importanza che la relazione con lui assume per la propria crescita, riconoscendogli quell’autorevolezza che è condizione necessaria al costituirsi e consolidarsi di una personalità in via di formazione e in continuo paragone e confronto con l’adulto.
Allenare attiene così ad un ambito che riguarda il rapporto tra un soggetto teso alla sua realizzazione personale ( tecnica e sociale) e un adulto che vuole sostenerlo in questo cammino.
L’azione dell’allenatore allora consiste nel costruire un rapporto significativo tra un soggetto che vuole apprendere (in questo consiste la volontà del giocatore) e l’oggetto di questo desiderio, l’attività sportiva.
Se ,da un punto di vista tecnico, formare attraverso lo sport, vuol dire rendere salde delle competenze tecniche, far sì che il giovane atleta possieda con sicurezza delle abilità, allora l’educazione non è accanto all’allenamento, prima o dopo (una premessa teorica o un richiamo astratto a dei valori lontani dall’esperienza reale) ma è dentro l’allenamento, dentro la seduta tecnica (con tutto quel che comporta nella pratica concreta).
Si educa allenando.
E allenando bene, cioè prendendo sul serio il desiderio di fare sport del giovane, per un suo sviluppo unitario e armonico.
Educare attraverso lo sport vuol dire accompagnare il ragazzo ad approfondire la sua “passione “- interesse sportivo-(non dobbiamo mai dimenticare che, salvo rare eccezioni ,la pratica sportiva è per il ragazzo una scelta libera) che altro non è che tensione all’unità e all’armonia della sua persona, al suo profondo desiderio di bellezza.
Quanto più esaltiamo la vera natura dello sport tanto più facciamo emergere quel desiderio di bellezza, di realizzazione, di soddisfazione, di relazione, di ascesi, che fa parte della struttura originaria del giovane atleta.
Lo sport è un invito a guardare con simpatia e attenzione ai sentimenti e alle passioni che muovono il giovane che fa sport, a non aver paura di dare voce a quei desideri che apparentemente possono sembrare effimeri e materiali, a scoprire il gusto di far emergere i desideri elementari del bambino, del giovane atleta: quanto più andiamo a fondo in questa ricerca ed espressione dei desideri presenti nella pratica sportiva tanto più scopriamo di cosa è fatta la struttura umana. Lo sport come un’occasione perché l’umanità della persona possa realizzare il proprio cammino verso la propria realizzazione.
“Per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”
Ma lo sport, la gara, l’allenamento non sono un mondo a sé, un’attività che si svolge a porte chiuse e che si esaurisce in sé stessa: sono profondamente legati al contesto, alla vita sociale.
Non c’è dubbio che oggi lo sport rappresenti anche una possibilità di successo, sociale (immagine, fama, denaro…)
Anche per questo lo sport è l’ambito che il giovane/bambino sceglie (a differenza di altri contesti) e dove la motivazione è altissima.
Il mondo dello sport (figure adulte di ogni genere, allenatori, dirigenti, tecnici vari) è preparato per soddisfare una richiesta così alta e complessa portata dal giovane? Oggi non regge più un approccio che rifugga dall’evidenza di questa situazione (“io alleno e basta,…meglio calciatori orfani…si è sempre fatto così”). Nello stesso tempo non è pensabile (e non è nemmeno necessario ) far diventare tutti esperti educatori.
In un momento di grave crisi delle agenzie educative per eccellenza, la famiglia e la scuola, si assiste ad una crescita esponenziale della responsabilità affidata alle società sportive..
In un momento di forte dis-agio giovanile, la prospettiva più interessante e sicuramente anche più funzionale, è quella di promuovere l’agio provando ad uscire dalla continua fase emergenziale, dalla continua dimensione di eccezionalità che rimanda ad una soluzione estemporanea, immediata, magica….
L’attività sportiva può rappresentare un prezioso alleato nel percorso educativo dei giovani: creare nessi, sinergie, nuove forme di collaborazione tra famiglia, scuola e organizzazioni sportive per realizzare quel tanto agognato e oggi mai così frammentato patto educativo che valorizzi e sostenga il difficile compito di ciascuno dei soggetti impegnati.
Certamente questo richiede la costruzione di una nuova progettualità complessiva all’interno di una visione pedagogica che assegni ad ognuno dei soggetti coinvolti ruoli, responsabilità e competenze capaci di dar vita ad un lavoro di rete integrato e dialogante. Nella consapevolezza che nessuno degli attori in gioco può sostituirsi all’altro ma piuttosto collaborare in uno sguardo d’insieme che esalti le caratteristiche di ognuno.
Società sportive a loro volta in gioco ripensando finalità, obiettivi, strumenti , strategie e risorse umane rafforzando per es. la presenza di figure con una competenza e con ben definite mansioni psicopedagogiche: educatori, pedagogisti, psicologi, tutor sportivi…
Una grande sfida per lo sport di oggi che lo proietta verso una progettualità a medio lungo termine al fine di recuperare e riaffermare un processo di umanizzazione del mondo sportivo.
Rimettendo in moto le persone adulte (tecnici, dirigenti, genitori…) per una piena riappropriazione del loro ruolo, in termini di conoscenze e competenze ma ancor di più di consapevolezza e di ragioni personali tese alla propria realizzazione (non solo in termini di successo) e alla riscoperta della bellezza di un compito certamente complesso e impegnativo ma nello stesso tempo così corrispondente al bisogno di relazione di ognuno di noi e quindi in ultima istanza così carico di soddisfazione.
Si ringrazia per la gentile concessione “Nuova Atlantide”, rivista di cultura civile della “Fondazione per la Sussidiarietà”.
BIO: Antonello Bolis, pedagogista, docente di Teoria, tecnica e didattica degli sport individuali e di squadra presso l’ Università Cattolica di Milano, in possesso delle previste licenze federali per allenare nei settori giovanili di calcio, già Tecnico di squadre del settore giovanile A.C Milan e già Coordinatore del progetto “Attivazione e monitoraggio di un servizio psicopedagogico nel Settore Giovanile di A.C. Milan” promosso dall’Università Cattolica di Milano.