TRAIETTORIE DI CARRIERA E UNA PROSPETTIVA PER UMANIZZARE IL CALCIO. 1^ PARTE.

Caterina Gozzoli, Chiara D’Angelo ed Edgardo Zanoli docenti a diverso titolo presso l’Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli-Università Cattolica di Milano, hanno partecipato alla stesura del libro, in prima pagina, “HUMANIZAR EL FÚTBOL – Deporte y Trasformacion Social”, scrivendo un capitolo che presentiamo in questo blog suddiviso in 4 parti. NB: Il libro non è ancora stato tradotto in lingua italiana.

FONDAMENTI TEORICI DI UNA PROSPETTIVA UMANIZZANTE

Appassionati ed impegnati da tempo a diverso titolo nel mondo dello sport, abbiamo sentito la necessità di comprendere al meglio ed intervenire in tali mondi adottando sguardi e metodi che evitassero letture troppe semplificate.

I molti anni di lavoro insieme, di ricerca e di intervento, in particolare con settori giovanili nel calcio professionistico, ci hanno portato così a scegliere, tra i diversi paradigmi, quello socio-costruzionista che più ci è parso di aiuto nel comprendere e sostenere cambiamenti generativi nelle realtà incontrate.

Tale approccio considera l’essere umano come un attivo costruttore di significati in costante relazione con la realtà di cui fa esperienza. La realtà non è concepita come qualcosa di immutabile e separabile dalla nostra esperienza, come un fatto da scoprire o misurare indipendente dal soggetto che la vive. Piuttosto essa nasce nell’interazione continua con l’ambiente, nelle relazioni di ciascuno con gli altri e con gli oggetti. Esistono così più verità, molteplici rappresentazioni della realtà che concorrono a dare senso alle nostre esperienze e ai nostri mondi.

Il socio-costruzionismo promuove, in tal senso, una concezione della realtà intimamente intrecciata al soggetto che la vive e che, mentre la vive, la nomina, gli dà senso.
Si pensi a qualsiasi affermazione che è possibile fare sulla realtà, come “oggi certo abbiamo vinto ma a me non è piaciuta la partita “, “oggi piove e non riesco ad allenarmi bene ” oppure “sono un difensore tosto”: tutto ciò che si conosce, che si percepisce è espresso a partire dal nostro punto di vista, dalla relazione tra soggetto e oggetto, tra persona e ambiente, che rende la realtà inseparabile dall’esperienza.

Entro questo paradigma, inoltre, la prospettiva psicosociologica ci viene specificatamente in aiuto per esplicitare la nostra posizione sul processo di umanizzazione del mondo dello sport.

In questa prospettiva si considera l’uomo come l’esito di caratteristiche personali, storie biografiche, e dell’interazione di queste con gli altri individui, i gruppi e le organizzazioni che incontra, insieme al contesto ambientale e culturale in cui è inserito.

Nella prospettiva psicosociologica esistono tre livelli che sono legati e intrecciati indissolubilmente: un livello individuale, un livello micro-sociale ed il livello macro-sociale.

Nel primo livello, denominato individuale, possiamo rintracciare la storia personale e le esperienze della persona, la sua motivazione, le competenze di cui dispone.

Nel secondo livello, micro-sociale, si considerano i gruppi di appartenenza dell’individuo, per esempio la sua famiglia, la squadra in cui gioca, gli allenatori, i club, i gruppi di pari che frequenta.

Infine, il livello macro-sociale comprende più ampiamente il sistema sportivo nazionale, il contesto economico, sociale e culturale. Facendo ricorso ad un secondo esempio pratico, potremmo provare ad applicare questa prospettiva ad un atleta, tenendo compresenti i tre livelli sopra presentati: per conoscerlo e comprendere cosa sta vivendo, per accompagnare la sua evoluzione come giocatore e il suo benessere, sarà importante prendere in considerazione la sua storia personale, la sua storia famigliare ed atletica (livello individuale), la squadra in cui sta giocando, le relazioni che lo accompagnano nel suo percorso di crescita , la cultura organizzativa del club nel quale gioca (livello micro-sociale), e il contesto sociale del suo Paese e del momento storico (livello macro-sociale).

L’approccio psicosociologico valorizza le connessioni, considera l’analisi delle vicende singolari non scindibile dalla rete sociale, organizzativa e culturale in cui queste prendono forma.

Esso, inoltre, non si esaurisce nell’osservazione e la spiegazione di comportamenti manifesti. Essi sono da intendersi come indizi, che consentono di avvicinarsi a ciò che si trova ad un livello più profondo, segni che richiedono un processo interpretativo, che identifica diverse possibilità tra cui scegliere una ipotesi da cui partire per agire.

Il malessere di un giovane calciatore il giorno della partita può, dunque, essere compreso meglio se non ci si ferma agli elementi manifesti (è pigro, demotivato, ribelle….egoista) per provare a comprendere altri segnali , indizi meno evidenti che però sono spesso preziosi per ipotizzare come procedere.

QUALE PROFESSIONALITÀ?

Da questo vertice di analisi quali conseguenze ne derivano per le diverse figure (allenatori, psicologi , preparatori, dirigenti…) che lavorano nel mondo del calcio e che vogliono prendere cura dei processi che caratterizzano questo mondo?
Nella nostra esperienza alcuni elementi, tra i possibili, appaiono più rilevanti…

Innanzitutto la centralità della curiosità e della voglia di conoscenza (troppo spesso nel mondo dello sport -e non solo- viene banalizzata o addirittura demonizzata la conoscenza) (cfr. Tom Nichols 2018) intese come la tendenza a non accontentarsi di soluzioni sommarie e superficiali, il desiderio di approfondire, sorprendersi e lasciarsi coinvolgere dal processo di lavoro e di ricerca costante con i diversi interlocutori. In altre parole attivare un dialogo costante con una teoria che si fa pratica e una pratica che diventa nuova teoria. Ciò significa non cadere nella tentazione di facili tecnicismi (la tecnica non è mai la soluzione ma solo un aiuto dentro una ipotesi di azione) o di frequenti agiti in reazione alle emergenze (sempre presenti nel mondo del calcio)..

Strettamente connessa è la chiarezza e la consapevolezza degli assunti di partenza della propria azione:

Perché faccio una cosa e non un’altra?

 Quale ipotesi (seppur parziale) ci sta guidando?

Quali strumenti sono coerenti alla specifica situazione o perché sto rinunciando ad altri?

E’ importante, in altri termini, essere consapevoli non solo dei confini e delle potenzialità che caratterizzano ogni prospettiva ma soprattutto del perché agisco in quel modo in quel contesto, del senso ancor prima del come (la scelta di uno strumento, di una tecnica diventa cosa facile se capiamo a che scopo).

Importante è anche partire da alcuni impliciti e assunti che spesso circolano nel mondo dello sport per sottrarli al monologismo performativo (cfr. Cunliffe 2017):

  • il giocatore di talento – chi è?
  • l’allenatore competente
  • il risultato positivo di una stagione quale è?
  • il fine di un settore giovanile…

Aprire le etichette e dare nome alle rappresentazioni di ciascuno è passaggio fondamentale per aprire spazio di confronto e spesso di conflitto, necessari per generare una visione più condivisa e complessa (quindi più realistica).
Là dove si intercettano impliciti, resistenze e frammentazione (ciascuno chiuso nella sua rappresentazione distanziante da quella altrui …) si sostiene una esplicitazione delle reciproche letture.

Dare nome alle cose, vederne le differenze… è il primo passo per una possibile lettura più articolata del reale e condivisa.

Per fare qualche esempio: al conflitto visto in un’accezione negativa e inteso come un ostacolo si possono affiancare nuove possibilità di concepirlo come strumento spesso necessario per il confronto con l’alterità e la differenza da sé.

Un ulteriore questione è saper riflettere sui mandati organizzativi (qual è la nostra funzione?). Quali i nostri interlocutori e quali contesti è necessario considerare per un intervento efficace… I giocatori? Gli allenatori? L’intera società?). A tal proposito è importante considerare che i mandati organizzativi cambiano inevitabilmente nel corso del tempo e sono caratterizzati da frequenti contraddizioni; per questo è fondamentale prendere degli spazi di riflessione (in mezzo a molta azione) per darvi nome, esplicitarli e trattarli .. pena le facili collusioni con sole urgenze del momento o la confusività di chi per rispondere a tutto rischia di non prendersi cura di nulla e nessuno.

Ciò che viene in nostro aiuto in tal senso, è ragionare insieme sugli obiettivi di lavoro che necessitano condivisione , sostenibilità , chiarezza e verifica periodica:

  • Quali obbiettivi ci siamo dati? Come squadra, come staff; come settore giovanile?
  • Come vogliamo raggiungerli, con quali mezzi/strumenti?
  • Come sta andando? Quali aspetti vanno migliorati? Su quali aspetti di forza possiamo contare?

Infine, per quanto possibile, stare vicino alla quotidianità, alle pratiche delle persone e dei gruppi organizzativi attivando processi partecipativi …non facili ma necessari perché le persone e le organizzazioni possano far davvero loro il cambiamento. ciò comporta leggere difese e resistenze

inevitabili quando si lavora sulla libertà e responsabilità delle persone (la cornice definita e stabile è più vincolante ma anche più rassicurante, più facile perché data).

Oltre alla esplicitazione dell’implicito celato nelle parole, questa prospettiva ha permesso, nella nostra esperienza, di far emergere questioni emotive non facilmente dicibili nel mondo dello sport caratterizzato da modelli di uomo vincente…
Per esempio si sostiene la possibilità di mettere a tema questioni come incertezza e precarietà che oggi caratterizzano allenatori/allenatrici, manager e giocatori/giocatrici; la paura di fallire, di essere inadeguati, di non emergere perché sprovvisti di sufficiente talento per distinguersi dagli altri.. Ci si potrà chiedere come si può investire in un mondo così mutevole e senza certezze? Che peso ha la mia azione individuale o l’azione collettiva come gruppo? cos’è il talento? C’è un unico migliore modo di intenderlo o ci sono letture possibili alternative che possiamo offrire? Il talento è uno strumento di discriminazione che separa chi ne dispone da chi non ne dispone o diffuso e diversificato, da coltivare? Si può insegnare il talento? Che ruolo ha l’ambiente sullo sviluppo del talento? Questo flusso di domande di ricerca si propone come un esempio di ciò che può essere inteso come metodo sovversivo, etico, estetico e riflessivo… in altre parole umanizzante.

Si pensi ancora alla paura di non aderire mai perfettamente ai bordi dei modelli vincenti, di non calzare perfettamente le aspettative programmate da altri, di mancare l’occasione in cui incontrare quell’allenatore, quel giocatore, o di mancare in qualcosa… in altre parole per usare un costrutto caro a Bourdieu al forte rischio cui i giovani calciatori sono espositi di violenza simbolica.

Ci si riferisce alle forme di violenza esercitate non con la diretta azione fisica, ma con l’imposizione di una visione del mondo, dei ruoli sociali, delle categorie cognitive, delle strutture mentali attraverso cui viene percepito e pensato il mondo, da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati.

Costituisce quindi una violenza “dolce”, invisibile, che viene esercitata con il consenso inconsapevole di chi la subisce e che nasconde i rapporti di forza sottostanti alla relazione nella quale si configura. Infine, passando a considerare i temi classici della letteratura sportiva, ad esempio la motivazione, possiamo adottare una chiave di lettura diversa: anziché considerarla come un “pezzo” della macchina del successo, si provi ad immaginarla come la superficie di uno specchio d’acqua, apparentemente piano, ma che cela nel suo profondo grande agitazione e vitalità, in cui nuotano rapidi desideri di vittoria, di identificazione in modelli potenti, che si intrecciano alla paura, al fallimento, alla frustrazione, in cui avvengono continui processi di generazione e scambio con l’ambiente circostante.

Le sollecitazioni per tutti gli attori che abitano il mondo del calcio sono quindi molteplici: la curiosità, l’immaginazione del nuovo, una apertura al ricercare , una riflessività sui mandati; una focalizzazione sulla vita emotiva, sui risvolti simbolici ed etici delle pratiche professionali tra tensione alla prestazione e gestione del capitale umano spesso molto giovane .
Con queste attenzioni si può allora entrare e muoversi nei diversi contesti per provare a generare concretamente nuove possibilità e miglioramenti ed efficacia organizzativa.

In breve… questi gli assunti sottesi al nostro approccio e al nostro modo di intendere il processo di umanizzazione nel mondo dello sport.
E’ evidente, allo stesso tempo, che tutto questo non è esente di fatiche: spesso significa attraversare resistenze al cambiamento, forti conflittualità siano esse esplicite o sotterranee…, momenti di blocco e regressioni… a volte significa anche perdere dei compagni di viaggio perché una messa in gioco personale così forte non è immediata. Significa prevedere che inevitabilmente sarà un processo non semplice.

FINE 1^ PARTE, CONTINUA…

Caterina Gozzoli-Chiara D’angelo-Edgardo Zanoli.

CATERINA GOZZOLI

BIO: Coordinatrice del Dottorato internazionale in scienze dell’esercizio fisico e dello sport.

Direttrice del Master sport e intervento sociale.

Professoressa Facolta’ di Psicologia Universita’ Cattolica.

CHIARA D’ANGELO

BIO: Coordinatore del Master di secondo livello in Sport ed Intervento Psicosociale e ricercatore presso la facoltà di Psicologia dell’Università del Sacro Cuore di Milano, docente di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni. In termini di ricerca scientifica i suoi principali interessi vertono su allenatori, manager sportivi e percorsi formativi che lavorano a supporto delle competenze relazionali di questi professionisti; sullo sviluppo del talento nello sport giovanile; sulle transizioni di carriera nello sport( fine carriera, junior to senior transition, dual career); sulla progettazione e la valutazione di efficacia di progetti che usano lo sport come strumento di inclusione sociale (Sport Development Programs); sullo sviluppo professionale dello psicologo in ambito sportivo.

EDGARDO ZANOLI

BIO: Metodologo, Formatore, Allenatore Uefa B,

Docente del Master in sport e intervento psicosociale

Universita’ Cattolica di Milano e Brescia

3 risposte

  1. Ciò implica :
    tempo
    impegno
    ricerca
    PAZIENZA
    da parte di un istruttore….
    tutte cose che vengono messe in secondo piano perché il RISULTATO è l’obbiettivo principale ….
    quindi meglio far finta di niente e trattare i ragazzi come se fossero tutti uguali……
    😢

  2. Se fare esperienza significa vivere la realtà attuale e sintetizzarne gli ambiti di interesse….a mio modesto parere non risaliremo più la china nel coltivare talenti nello sport…se mentre…l’esperienza si consolida in modelli proiettati al futuro anche se a volte visionari all’apparenza altrui…forse ritroveremo la strada per esaltare al meglio il materiale umano !

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