IL DOLORE E IL RECUPERO DALL’INFORTUNIO.

Lo staff del calciatore si riunì in un clima di tensione e di ansia per suo il futuro. L’infortunio era occorso ormai mesi prima, ma la luce in fondo al tunnel era solo una speranza appassita. Gli esami, i medici e i  fisioterapisti avevano evidenziato un perfetto recupero funzionale della  muscolatura, ma il calciatore continuava a lamentare un dolore invalidante e questo metteva più o meno segretamente tutti in crisi, sia chi si sforzava di trovare ad esso una spiegazione scientifica, sia chi ormai pensava che se lo inventasse volontariamente per qualche perverso gioco di auto sabotaggio.

L’agente cercava di coordinare nervosamente gli interventi, cercando di capire il da farsi, ma riusciva solo a mettere i membri dello staff uno contro l’altro, generando una scaricabarile di responsabilità e una visione sempre più miope della situazione. Mi spazientii. Ignorando platealmente le opinioni di tutti i presenti mi rivolsi direttamente all’atleta.

“Carlo, sei un giocatore giovane, ma già esperto. Qui dentro siamo tutti preoccupati per la tua salute e la tua carriera, ma abbiamo perso un punto di riferimento fondamentale, cioè il fatto che sei tu al centro di tutto: non i medici, non i fisioterapisti, non chi ti rappresenta e nemmeno il mental coach. Ognuno di noi può darti uno stimolo, ma nessun altro se non tu stesso può capire cosa senti e cosa si può fare”. Alle mie parole, la riunione era caduta in un silenzio ostile: a nessuno piace sentirsi ricordare che non è fondamentale.

Carlo mi disse, sfiduciato nel tono e nell’atteggiamento: “Quindi cosa devo fare?”

“Vestiti. Vai in campo. Cammina, torna a sentire l’erba, a guardarti intorno e soprattutto ad ascoltarti. Ascolta le tue sensazioni mentre cammini. Poi prova a correre, lentamente, una corsetta appena accennata. Se c’è dolore, ascolta anche quello, senza ragionarci sopra. Prova a capire dov’è il tuo limite in questo momento. Sappiamo che il muscolo è tecnicamente guarito, quindi non puoi fare danni. Prova a capire cosa succede al dolore se testi quel limite. Questo puoi farlo solo tu. Solo tu senti cosa accade in quel momento. Il dolore aumenta? Se ne va? Rimane uguale? Ti irrigidisce? Stai in campo per un po’, così, senza forzare, solo ascoltando e cercando di capire. Poi ti fai una doccia e torna a casa. E vedi come va, come ti senti, cosa succede. Puoi provare?”.

Quattro giorni dopo, con la sorpresa di tutti, Carlo riprendeva con prudenza gli allenamenti con i suoi compagni di squadra.

Il dolore può rimanere ben impresso nella nostra memoria anche a distanza di molto tempo da quando si è manifestato in modo acuto. Lo sportivo che subisce un infortunio si trova così a dover affrontare non solo il lavoro fisico necessario per ristabilirsi completamente, ma anche le ansie e le preoccupazioni legate alla paura che il dolore ritorni, che l’infortunio si ripeta, che il danno sia più grave del previsto, che niente sia come prima. Non è una stranezza. Il nostro sistema nervoso è infatti programmato per dimenticare solo quei traumi talmente gravi da mettere in discussione la nostra stabilità psicofisica. In quei casi, i meccanismi dello shock ci preservano, limitando la trascrizione nella memoria degli eventi e delle sensazioni legate al trauma.

In tutti gli altri casi, il ricordo del dolore viene invece coltivato  e custodito in una parte della nostra memoria che consente di recuperarlo con facilità. Questo meccanismo non aiuta di certo lo sportivo infortunato. Se però cerchiamo di interpretarlo alla luce dei nostri meccanismi evolutivi e di sopravvivenza, ci risulterà allora molto più accettabile: ricordare il dolore serve a motivarci a non riviverlo.

Cosa può fare allora lo sportivo per vivere la fase di recupero e di rientro al meglio dal punto di vista mentale?

Prima di tutto, non incolparsi per l’incapacità di rimuovere il ricordo del dolore. E’ del tutto normale non riuscirci con il solo sforzo della volontà ed è del tutto normale che scompaia con il tempo. Conoscere e accettare questo meccanismo, che fa parte di noi, ci permette di lasciarci scivolare addosso più facilmente i pensieri negativi collegati, senza sprecare energie nel rifiutarli, nell’opporre loro una resistenza che genera la paura della paura: un mulinello che ci porta a fondo, lontano dalla superficie.

Sarà anche utile porsi delle piccole sfide giornaliere, cioè comportamenti che vadano esplicitamente contro le nostre impressioni. Se per un mal di denti si può trattare di masticare intenzionalmente dal lato della bocca dove si trova il dente che ci ha fatto male per un certo periodo, per l’atleta può magari trattarsi di mettere gradatamente alla prova la parte del corpo reduce dall’infortunio ponendo le sue energie nell’ascolto di tutte le reazioni, le sensazioni, le risposte.

Ascoltare ci aiuta a conoscere meglio quella parte del nostro corpo che, con l’infortunio, ha subito una trasformazione, un cambiamento. Su questo aspetto non riflettiamo mai abbastanza: un infortunio, piccolo o grande che sia, lascia sempre un segno e cambia gli equilibri della parte del corpo interessata, anche se apparentemente tutto è tornato uguale. Conosciamola meglio, quella parte di noi: saremo allora in grado di sfruttarla al meglio delle sue nuove, mutate capacità.

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BIO: Stefano Nicoletti 
è un appassionato formatore, cresciuto in grandi aziende del settore finanziario in cui ha maturato e coltivato competenze trasversali su performance, collaborazione, negoziazione, mindfulness e gestione dell’attenzione. È un esperto di allenamento visivo e segue professionisti e giovani talenti dello sport di tutto il mondo. La sua frase preferita è del pugile George Foreman: “Nell’incontro con Ali non sentivo alcuna paura. Ho pensato: è facile. È quello che aspettavo. Nessun nervosismo. Nessuna paura. E ho perso”.

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