PROFESSIONALIZZAZIONE DEL FENOMENO SOCIALE CALCIO. LEZIONE 1: DALLA SPECIFICITÀ DEL GIOCO DEL CALCIO ALLE COMPETENZE.

Ho avuto l’opportunità di frequentare presso l’Università Cattolica di Milano alcune lezioni del Corso di “Teoria, Tecnica e Didattica degli sport individuali e di squadra”, dedicato al GIOCO DEL CALCIO, tenuto dal Prof. Antonello Bolis e coordinato da Edgardo Zanoli.

In una serie di articoli proporrò le note raccolte in aula. Sono appunti, come mi piace definire…sparsi.

Ecco quelli relativi alla 1^ lezione svoltasi il 5 ottobre 2023 e tenuta dal Prof. Edgardo Zanoli.

Per coloro che non sanno cosa accadde nella partita proposta nella clip, di seguito un breve riassunto:

12 MAGGIO 2013 – Il Watford, allenato da Gianfranco Zola, gioca la semifinale di ritorno dei playoff di Championship contro il Leicester. Deve ribaltare la sconfitta per 1-0 dell’andata. Al 90′ sul punteggio di 2-1 per i padroni di casa, tutto fa pensare ai supplementari. Nei play-off di Championship, infatti, in semifinale, già allora, non contava la regola del gol doppio in trasferta. Al quarto minuto di recupero, però, viene assegnato un rigore per il Leicester. Dal dischetto calcia Knockaert che si fa parare il rigore da Almunia e poi spreca malamente il tap-in.

Da qui comincia una delle azioni più incredibili nella storia della Championship. Il Watford riparte in contropiede, trova spazio sulla fascia destra, mette un cross, sponda di Hogg, arriva Deeney che scarica un destro potentissimo superando il portiere del Leicester. È 3-1, Watford in finale e Vicarage Road che viene giù. Una beffa incredibile per il Leicester, che già si vedeva a Wembley.

Il video mostra contemporaneamente ciò che accade in campo e ciò che accade sugli spalti. La prima riflessione che ci suggerisce è che il calcio non sia la semplice somma di tecnica, tattica, corsa, velocità, forza, struttura fisica degli atleti, aspetti relazionali, psicologici, emotivi; elementi che siamo soliti suddividere nelle varie Aree di competenza; tutti questi elementi, di fatto, non si sommano ma si mischiano (immaginate uno shaker B e non un puzzle A), impedendoci di capire quali siano

preponderanti e quali subalterni. L’altra riflessione è che il calcio non riguardi solo il campo ma sia anche, passione, entusiasmo, rabbia, delusione degli spettatori, delle tifoserie organizzate e ultras, organizzazione ma, anche, come abbiamo visto, disorganizzazione (i tifosi che invadono il campo).

Pertanto quando noi parliamo di calcio non dovremmo partire ragionando sulle singole Aree ma dovremmo invece avere la visione che il filmato ispira. Una visione globale, il calcio come fenomeno sociale. Questo aspetto è fondamentale nel nostro approccio. Non è il solo possibile ma, chiaramente, lo riteniamo il migliore.

Ce ne sono tanti altri e sentirete molti sostenere che per poter lavorare in ambito calcistico sia importante separare e specializzarsi su un unico aspetto.

Il nostro approccio è esattamente l’opposto.

L’idea che vogliamo portare è che per potersi professionalizzare nel mondo del calcio, per poter trovare spazio nel mondo del calcio, non si possa pensare, considerando quello che sarà il futuro, di restare sull’ idea di essere preparatori atletici e soprattutto sull’idea generalista secondo cui se faccio il preparatore atletico e conosco un pò di teoria o, meglio ancora, se ho grandi conoscenze teoriche rispetto alla preparazione atletica, allora posso lavorare in tutti gli sport, indifferentemente (calcio, basket, pallavolo ecc…).

Certo che si potrebbe fare ma se vogliamo farlo bene e vogliamo trovare una strada diversa da quella del preparatore atletico “classico”, occorre specializzarsi nella conoscenza dello sport di cui vogliamo occuparci. Poichè stiamo parlando di calcio dobbiamo ragionare sul fatto che per poter far bene il nostro lavoro, occorra conoscere, sperimentare, (conoscere non significa solo guardare e teorizzare ma vivere) acquisire competenza.

E cos’è la competenza?

Cosa significa avere una competenza?

Potremmo dire che significhi essere adatti al compito da svolgere, suggerisce l’aula.

Dobbiamo fare attenzione. Non posso definirmi competente se conosco solo la teoria o, allo stesso modo, se conosco solo la pratica. Rispetto all’abitudine classica del passaggio da teoria a pratica riteniamo altrettanto importante saper passare dalla pratica alla teoria.

Per poter diventare competente devo sperimentarmi sulle cose, devo provarle. Nel momento in cui le provo devo essere in grado di riteorizzarle. La competenza, l’essere competenti, non è qualcosa che si cristallizza. Non si è competenti per sempre. O meglio lo si è nel momento in cui sono in grado di rimettere tutto in discussione.

L’esempio più semplice è quello dell’allenatore che pensa un’esercitazione, la sperimenta, la verifica e poi, se necessario, la riprogetta.

La volta successiva non sarà pertanto esattamente la stessa. Perchè? Perchè sarà cambiato il contesto, saran cambiati i giocatori, lui stesso sarà diverso.

Ricapitolando: competenza è teoria e pratica, non necessariamente, in quest’ordine. Non dobbiamo pensare di essere il cosiddetto “uomo da campo”, l’ “allenatore del fare”. Dobbiamo spiegare ai giocatori il perchè di quel determinato esercizio.

Non possiamo far fare ciò che ci sovviene al momento senza poi metterci un pensiero, una riflessione.

È un passaggio che sembra banale ma è un passaggio importante per comprendere il nostro approccio e tutto quello che proveremo a portare durante questo corso.

Tornando alle nostre aree di competenza, più conosco e più sperimento tenendole tutte insieme, più sarò in grado di approcciare il mondo del calcio.

Il fatto che ancora oggi si possa pensare di stare in un’idea di problem solving, cioè nell’idea che ognuno debba fare bene il suo pezzettino e mettendo insieme tutti i pezzettini tutto funzioni, significa avere una visione anacronistica, una visione che rimane ancorata al classico refrain del mondo del calcio: “facciamo così perchè si è sempre fatto così”.

È la morte della cultura e della cultura calcistica in particolare.

Ognuna faccia la sua scelta. Questa è la nostra visione. Certo ce ne sono altre ma, per poter scegliere, occorre conoscerle.

Vale anche rispetto alle esercitazioni sul campo: se io ho tanta conoscenza potrò scegliere tra diverse esercitazioni. Se ne conosco una sola tipologia la scelta ricadrà sempre sulle stesse.

In altre parole, per poter essere competente, per fare le cose fatte bene, anche le più semplici, occorre complessificare la visione. Devo avere tante possibilità di vedere, conoscere e, quindi, tante possibilità di comprendere.

Se ho un’unica possibilità non sono competente.

Spalletti, il CT della nostra nazionale ci viene in aiuto quando dice: “Oggi i giocatori vogliono sapere, vogliono capire perché si fanno le cose”. Non è più il tempo in cui si può dire al calciatore fai così perchè te lo dico io. Vale nelle prime squadre e vale nei settori giovanili.

Oggi quando proponiamo qualcosa ai nostri giocatori dobbiamo fare in modo che lo sentano, sentano che quella cosa è utile, devono essere motivati a farla, altrimenti eseguono ed eseguendo, senza comprensione, non apprendono niente. Quando si esegue, si fanno le cose tanto per farle e si fanno fintanto che c’è qualcuno che controlla. Ciò che stanno facendo non diventa loro patrimonio.

Vale per i nostri giocatori ma vale anche per gli allenatori o in generale per le figure adulte.

Oggi potremmo definire il nostro approccio metodologico, APPROCCIO GLOBALE.

Ciò che ci preme ribadire è l’importanza di spiegare, motivare ogni scelta che viene fatta in termini di lavoro sul campo. È chiaro che il lavoro “a secco” e la tecnica analitica siano lontani dalla nostra idea perchè non li riteniamo utili e funzionali all’apprendimento.

Nonostante ciò, oggi, siamo riusciti a ricostruire un valore anche rispetto a queste modalità. In che modo? Proviamo a spiegarlo: Se un allenatore sta facendo un esercizio analitico e gli chiediamo il perchè, sarà la sua spiegazione a determinare se siamo dentro ad una visione condivisa, globale. Non l’esercitazione in sè ma, appunto, la motivazione, il perchè l’allenatore la propone.

In certi momenti, per certi periodi, per una certa quantità (piccola), quel determinato giocatore può essere favorito dal fare esercitazioni analitiche perchè, ad esempio, ha dei vantaggi nella percezione del proprio corpo oppure ha delle sensazioni di autoefficacia.

L’esempio più banale è il bambino che riesce a fare dieci palleggi in più rispetto al giorno precedente. È chiaro che non significhi che il bambino sia più bravo a giocare a calcio (ma a lui non lo dico!) ma, certamente, si sentirà più efficace e la sensazione emotiva di aver la convinzione di poter far meglio le cose è un qualcosa che inciderà sulla sua prestazione, sul suo apprendimento.

Possiamo anche fare quello che alcuni definiscono analitico dinamico ossia quelle esercitazioni che possiamo “disegnare” guardando una partita. Sono esercitazioni più vicine al gioco anche se è evidente che manchi almeno un elemento proprio del gioco: l’avversario. Rispetto al “lavoro a secco” siamo però evidentemente molto più vicini alla realtà del gioco.

A tal proposito molti sostengono che guardando una partita e vedendo come i giocatori siano ancora in grado di sprintare e correre con continuità a pochi minuti dal termine, ciò significhi che sia stata fatta un ottima preparazione atletica.

Come facciamo a stabilire che quel giocatore corri così tanto grazie alla preparazione atletica a cui è stato sottoposto? La risposta che verrebbe spontanea sarebbe: attraverso i test. Eseguo i test all’inizio della stagione sportiva e verifico determinati parametri del gruppo. Lavoro dal punto di vista coordinativo, aerobico ecc… e, dopo qualche tempo, eseguo i test verificando a che punto sono arrivato.

Nel contesto calcistico è forte l’idea che facendo il lavoro “a secco” si riproducano le corse che il giocatore effettua in partita. Non è così. Durante la gara il giocatore è sempre condizionato dalla presenza del pallone, anche se non ne è in possesso, dai compagni e dagli avversari nonchè dalla direzione in cui deve difendere o attaccare, insomma è condizionato dal gioco.

Noi sosteniamo che tutto il lavoro “a secco”, in cui il gioco non è presente, non abbia significato. Tanti, tantissimi sostengono il contrario. Sta a chi opera valutare e decidere in quale direzione andare.

Ha ancora senso fare le ripetute sui mille metri o su distanze più corte? Ha ancora senso correre “a secco” durante il periodo iniziale della stagione per mettere il cosiddetto “fieno in cascina” o “benzina nel motore” perchè verranno poi utilizzati nel corso della stagione? Per noi no!

Posso avere un giocatore che, in base ai dati, corre tantissimo ma, rispetto alla mia idea di performance, che valore ha? Se sono in grado di analizzare la performance non parto da quanti km voglio che facciano, quale velocità voglio che tocchino ma analizzo la mia performance per poi capire quali siano i dati che mi interessano. Nella nostra esperienza abbiamo raccolto una miriade di dati che ci dicevano che quando le performance erano di alto livello dal punto di vista fisico-atletico (in senso generalista), e quindi correvamo tanto, correvamo forte, le partite erano “brutte” perchè, secondo la nostra analisi di performance, per giocare in un certo modo non era necessario coprire così tanto campo. Quando eravamo costretti a coprire così tanto campo e pertanto dovevamo correre tanto, non stavamo giocando bene. È evidente: La palla ce l’avevano gli altri e noi rincorrevamo!

A chi sostiene che il lavoro a secco sia utile dal punto di vista preventivo, potremmo portare esempi di squadre professionistiche che, in preparazione pre stagionale e una volta iniziato il campionato, non fanno lavoro a secco. Nonostante ciò o forse proprio per questo, non hanno avuto alcun infortunio.

Oggi ci sono tanti allenatori di prime squadre che stanno ragionando sul fatto che non esista miglior prevenzione che allenare ai gesti, ai movimenti che si eseguono in gara (esempio: scelgo di allenare con gli elastici o scelgo di allenare con esercitazioni con la palla in cui sui eseguono controlli aperti?).

Molti obiettano che durante la gara sono molte le corse, molti gli sprint che si fanno “a secco”. Noi rispondiamo che l’equivoco, come detto in precedenza, è proprio qui: Sono sempre movimenti che si fanno in funzione del gioco, in funzione della posizione della palla, di chi ne è in possesso, di chi la può ricevere, di come è posizionato l’avversario ecc…ci sono coinvolgimenti attentivi, emozionali, relazionali, di comprensione. Tutti aspetti che non troviamo nel lavoro a secco, in cui, appunto, manca uno scopo, una motivazione. Siamo quindi sicuri che nel lavoro a secco si ottenga un certo tipo di risultato? Quanto perdo rispetto ad un apprendimento che mi serve nella partita? Un apprendimento che sia funzionale al gioco?

Ribadiamo che si possa decidere che il lavoro a secco serva. Magari perchè un giocatore sente il bisogno di farlo, perchè si sente forte, appagato, nel momento in cui lo fa, quindi vive una sensazione di autoefficacia. A quel punto glielo faccio fare.

A questo proposito, quando Ancelotti allenava il Napoli abbiamo assistito ad un allenamento fatto esclusivamente con la palla, una partita a campo leggermente ridotto. Tutto era risultato perfetto: quanto visto sul campo e quanto dicevano i dati fisico-atletici rilevati con i Gps. Complimenti a tutti i giocatori.

Soffermandoci nel post allenamento con lo staff notiamo che tre giocatori stavano facendo un lavoro di “vai e torna”, in pochi metri, nella sabbia. Chiediamo spiegazioni allo staff e la risposta è stata la seguente: “Ce lo chiedono, noi gli diciamo che non serve, perchè il lavoro fatto è stato eseguito alla perfezione. Loro insistono così lasciamo che lo facciano. Non gli crea problemi (cosa importante da valutare) e li fa sentir bene, sentono le gambe “piene”, perchè non assecondarli?” (autoefficacia).

In futuro, e per molti è già presente, le squadre svolgeranno la parte tecnico-tattica dentro al campo e fuori dal campo (palestra…) verranno svolti lavori specifici, legati appunto alla specificità, non del gruppo ma di ogni singolo giocatore.

La domanda che dobbiamo porci ogni volta che lavoriamo sul campo è: ” Quanto sono lontano dal gioco? Quante componenti del gioco posso mettere dentro? Posso decidere anche di lavorare “a secco” ma dobbiamo sapere che mancano tutti gli elementi caratteristici del gioco.

Una cosa che dobbiamo sempre tenere in conto è che, come abbiamo detto per i tre giocatori del Napoli, ognuno di noi costruisce delle sue convinzioni che porta avanti nel suo percorso. Per questo, anche e soprattutto, nel settore giovanile, è importante lavorare con il giocatore riguardo al conoscere e al conoscersi (del giocatore) in considerazione di quello che andremo a fare. Non dobbiamo dimenticare che il giocatore è in piena fase di apprendimento. A maggior ragione dobbiamo considerare cosa lo fa sentire efficace, però dobbiamo imparare ad ascoltarlo (es. l’attaccante che chiede di tirare in porta a fine allenamento. Se penso che non possa creargli problemi perchè negarglielo? Certo dal punto di vista dell’apprendimento ha poco valore).

Il giocatore è colui che scende in campo e quindi ha tutte le ragioni per voler sapere, conoscere, capire quello che fa e anche di proporre qualcosa che pensa gli possa servire. È chiaro che se il giocatore mi chiede di fare qualcosa che invece ritengo gli possa nuocere allora ho il dovere di intervenire. Se invece penso che quella cosa non tolga nulla e non aggiunga nulla se non influire sulle sue sensazioni, a quel punto, gliela faccio fare.

Il futuro per il calciatore sarà : colazione (che è già parte dell’allenamento perchè cosa mangio è già allenamento) – pre-allenamento dove ognuno ha un lavoro specifico da fare – allenamento tecnico-tattico – lavori post allenamento individualizzati – pranzo tutti insieme – riunione nel pomeriggio per video analisi, di squadra, individuale o di reparto.

Se anche volessimo separare credo sia chiaro che la performance, dal punto di vista fisico-atletico, di un difensore centrale, sia diversa da quella di un esterno. Pertanto anche le corse a “secco” dovrebbero essere differenziate. Ribadiamo però che tutto può essere allenato dentro al gioco.

È chiaro che stare dentro al gioco presuppone la capacità di osservare i particolari e quindi, coloro che non sono in grado di vedere tutto ciò che sta nella complessità del gioco, preferiscono separare, dividere.

Dovremmo invece avere un allenatore che prepari delle esercitazioni che lo rendano il facilitatore del processo di apprendimento del giocatore. Per l’allenatore, dal punto di vista emotivo e dell’ego, è difficile perchè non è più lui che decide cosa fare dentro il gioco. La peculiarità del lavoro dell’allenatore non deve essere quella di dire al giocatore ciò che deve fare ma metterlo nelle condizioni di vivere delle situazioni in cui il giocatore possa decidere, scegliere e, se possibile, fare in modo che abbia tante possibilità di scelta.

Ciò che è accaduto nel corso di questa lezione è ciò che che definiamo formazione dialogica: il docente entra in aula con un’idea, ha preparato delle slide ma l’interazione con gli allievi lo ha portato a parlare di altri temi di maggior interesse per i corsisti.

In questo caso, dice Zanoli, ” Se avessi continuato a mostrare le slide preparate avrei soddisfatto un mio bisogno. Ascoltando le richieste dei presenti ho provato a soddisfare la loro esigenza formativa che, di fatto, è anche la mia”. In questo caso possiamo fare un parallelo con l’allenatore che arriva al campo con il programma di allenamento, lo svolge e tutto funziona alla perfezione: pensate che sia stato un buon allenamento?

L’allenatore è soddisfatto. Ma quanto hanno appreso i ragazzi? Probabilmente poco o niente.

Attenzione. È chiaro che lavorerete con persone che la pensano in maniera esattamente opposta.

Passiamo ora a parlare di altri aspetti importanti.

Che cos’è metodo?

Definiamolo approccio metodologico perchè metodo dà l’idea di una cosa chiusa, finita, che non possa essere modificata.

Che strada devo intraprendere per raggiungere l’obiettivo? L’obiettivo, lo abbiamo già detto, non è il metodo, il metodo è lo strumento. Quello che facciamo all’interno del percorso metodologico non è l’obiettivo.

L’approccio metodologico è la “strada per” raggiungere l’obiettivo, è come faccio le cose. Più la strada è ampia e più sarò aperto, maggiori saranno le possibilità di inserire anche delle diversità per arrivare all’obiettivo. Questa strada non è dritta, lineare, non è fissa, è qualcosa che devo-posso modificare nel processo, nel percorso.

Metodo-Approccio metodologico, è come decido di allenare. Ripensando al video in apertura, l’allenamento non è solo l’esercitazione ma è anche come mi relaziono con i giocatori, come i giocatori si relazionano tra loro, come arrivo al campo (stato d’animo), come lavoro con la società, cosa conosco della società, del contesto, dei nostri tifosi o di quelli avversari (il Milan ha recentemente preparato la partita con il Borussia Dortmund replicando l’atmosfera dell’Induna Signal Park).

Questo significa provare a tenere tutto in considerazione. Prendiamo ad esempio l’arbitro, non lo consideriamo mai. Facciamo mai delle esercitazioni, delle partite a tema, in cui mettiamo alla prova la frustrazione dei nostri giocatori nei confronti di un arbitro che percepiamo non fischiarci mai falli a favore? Se non l’alleno mai ci saranno più possibilità che in partita il giocatore possa essere ammonito e magari espulso. Ha valore? Direi di si.

Pertanto, se io conosco il fenomeno sociale, se sono dentro il fenomeno sociale, se so, ad esempio, che il giocatore ha problemi in famiglia perchè ha ricevuto una brutta pagella a scuola o magari sul giornale “Sprint & Sport”, so che quel giocatore quando verrà al campo, sarà diverso dal giocatore che era il giorno precedente. Trasliamo il ragionamento su un giocatore di alto livello (pagelle sui quotidiani, critiche, commenti sui social…).

Come avviene l’Apprendimento? Come apprendono le persone?

È chiaro che ognuno apprenda in maniera diversa. Il nostro approccio è più legato ad un’idea di apprendimento che passa dal fare le cose ma non dal ripetere le cose.

Ripetere senza ripetere: palleggio contro il muro e quindi sto imparando a fare trasmissione e controllo? È un’idea. Se quella trasmissione e controllo la faccio in un contesto di situazione dove non ho soltanto la trasmissione e il controllo ma ho tutto l’intorno, la percezione degli avversari, dei compagni, della palla che arriva male o, ancora, sto giocando la palla in quella direzione ma il passaggio mi viene chiuso, non posso più giocare, ad esempio, dentro ma devo giocare fuori…Questo è apprendimento. Il contenuto determina l’apprendimento non la ripetizione.

Al mio giocatore devo far vivere l’emozione e la motivazione del fare le cose, in questo modo avviene l’apprendimento, secondo il nostro approccio metodologico, come già detto più volte.

Dopodichè, ognuno è libero di documentarsi sui vari modelli di apprendimento: comportamentismo, cognitivismo ecc…Se penso che mettendo il giocatore a ripetere centomila volte la trasmissione ed il controllo di palla, sono nel comportamentismo (primi del ‘900), un pochino superato ma, se siete convinti che funzioni…a voi la scelta.

Studiare l’apprendimento e poi modulare anche in base alle necessità delle persone. Occorre flessibilità perchè alcune persone-giocatori hanno bisogno di alcune cose altre-i no. Non ci stancheremo mai di ripetere che per noi l’apprendimento avviene nel gioco, anzi nella partita. Il modo migliore per apprendere è nella partita.

Oggi ci sono staff molto numerosi, con diverse professionalità, è chiaro che ciascuno debba conoscere il gioco e che l’allenatore debba aver fiducia in loro per poter permettere il loro intervento. In questo modo anche nell’ 11 vs 11 potremmo cogliere i particolari. Se invece siamo dell’idea che l’allenatore in seconda debba limitare gli interventi, il preparatore atletico debba fare solo la parte atletica così come il video analista tagliare le clip, l’allenatore dei portieri, lo psicologo e via dicendo occuparsi solo del loro ambito, non avremo mai la possibilità di cogliere i dettagli.

Cos’è Formazione:

  • Istruzione, l’istruttore è colui che istruisce, impartisce istruzioni e gli alunni/allenatori/giocatori eseguono
  • Insegnamento, l’insegnante, nel senso classico del termine. Prima dell’avvento di internet, della rete, era l’unico detentore del sapere e trasferiva informazioni agli alunni/allenatori/giocatori. Qualche decennio fa poteva avere un senso perchè era davvero il solo ad avere il sapere, oggi, con la fruibilità del sapere nella rete, è cambiato tutto. Non serve più il portatore di sapere che lo elargisce agli altri e li riempie di nozioni.
  • Relazionale, bidirezionale, dialogica: ci mettiamo nello stesso piano a ragionare sulle cose. Il formatore porta le proprie conoscenze, voi, studenti/allenatori/giocatori portate le vostre. Dalla comunicazione, dal punto d’incontro, si genera il sapere, un nuovo sapere.

Dall’aula esce il “tema De Zerbi” e la sua capacità di elevare le prestazioni di giocatori normali. La sua bravura nell’ entrare in relazione con i giocatori. I suoi giocatori davvero apprendono o è lui che è in grado di farli andare sopra le loro possibilità? È una domanda che potremmo porci anche rispetto a mister Gasperini dell’Atalanta. Ci sono allenatori che sono in grado di far rendere tantissimo i loro giocatori, giocatori che poi, con altri allenatori, tornano ai loro standard di normalità.

Il tema (su cui si dovrebbe discutere a lungo) è capire dove sta il confine tra l’apprendimento acquisito dal giocatore che si consolida nel tempo e che si porta in tutte le sue esperienze diventando patrimonio personale e l’idea di performance a cui l’allenatore è in grado di portare i propri giocatori.

È chiaro che sia un patto implicito, un esempio recente è quello di Millner ex Liverpool, trasferitosi proprio a Brighton con la convinzione che lavorare con De Zerbi lo aiuterà ad apprendere, a migliorarsi. Una decisione presa, probabilmente, anche in un ottica di un futuro ruolo di allenatore, considerando la sua età.

Alcuni calciatori oggi decidono di andare a giocare nei club con determinati allenatori perchè sanno o sono convinti che quell’allenatore li farà rendere al limite delle loro possibilità e forse qualcosa in più.

Un tema su cui ci siamo soffermati nel recente passato e che riprenderemo più avanti è quello dell’umanizzazione del mondo del calcio, intesa come il passaggio da giocatori automi, che eseguono, ad un calcio umanizzato dove il fenomeno sociale viene preso in considerazione e viene preso in considerazione il giocatore come persona. Non perchè pensiamo di fargli del bene o per essere “buonisti” ma perchè pensiamo che così facendo, con queste attenzioni, possa performare meglio.

Quindi assume sempre più importanza, conoscere, avvicinare, ascoltare i giocatori, essere in grado di lavorare con loro in un certo modo per poterli migliorare, per metterli nelle condizioni di apprendere.

EDGARDO ZANOLI

BIO: Edgardo Zanoli

Metodologo, Formatore, Allenatore Uefa B,

Docente del Master in sport e intervento psicosociale

Universita’ Cattolica di Milano e Brescia

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