CLAUDIO BORGHI: “EL BICHI”, UN’ADORABILE METEORA.

Arrivò a Milano nella primavera inoltrata del 1987. Una mattina di giugno andiamo a prenderlo in albergo io e il fotografo Gianni Buzzi per portarlo allo stadio e immortalarlo sul campo di San Siro, in divisa rossonera.

Il Milan gli aveva fornito maglietta, calzoncini e calzettoni. “E le scarpe?”, gli chiediamo. “No hay”, non le ho, risponde Claudio Borghi, 23 anni, appena sbarcato dall’Argentinos Juniors dove aveva giocato 55 partite e segnato 9 gol in 5 stagioni. 

Talentuoso a livelli superlativi, fantasista tecnicamente dotatissimo, dopo che Platini lo ha soprannominato “Il Picasso del calcio” lo battezzano anche erede di Maradona. Il mondo infatti lo ha conosciuto 2 anni prima, incantato dalla sua classe nella finale Intercontinentale di Tokio tra Juventus e Argentinos Juniors: grazie a un assist di Borghi gli argentini tornarono momentaneamente in vantaggio 2-1, poi Laudrup aveva pareggiato e i bianconeri avrebbero vinto ai rigori. 

Ci fermiamo in un improbabile negozio di articoli sportivi vicino alla Fiera, gli compriamo un paio di scarpe terribili almeno 3 misure più grandi del suo piede e Claudio ride per tutto il tragitto, fino al momento di indossarle: “Parecen las de un payaso… Con estas zapatillas podrás ir a esquiar… Los inventaron para los patos”, sembrano quelle di un pagliaccio… Con queste scarpe si può andare a sciare… Le hanno inventate per le anatre.

E’ arrivato in Italia da solo e non tornerà in Argentina, resterà a Milano fino al ritiro, fissato un mese dopo. Ogni giorno il direttore sportivo del Milan, Ariedo Braida, lo accompagna ad allenarsi a Milanello, dove non c’è nessuno: sono tutti in vacanza. 

“Ma ‘queste’ piensa que yo soy tonto”, racconta con la sua vocina infantile. Questo (Braida) crede che io sia scemo: “Tutte le mattine passiamo davanti all’Arco della Pace e lui grida: ‘Guarda, Bici, l’Arco della Pace’! Tutte le mattine…”. E ride di gusto. Bici è la pronuncia italiana del soprannome che gli hanno dato in Argentina, “El bichi”, l’insetto. 

Comincio a portarlo con me la sera, nella mia vasta compagnia di amicizie milanesi ci sono un paio di argentini che organizzano spesso grigliate in terrazza, incoraggiati dalla bella stagione. Mangia e beve di gusto, Bici: osservo che in questo modo dovrà lavorare sodo a Milanello in solitudine, in attesa di incontrare la squadra e Arrigo Sacchi. Non sarebbe comunque rimasto al Milan: all’epoca si potevano tesserare soltanto 2 stranieri e Berlusconi aveva appena acquistato Gullit e Van Basten. Così Borghi da agosto sarebbe andato in prestito al Como, allenato da Aldo Agroppi.

Queste alenatore è loco”, mi raccontò una domenica sera nella sua casa sul lago, splendida, su una lingua di terra che finiva praticamente in acqua. “Nel viaggio dall’hotel al campo, il giorno delle partite, ogni volta Agroppi fa fermare il pullman e scende a vomitare. La tensione e lo stress lo uccidono”. Non era tenero con i suoi compagni comaschi: “Se ‘queste’ giugano en serie A, io en serie A puedo giugar senza una pierna, senza una gamba”. 

Nel settembre 1987 il Milan è impegnato a Gijon per la prima partita europea dell’epoca Berlusconi. Le trasferte di coppa, da decenni, iniziavano il lunedì e si rientrava il giovedì. Fu Sacchi, nel giro di brevissimo tempo, ad accorciarle: partenza martedì pomeriggio, rientro giovedì mattina, poi diventato mercoledì notte dopo la partita, cosa che fece impazzire il direttore generale del Milan, Paolo Taveggia, e i responsabili aeroportuali costretti a deroghe e permessi di ogni tipo. Una volta a Helsinki, non avendo ottenuto l’autorizzazione per partire dopo le 23, partimmo il giovedì mattina all’alba, solo 8 ore dopo il fischio finale della gara con l’HJK… Rientrare al più presto era la parola d’ordine di Arrigo. I voli charter si sprecarono pur di rispettare quella regola ferrea.

Dunque nelle Asturie, quel lunedì sera antivigilia di Coppa Uefa, Berlusconi radunò in un ristorante tutto il largo seguito che lo circondava: dirigenti di Milan, Fininvest e Publitalia, collaboratori, staff, almeno una cinquantina di persone tutte a un unico grande tavolo rettangolare.

C’eravamo io, Gianni Buzzi e il leggendario direttore di “Tv Sorrisi&Canzoni”, Gigi Vesigna, milanista sfegatato che dirigeva anche il nostro giornale, “Forza Milan!”. Dopo la cena e l’immancabile suonata al pianoforte con Fedele Confalonieri ad accompagnarlo, Berlusconi indisse un sondaggio. L’anno successivo sarà possibile tesserare un terzo straniero: il presidente stravede per Borghi, ma Arrigo Sacchi spinge per Frank Rijkaard, colonna dell’Ajax ma appena acquistato dallo Sporting Lisbona che lo ha girato in prestito in Spagna al Real Saragozza. “Voi chi pensiate che dovrei prendere?” Vesigna mi dà un calcetto alla caviglia: “Vota Rijkaard”, ma il sondaggio lo stravince comunque l’argentino…

Nel frattempo l’aura dell’erede di Diego svanisce presto, però. Borghi gioca soltanto 7 partite nel Como, a gennaio 1988 Berlusconi lo riporta al Milan dove non potrà giocare, ma lavorerà con la squadra. Una sera, durante la pausa natalizia, lo accompagno al Palazzetto dello sport di Venezia dove – con altri giocatori del Milan e Sacchi in panchina – si giocherà un torneo 5 contro 5 per beneficenza. Borghi fa cose mirabolanti, la gente impazzisce quasi più per lui che per gli olandesi (se ricordo bene c’erano entrambi), ma Arrigo dalla panchina lo guarda muto e con gli occhi spiritati: si capiva da quello sguardo vitreo che nel suo Milan, o in una qualsiasi “sua” squadra, uno come Borghi non avrebbe mai giocato.

Dopo qualche giorno di allenamento con Sacchi, all’inizio del 1988 Claudio si ferma: emorroidi.

Troppo lavoro. Si ferma per un paio di settimane e una sera ceniamo insieme con la sua fidanzata Mariana (poi diventata moglie e madre dei suoi figli) che spesso ho coinvolto con i miei amici e le mie amiche durante i ritiri del compagno. 

“Odio allenarmi”, confessa Bici a tavola. “Io sono di famiglia povera, ho perso presto il papà, siamo 8 fratelli. Ho sempre giocato bene a pallone, ma non ho mai pensato di fare il calciatore. Non mi va di non mangiare, non bere, non uscire la sera, allenarmi. Perché corriamo 5 chilometri al giorno se un campo è lungo solo 100 metri…? Mi hanno costretto i miei parenti, hanno visto una possibilità di guadagno e avevano ragione, ma io non sono fatto per questa vita”. 

Ho sempre cercato di spronarlo, incoraggiarlo, sostenerlo. Senza riuscirci. Claudio Borghi era realmente un fenomeno col pallone, ma camminava, passeggiava anzi, per il campo, accendendosi a intermittenza come una lucina natalizia.

Nel 1987-88 il Milan vince lo scudetto e festeggia con 2 amichevoli, la settimana dopo il trionfo proprio a Como l’ultima giornata: il martedì a Manchester, il giovedì a San Siro con il Real Madrid. Borghi gioca da dio, fa impazzire gli inglesi e il suo pubblico, ma è un corpo estraneo e sarà ceduto in prestito in Svizzera, al Neuchatel, senza lasciare traccia.

Ha vinto Sacchi: il terzo straniero del Milan sarà Frank Rijkaard. Da allora “El bichi” cambierà una squadra all’anno tra cui River Plate, Flamengo, Independiente, Colo Colo…, ma non giocherà mai più di 22 partite in una stagione e mediamente le sue presenze oscilleranno tra un minimo di 6 e un massimo di 12 ogni anno.

Si ritira a 34 anni per un infortunio al ginocchio, intraprende la carriera di allenatore in Cile: vince il campionato di Apertura e Clausura con il Colo Colo, arrivando in finale do Coppa Sudamericana. Gli assegnano il titolo di miglior tecnico sudamericano dell’anno, vincerà poi il campionato di Clausura argentino col suo vecchio club (Argentinos Juniors), diventerà C.T. del Cile (in quel periodo venne a trovarmi in Italia e andammo insieme a San Siro a vedere un Milan-Lazio di coppa Italia), ma senza più alcun trofeo. 

Ora vive in Cile con i suoi cari e il figlio Filippo che chiamò così in onore dell’amicizia con Filippo Galli. Ha nostalgia dell’Italia, ma non di una vita che non ha mai amato in fondo, se non perché in effetti ha consentito alla sua famiglia di abbandonare e dimenticare la povertà. E’ stata una lucente meteora alla quale non ho mai smesso di volere bene. 

BIO: Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.

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