PROFESSIONALIZZAZIONE DEL FENOMENO SOCIALE CALCIO. LEZIONE 6: IL GIOCO E LA COMPLESSITÀ COME STRUMENTO DI APPRENDIMENTO – APPUNTI SPARSI.

Ho avuto l’opportunità di frequentare presso l’Università Cattolica di Milano alcune lezioni del Corso di “Teoria, Tecnica e Didattica degli sport individuali e di squadra – CALCIO”, tenuto dal Prof. Antonello Bolis e coordinato da Edgardo Zanoli.

In una serie di articoli proporrò le note raccolte in aula. Sono appunti, come mi piace definire…sparsi.

Ecco quelli relativi alla 6^ lezione svoltasi il 9 novembre 2023 e tenuta dal Prof. Stefano Baldini.

IL GIOCO E LA COMPLESSITÀ COME STRUMENTO DI APPRENDIMENTO.

L’obiettivo del Prof Baldini è, attraverso il racconto del proprio percorso metodologico, dare spunti ai corsisti per la loro professionalizzazione in ambito calcistico.

Anche lui è stato uno studente dell’ISEF (Istituto Superiore di Educazione Fisica) in Cattolica, oggi facoltà di scienze motorie, e ricorda come i professori lo scoraggiassero rispetto alla possibilità di trovare lavoro nel contesto sportivo.

Lui che aveva già scelto Ragioneria alle scuole superiori perché allora si diceva che ti avrebbe assicurato un posto di lavoro in banca, una scelta di comodo per lui (la scuola era vicina a casa), una scelta di prospettiva per i genitori.

Dunque iscritto all’ISEF senza alcuna base scientifica e quindi tabula rasa in materie quali: anatomia, biologia, fisiologia, endocrinologia, medicina, igiene e via dicendo. Dalla sua il fatto che fosse un calciatore, mediocre, in una squadra di serie D nel territorio bresciano.

Questo era il quadro: dopo il diploma di Ragioneria, la scelta dell’ISEF con il corpo docenti, che al primo giorno di scuola, lo ammonisce dicendogli che non troverà mai lavoro.

Alla generazione nata in quei primi anni 70, nonostante i danni causati e lasciati in eredità alla generazione attuale (a cui, poi, è stata data la colpa), va riconosciuta la capacità di ripensarsi. Ha dovuto ripensare, certo per necessità, il ruolo professionale che emergeva da quella scuola. Quegli studenti sono stati i precursori di quello che poi ha portato il movimento scolastico e le istituzioni a fare in modo che l’ISEF non fosse più soltanto orientata all’insegnamento scolastico ma che si rivolgesse alle scienze motorie in generale per preparare professionalità che potessero trovare spazi in altri ambiti. Che desse una preparazione sia dal punto di vista pratico applicativo sia dal punto di vista gestionale. Se infatti pensiamo alle possibilità di specializzazione alla magistrale tra cui: l’ indirizzo riabilitativo, lo sportivo, il manageriale, perchè si è ritenuto che fossero professionalità spendibili in ambiti differenti, l’upgrade è stato notevole. Era il 1993 e dicevano che prima o poi la scuola avrebbe previsto l’obbligo dell’insegnamento dell’educazione fisica alle elementari. Siamo nel 2023, sono partiti un paio di progettini per la 4^ e 5^ elementare e, forse, l’agognata l’obbligatorietà arriverà nel 2030.

So-stare (saper stare) nell’incertezza, vivere nella precarietà ed ora il nuovo termine flessibilità lavorativa, sono termini che fanno sorridere, per chi è precario e flessibile dal 1993, dice Stefano.

Baldini è insegnante presso l’Università Statale dell’omologo corso di Calcio e dice che le prime ore di lezione le spende a conoscere i propri allievi, il loro percorso, le loro scelte, le loro aspettative rispetto al corso e, più in generale, all’Università. Molto spesso, da questi ragazzi, emerge l’amore per lo sport e il desiderio di volerlo insegnare e quindi di ricevere in dote degli strumenti da poter spendere in ambito lavorativo.

Ciò che è importante da parte degli studenti è saper individuare questi strumenti e poi saperli raccogliere. Ascoltare le esperienze di chi è stato dalla parte degli studenti dovrebbe aiutare questi ultimi a comprendere che anche queste pratiche sono strumenti che possono essere raccolti. Non ci sono ricette. Non c’è un iter che ti porti con certezza ad un impiego.

In quest’ottica il racconto del percorso metodologico del Prof Baldini vuole essere uno strumento offerto ai corsisti.

Sottolinea l’importanza di sapersi inventare, costruire e rimettersi in discussione anche andando contro quegli insegnamenti che la stessa Università proponeva. Se insegniamo nella Facoltà di Scienze Motorie ciò che insegnavano (e come lo insegnavano) nel 1993, è un problema. Le conoscenze che abbiamo oggi non sono quelle del 1993.

Prof Baldini ci tiene a premettere che il percorso metodologico che racconterà è il suo, parlerà di sè, senza giudicare nessuno.

La seconda premessa è che dietro al pensiero che emergerà c’è un ragionamento di evoluzione che è fatto di incontri e che gli incontri possono cambiare la vita. Trovi persone che ti danno delle opportunità che possono essere colte. Può anche accadere che queste opportunità non arrivino o non si sappiano cogliere.

La terza premessa è che non ci sia qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato ma che ci sia cio’ che è attuale e ciò che non è più attuale. Quello che veniva fatto nel 1993 non era necessariamente sbagliato, era tutto legato agli strumenti che avevano a disposizione. La riflessione deve essere: se oggi lavoro ancora con gli strumenti del ’93 allora forse sono poco attuale. L’importante è dare significato al perchè di alcune scelte metodologiche che oggi, rispetto a come si lavorava nel ’93, sono un pochino superate.

Torniamo al titolo dell’intervento in cui si richiama la complessità. Oggi si parla di complessità, negli ultimi dieci anni si è parlato di complessità, così come durante il Covid, nei webinar il tema era la complessità, ora tutti sanno della complessità. Della complessità, di sistemi dinamici complessi, Baldini dice di averne sentito parlare per la prima volta nel 2012.

Nessuno sapeva niente perchè l’approccio non era sistemico.

Poi qualcuno è stato precursore, in Italia, nel contesto calcistico, un gruppo di persone che incontrandosi, pur preso in giro, ha voluto fortemente un cambiamento culturale che, anche se molto lentamente e con forti resistenze, sta avvenendo nel nostro Paese.

La persona al centro, gli approcci pedagogici, l’importanza delle relazioni, le relazioni emotive, la crescita individuale nel contesto collettivo…che cos’era? Complessità! Lo sapevamo? No!

Non era ancora stata definita. Allora c’era solo l’individualità, il giocatore. Si diceva che se pensavi alla squadra non eri un allenatore, eri schiavo del risultato. Gli incontri di cui parlavamo sopra sono serviti per dare una forma ed un nome a delle azioni che stavamo già mettendo in atto ma che non eravamo riusciti a definire. La forza di quegli incontri è stata quella di mettere ogni volta in discussione quello che facevamo. Tutto ciò per dire che ancora non abbiamo capito cosa sia, in profondità, la complessità e, soprattutto, il gioco nella sua complessità.

Il gioco, quale gioco? Come si gioca a calcio. Quanti modi ci sono di giocare a calcio? Chi può parlare di calcio? Molto spesso solo gli allenatori! Non può essere così. Tutte le professionalità in un contesto calcistico dovrebbero essere tenute ad avere competenze calcistiche o mostrare la volontà di acquisirle così da potere, ma direi, dovere intervenire su temi calcistici.

Se si vuole fare calcio bisogna conoscere il calcio. Se vogliamo lavorare nella pallavolo bisogna conoscere la pallavolo e così per gli altri sport. Poi c’è l’ambito di competenza specifica in cui il preparatore può fare la differenza ma non è pensabile che al preparatore non interessi come giochi la squadra o che tipo di gioco esprima.

Sappiamo come siano alcuni allenatori ad osteggiare gli interventi dei preparatori atletici e delle altre professionalità su contenuti calcistici salvo poi definirsi allenatori che lavorano nella complessità. Complessità è anche il saper tenere insieme tutto ciò che gira intorno a quella situazione, a quello staff, a quella squadra, a quel club.

Riferendosi all’immagine dell’evoluzione del suo percorso metodologico Baldini racconta di come alla fine del secondo anno di ISEF, giocatore in serie D, non titolare, mai convocato, venne avvicinato dall’allora responsabile di settore giovanile che gli disse: “Visto che non giochi mai perchè non vieni a fare l’allenatore dei pulcini? Soldi però non ce ne sono”.

Inizia così il suo percorso da allenatore con un gruppo di 29 bambini, pochi palloni, niente casacche. Dopo un paio di settimane la prima idea metodologica: dividere i bambini in due gruppi di 15 e 14 giocatori, dedicando un’ora e mezza a ciascun gruppo. Lo spiega al responsabile che risponde: “Fai come vuoi, soldi non ce ne sono”.

Racconta della sua capacità di relazionarsi con i bambini di dieci anni alimentata dal piacere di allenare in quel contesto. Sperimentava, cercava di capire, insomma, faceva scienze motorie!

Ma, al di là dell’approccio attentivo con i giovani calciatori cosa poteva insegnare? Qual’era lo strumento a disposizione? L’esperienza, il vissuto.

Allenava come era stato allenato: – skip a ginocchia alte, esercizi di mobilità attiva per 15′. Ne ere consapevole? No! Perchè lo faceva? Perchè l’aveva fatto lui da giocatore. E ancora: “Come sono gli stimoli nel gioco, semplici o complessi? Complessi. Il fischio è uno stimolo semplice o complesso? Semplice. Quale stimolo utilizzava per far partire i giocatori? Il fischio… tutto il contrario!”. Andiamo avanti con la seduta di allenamento: – palleggi per 10′, – conduzione con le varie parti anatomiche del piede per 15‘ poi – forca per 15′, propedeutica al passaggio. Quindi sollevava il pallone da terra alzando la corda e via con i colpi di testa. Compresi i tempi morti sono poco più di un’ora d’allenamento per cui avevano a disposizione ancora, quasi, una mezzora. Cosa si fa? – partitella (solo se i bambini si erano comportati bene però!

Nel suo percorso metodologico si arriva al 2000 con la discussione di due tesi (triennale + integrazione per scienze motorie) e seguendo seminari, tenuti da chi allora deteneva “il verbo della formazione calcistica”. Nei seminari si parlava del gesto tecnico in varie forme, il calciare era un gesto che, spiegavano, viene eseguito dal calciatore in equilibrio monopodalico dinamico, lo stesso per la ricezione del passaggio e, mediamente, anche per il colpo di testa.

Di conseguenza, per i laureati in scienze motorie, l’esercizio per ottenere l’equilibrio monopodalico prevedeva l’utilizzo della trave poichè dicevano che fosse necessaria la costruzione di una coordinazione generale che si acquisiva proprio camminando sulla trave e che serviva come presupposto per poi trasferire tale abilità nel gioco. Migliorando l’equilibrio generale, trovo l’equilibrio nel gioco. Oggi sappiamo che non funziona così. Sia chiaro, non sappiamo ancora tutto, scopriremo tante altre cose e capiremo che anche quello che stiamo facendo adesso non è del tutto corretto ma nel 1997-’98 le conoscenze che si avevano e che ti insegnavano all’ ISEF erano quelle per cui ciò che si faceva era perfetto.

Veniamo ora alla conduzione di palla: Siamo arrivati al gesto in varie forme. Cosa si deve saper fare prima di condurre? Qual’era il requisito base prima di condurre? La corsa. Pertanto l’esercizio propedeutico alla conduzione era la corsa. Successivamente si passava a fare la corsa con la palla tra i piedi quindi il gesto tecnico. Avendo a che fare con i bambini lo mettevamo in forma ludica: gioco dello sparviero o gioco del lupo mangia-ghiaccio.

Era sbagliato? No.

All’oratorio o al centro di ricreazione estivo non sarebbe stato sbagliato ma in una società di calcio non aveva senso perchè non mettevamo i bambini nelle condizioni di apprendere a giocare a calcio. Spostavano la palla da un punto all’altro senza farsi prendere dallo sparviero. Non è la conduzione che serve nel gioco e, tra l’altro, nel gioco non c’è lo sparviero. Queste esercitazioni andrebbero fatte a scuola dove però non abbiamo gli insegnanti di educazione fisica anzi, ironia della sorte, accade che gli insegnanti di educazione fisica che non trovano spazio nella scuola, lavorino nelle scuole calcio, scuole basket o scuole pallavolo e vi replichino ciò che dovrebbe essere fatto nelle scuole.

Nelle scuole calcio i bambini sono lì per giocare a calcio, come detto sopra, per essere messi nelle condizioni di imparare a giocare a calcio. Lo stesso dicasi per gli altri sport.

Ma torniamo alla nostra seduta. Abbiamo fatto il gioco dello sparviero, ora voglio fare una partita a tema: preparo il campo per una partita 5v5. Cosa facciamo affinchè i giocatori eseguano la conduzione? Cosa fareste? Come facciamo a fare in modo che i bambini conducano palla? A cosa mi serve la conduzione? Per attaccare uno spazio, conquistare uno spazio libero, mediamente ma non necessariamente verso la porta avversaria.

Baldini sollecita gli studenti e poi suggerisce e disegna il campo diviso in due metà con un 3v2 nell’una e un 2v3 nell’altra. L’input da dare è: Se voglio creare un 3v3 nell’altra metà campo, chi è in possesso, deve condurre la palla oltre la linea di centrocampo.

Nella programmazione degli allenamenti, il giorno successivo prevedono un lavoro propedeutico al passaggio e alla ricezione. Se per condurre, l’esercizio propedeutico era la corsa, per passare e ricevere quale sarà l’esercizio propedeutico? La trave. E poi? Qual’è l’esercizio propedeutico per il passaggio? Il passaggio della palla tra due giocatori posti uno di fronte all’altro. Infine trasferiamo tutto nel gioco. Manteniamo la stessa struttura del giorno precedente ma, questa volta, per andare a fare il 3v3 nell’altra metà campo dovrò farlo con un passaggio e colui che ha eseguito il passaggio andrà a creare la parità numerica.

Finita l’esercitazione, togliamo la divisione tra le due metà del campo e giochiamo la partita. Ma quanto tempo è rimasto per la partita? Fatti i debiti calcoli, poco meno di venti minuti. Laureato in scienze motorie, considerato il re del mondo metodologico, abbiamo costruito una seduta di allenamento pazzesca, si schernisce Baldini, andiamo a giocare fiduciosi contro la squadra oratoriana del paese limitrofo. Risultato: Squadra oratorio 26 – Squadra Baldini 0.

Occorre una riflessione. Come mai abbiamo perso 26-0? Eppure abbiamo fatto tutto secondo i principi metodologici. La risposta risiede nella qualità dei bambini: I bambini sono scarsi. Per forza, la ragione deve essere questa. E allora Stefano racconta di aver chiesto al loro allenatore: “Qual’è il tuo segreto?”

E lui risponde: “Non c’è un segreto. Finisco tardi al lavoro e quando arrivo i ragazzi hanno già giocato da soli un bel pò, i vedo un pò stanchi e allora gli dò le casacche e gli faccio fare la partita”. “E poi?” ha chiesto ancora Stefano. “E poi giocano!”. Stefano lo incalza: “Si ma, e poi?” “E poi giocano ancora!”, risponde l’allenatore. Giocare…LA FORMA PIÙ ALTA DI COMPLESSITÀ.

Il dubbio che sorse a Baldini era che stesse sbagliando tutto. Così, attraverso i suoi contatti, si rivolge alle società professionistiche che gli parlano del metodo GAG (gioco-analitico-gioco).

Si tratta di passare dal gioco al lavoro analitico per poi ritornare al gioco. Bisogna tornare ai giochi di cortile gli dicevano e lui non capiva la differenza rispetto a ciò che stava facendo. La differenza, gli spiegavano, sta nel riproporre l’analitico dopo e prima del gioco. Nel suo percorso si affaccia il gioco. Il gioco comincia ad avere una parte preponderante.

Nel suo percorso approda (2009) al settore giovanile del Milan. Significa poter lavorare con le scuole calcio con un modello di lavoro basato in gran parte sul gioco. Nel contempo nell’attività di base del club conosce l’approccio tecnico-individualistico. Improvvisamente in Italia cominciano le mode. Si sostiene che non ci sia più nessuno in grado di dribblare, di saltare l’uomo. Nasce e si sviluppa quel filone secondo cui i bambini devono lavorare sul ball mastery (il dominio della palla) e le tricks and skills (finte e abilità). Esecuzione di finte sulla palla e dominio della stessa indipendentemente dal contesto, dall’avversario. Ciò porta i bambini, durante le partite, a giocare da soli, in nome della necessità di ritrovare l’abilità di dribblare, di ritrovare i dribblatori.

Nel 2012 gli viene dato l’incarico dal settore giovanile rossonero di costruire un progetto tecnico condiviso da tutte le squadre e da tutte le professionalità presenti. Il punto di “rottura” è il cambio di politica sportiva del club: non più investimenti per top players, cessione al Psg di Thiago Silva e Ibrahimovic, ricaduta sul settore giovanile che stabilisce l’ultimo investimento sulla squadra under 15. Possibilità di inserire giocatori da fuori regione con l’intento di portare il gruppo squadra fino alla categoria Primavera (allora under 19) e possibilmente qualche giocatore alla 1^ squadra.

Iniziano le visite presso i club più produttivi in termini di giocatori nella rosa della 1^ squadra provenienti dal vivaio( Ajax, Barcellona, Benfica, Real Madrid, Manchester United…). Incaricato delle visite, tra gli altri, Stefano Baldini.

Stefano torna da questi viaggi studio con un’idea forte: il giocatore dentro il gioco. La dinamica di complessità è clamorosa. Prima di tutto occorre partire da un’idea, dobbiamo avere un’idea di gioco, definire i nostri principi, definire come vogliamo che giochino le squadre, che giocatore vogliamo formare dentro quell’idea. L’idea è che lo si possa fare solo coinvolgendo tutti nel progetto.

È in questo momento che Stefano ha l’opportunità di definire il gioco come sistema complesso, inteso come qualcosa che tenga conto dell’unità del tutto. Non si può scindere, non si possono togliere gli elementi costitutivi del gioco. Cominciamo a parlare di sistema dinamico, come complessità del gioco, sempre in movimento, sentiamo parlare di approccio ecologico, cioè dell’ambiente che condiziona tutto.

Baldini sottolinea come, al ritorno dalla visita al Barcellona, la sensazione avuta era che i bambini alla Masia, il loro centro sportivo, si divertissero giocando mentre noi, in Italia, tendiamo ad abolire la dinamica del divertimento, siamo ancora nell’idea, che se ti diverti non impari. Quando giochi, se ti diverti, impari di più. “Quando un bambino gioca è concentratissimo! Se lo disturbate vi manda a quel paese. Anche se è concentratissimo lui si sta divertendo perchè il gioco è una cosa seria”(Julio Velasco).

Riassumendo la scuola analitica non tiene conto del contesto. L’obiettivo della didattica è la tecnica. Posso farla ovunque: al muro, con la forca, a casa e via dicendo. Oggi diciamo che questa cosa non serve a nulla. È utile avere delle tricks and skills ma se con la palla possiamo fare tutto, la dominiamo, siamo dei free-styler, non necessariamente sappiamo giocare a calcio. Perchè? Perchè non teniamo conto del contesto.

Lo step importante è quando, ad esempio, comprendiamo che non dobbiamo più condurre per condurre ma conduciamo per superare un avversario, conquistare spazio in avanti o conquistare spazio dietro. Conduciamo per uno scopo. Le abilità tecniche si sviluppano nel contesto del gioco ed i mezzi di lavoro diventano i possessi palla, gli small-sided games, le partite ecc…ecc…Dobbiamo uscire dal concetto di idealizzazione del gesto tecnico. Ogni gesto che ripetiamo è diverso da quello precedente, perchè la palla ci arriva in maniera diversa oppure perchè la direzione di pressione dell’avversario sarà diversa e quindi anche la direzione del nostro controllo sarà diversa.

Anche la scelta di un’idea di gioco che diventa stile di gioco non fa differenza purchè sia formativa per il giocatore, per quel giocatore che noi vogliamo formare, vale nel settore giovanile come negli adulti. Non esistono stili di gioco giusti o sbagliati ma esistono stili di gioco che formano un determinato giocatore. Bisogna averlo chiaro in testa. La tecnica è uno strumento per giocare, non è più l’obiettivo. Mi serve per giocare e pertanto ne valuto l’efficacia.

È difficile? Si.

Hai risultati immediati? No!

Ci manderanno via? Probabile!

Non ci sono azioni ma interazioni, collaborazioni con i compagni e, con gli avversari in opposizione. Cresciamo e diventiamo noi stessi, attraverso gli altri (Vygotskij). È tutto sintetizzato da Daniela Lucangeli, neuroscienziata che studia le emozioni (2023) nella slide che trovate qui sotto.

Siamo in chiusura ed interviene uno studente che sottolinea il fatto che poichè non vi siano determinate attività nella scuola sia necessario svolgerle nella scuola calcio. La risposta di Baldini non ammette repliche: Il processo è più lungo ma devono imparare a muoversi dentro il gioco, dentro il gioco del calcio.

Se siamo nella scuola calcio lo strumento motorio da utilizzare è il gioco del calcio. Ti metto nelle condizioni di apprendere il movimento dentro al gioco.

Mettiamo giù due porticine e facciamo giocare i nostri ragazzi. Quello che poi siamo in grado di riconoscere dentro il gioco è competenza e, se sei il Prof che non conosce il gioco, è un problema. Se non sei in grado di riconoscere niente è un problema. Posso giocare in diversi contesti (multilateralità specifica). Quante volte abbiamo giocato nei corridoi delle scuole con una pallina di carta tenuta insieme dal nastro adesivo e con le porte asimmetriche che erano le porte delle classi? Anche questa è multilateralità specifica. Cambiano le superfici, cambiano gli strumenti, cambia tutto. Ma cosa sto facendo? Sto giocando a calcio. Non posso giocare a basket per migliorare l’orientamento spazio temporale (si usano le mani e non i piedi per controllare la palla), devo giocare a calcio.

Per concludere: il gioco e la sua complessità (complexus) come elemento formativo.

  • BIO: STEFANO BALDINI è nato a Chiari (BS) il 7-2-1974
  • 5 anni : Formatore e Coordinatore tecnico – AC Milan
  • 5 anni : Coordinatore tecnico e referente per l’area R&D  – FC Juventus
  • 2 anni : Collaboratore tecnico – Staff prima squadra AC Monza – LR Vicenza – Campionato italiano di serie B
  • 1 anno : Secondo allenatore – Staff primavera – Brescia Calcio
  • 4 anni : docente di teoria e metodologia sport di squadra – calcio – Università Statale di Milano
  • Dal 1993 al 2010 allenatore, formatore, coordinatore in diverse realtà dilettantistiche lombarde dove sono cresciuto e maturato.
  • Dal 2001 al 2010 Responsabile Tecnico e co-fondatore dell’associazione Sportiva Prostaff ( dove forse è iniziato il viaggio).

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