Città del Messico, 20 ottobre 1968.
Finale olimpica del salto in alto.
Tredici atleti a contendersi l’ambitissima medaglia d’oro.
Tra questi, è un ventunenne americano ad attirare la curiosità dello stadio gremito.
Perché?
Non è solo per i suoi scarpini, di colori diversi.
È la sua tecnica, ad essere letteralmente rivoluzionaria.
Qui occorre fare un passo, anzi un balzo, all’indietro.
Il salto in alto è una specialità in cui l’atleta deve superare un’asticella orizzontale.
In qualsiasi modo, purché si stacchi da terra con un piede solo.
Agli albori, si adottava un approccio diretto “frontale”, oppure la tecnica “a forbice”: si gettava di là prima la gamba interna, più vicina, e poi quella esterna, con un movimento che ricordava appunto quello delle lame. A partire da fine Ottocento, arrivarono l’“eastern cut-off” (stendendo la schiena in orizzontale e volgendo il fianco verso l’asticella) e il “western roll” (staccando con la gamba interna e portando quella esterna verso l’alto per proiettare il corpo oltre l’asticella).
Dagli anni Trenta, gli statunitensi e i sovietici diedero vita ad un dominio di quattro decenni, con l’evoluzione della tecnica “ventrale”: scavalcando l’asticella a pancia sotto, con il torso quasi parallelo, Valerij Brumel portò il record mondiale a 2,28 m e vinse l’oro alle Olimpiadi di Tokyo 1964.
Mentre gli allenatori statunitensi migravano in Russia per imparare da lui, fu invece un giovanotto dell’Oregon a portare la disciplina in una nuova dimensione. A Medford, Richard “Dick” Fosbury si innamorò del salto in alto, ma, con lo stile “a forbice” e con quello “ventrale” (suggeritogli dal suo allenatore dell’epoca), ottenne solo misure molto modeste. Deluso e frustrato, iniziò a lavorare su una propria tecnica: sfruttando anche il materassino di atterraggio più alto e più soffice, passava l’asticella prima con la testa e le spalle, poi con la schiena arcuata. Il dibattito sulla paternità del gesto rimane ancora aperto, perché pare lo avesse già sperimentato, nella sua breve carriera, il connazionale Bruce Quande, mentre Debbie Brill lo sviluppò parallelamente in Canada.
Ad ogni modo, quello stile venne accolto con pareri contrastanti, e fu ribattezzato “Fosbury Flop” quando un cronista locale lo paragonò al tuffo di un pesce in una barca. Molti ne evidenziarono la pericolosità, indicando il rischio di rompersi l’osso del collo nei tentativi di emulazione. Durante la frequentazione dell’Università dell’Oregon, il nuovo coach insistette perché Fosbury praticasse il “ventrale”, ma le cose andarono diversamente.
Perfezionando la propria tecnica, nel 1968, vinse i campionati USA universitari e superò i Trials Olimpici, guadagnandosi un pass per Città del Messico.
Esattamente dove lo abbiamo lasciato all’inizio del nostro racconto.
Dove ogni perplessità si tramutò ben presto in applauso.
Fosbury vinse. E convinse tutto il mondo, in una maniera incredibilmente rivoluzionaria.
2,24 m, nuovo record olimpico.
Dopo quel trionfo, la tecnica si diffuse su tutto il pianeta, diventando ben presto la più gettonata.
Tanto per avere un’idea, già ai Giochi Olimpici successivi di Monaco 1972, la utilizzarono 28 partecipanti su 40. Sono convinto che le parole migliori per descrivere la portata di quanto accaduto siano quelle di Simon Burnton del “Guardian”:
«Riguardando la finale del 1968, ciò che colpisce è questo: per chiunque l’avesse visto allora, lo stile di Fosbury sarebbe sembrato totalmente bizzarro. Per chiunque lo guardi adesso, sono tutti gli altri a risultare bizzarri.»
Ma cosa c’entra Dick Fosbury con questo blog?
Mi capita spesso di raccontare la sua storia quando, durante le lezioni di psicologia nei corsi di formazione per allenatori e allenatrici, inizio a trattare il tema della divergenza e della creatività.
Solitamente chiedo: cosa sarebbe successo se Fosbury si fosse arreso di fronte al parere contrario di tutti? Allenatori, addetti ai lavori, tifosi…
Probabilmente nessun atleta ha cambiato uno sport quanto lui, eppure anche in altre discipline ci sono stati casi simili: l’“Axel” nel pattinaggio, lo “Yurchenko” nella ginnastica, il “rovescio a due mani” nel tennis…
Nonostante si dibatta a lungo sul nome del primo esecutore, pure nel calcio gli esempi non mancano: la “rovesciata” del cileno Ramon Unzaga e del brasiliano Leônidas, il “colpo di tacco” del leggendario cannoniere paraguaiano Arsenio Erico, il “tackle in scivolata” dell’uruguaiano Juan Alberto Schiaffino, la “Cruijff turn” del genio olandese, il “doppio passo” dell’argentino Pedro Calomino, il “cucchiaio” del cecoslovacco Antonín Panenka…
Oppure il “tiro a giro” di Arthur Friedenreich e del nostro Alessandro Del Piero, la “maledetta” di Juninho e Andrea Pirlo, la “punizione con le tre dita” di Roberto Carlos, la “rabona” di Ricardo Infante e Giovanni Roccotelli, la “bicicletta” di Vito Chimenti, la “Cuauhteminha” di Blanco, la “trivela” di Quaresma.
O ancora l’“elastico”, il “gol olimpico” direttamente da calcio d’angolo, lo “scorpione” …
Spero che i tecnici mi perdoneranno se, da non-tecnico, commetterò qualche errore di disamina, ma negli anni ho imparato da tanti di loro come alcuni straordinari interpreti abbiano rivoluzionato il proprio ruolo con il loro modo di stare in campo: dall’ungherese Nandor Hidegkuti, il primo “falso nove” della storia, al tedesco Franz Beckenbauer tra i difensori, o al suo connazionale Manuel Neuer per i portieri.
E arrivato a questo punto pongo una nuova questione a corsisti e corsiste: voi, come gestite la divergenza?
Ho avuto la fortuna di affrontare questo argomento proprio con l’editore di questo blog, Filippo Galli, che ne ha parlato in questi termini:
«Il talento è divergente, e la sfida più bella è quella con i talenti più difficili. La vicinanza ci ha fatto scoprire qualità che mai avremmo immaginato».
E ovviamente, ci sarebbe da aprire un discorso ancora più ampio, riflettendo su quanto, come allenatori e allenatrici, si può essere in grado di accogliere le innovazioni che provengono da colleghi e colleghe, e la trattazione potrebbe essere potenzialmente infinita.
Sia ben chiaro, questo non significa accettare acriticamente ogni gesto o comportamento dell’atleta, ma ritengo comunque importante mantenere un atteggiamento che sia il più possibile aperto e curioso. Con la flessibilità di chi può fare tesoro delle proprie esperienze pregresse senza esserne schiavo, privilegiando talvolta l’estetica e altre volte l’efficacia.
Perché, in certi casi, può emergere qualcosa di davvero straordinario. A questo proposito, mi permetto di prendere in prestito alcune parole che ho avuto modo di ascoltare in un altro contesto sportivo da Davide Mazzanti, il coach che ha portato la nazionale femminile italiana di pallavolo sul tetto d’Europa:
«Mi piace allenare per farmi sorprendere, non per arrivare a quello che mi aspetto».
La capacità di accogliere la divergenza può essere fondamentale per diversi motivi.
Innanzitutto, può esserci il rischio di perdersi i “Fosbury del domani”, che magari in futuro potranno superare ogni più rosea aspettativa, come lo stesso leggendario saltatore, da poco scomparso, ci ha ricordato:
«Fino al 1966 venivano a vedere i miei allenamenti, si divertivano e mi dicevano. “Bravo, bello da vedere, ma fuori da un circo non combinerai mai niente di buono”. Poi all’improvviso, tutto cambiò…».
Ma se i fenomeni capitano una volta su un milione, è anche vero che un atteggiamento simile può essere fondamentale, specialmente nel settore giovanile, per promuovere contesti inclusivi e gratificanti.
Dove la creatività possa essere sempre valorizzata.
E dove gli errori, che spesso ne conseguono, possano essere considerati come fondamentali occasioni di crescita.
BIBLIOGRAFIA
Eurosport.it: https://www.eurosport.it/atletica/rivoluzione-dick-fosbury-il-mito-che-ha-capovolto-il-salto-in-alto_sto9508333/story.shtml.
Ilpost.it: https://www.ilpost.it/2023/03/16/fosbury-innovazioni-sport/
La Gazzetta dello Sport: edizione del 14 Marzo 2023
Oregon Encyclopedia: https://www.oregonencyclopedia.org/articles/fosbury-richard/
Wikipedia.it: https://it.wikipedia.org/wiki/Salto_in_alto
BIO: MICHELE BISAGNI
Classe 1986, psicoterapeuta e psicologo dello sport.
Innamorato del pallone dall’indimenticabile doppietta di Baggio alla Nigeria, ai Mondiali di USA ‘94.
Collaboratore della FIGC per il Settore Giovanile Scolastico. Docente di Psicologia per i Corsi UEFA B, UEFA C, Licenza D e Level.