Non c’era il Var il 30 luglio 1966 a dirimere il più famoso caso di “goal non goal” della storia con cui l’Inghilterra piegò la Germania Ovest al termine della finale del campionato del mondo giocata a Wembley.
Non era consentito il 17 giugno 1970, durante i supplementari della semifinale mondiale Italia-Germania Ovest giocata a città del Messico e passata alla storia come “la partita del secolo”, un numero di sostituzioni o di “slot” pari a quello odierno per permettere ai calciatori infortunati di lasciare il posto ad un compagno.
E non c’erano i social e gli attuali mezzi di comunicazione a riportare le cronache di spogliatoio e di ritiro all’indomani del 22 giugno 1974, nefasta serata per i tedeschi occidentali sconfitti ad Amburgo dai “cugini poveri” della Germania Est durante una gara valevole per il girone eliminatorio della Coppa del Mondo che di lì a due settimane li avrebbe visti trionfare.
Lui, invece, c’era sempre. E sempre nella parte del protagonista.
Un protagonista nato, senza necessità di apparire tale. Senza atteggiamenti propri di chi protagonista vuole esserlo forzatamente.
Perché gli risultava naturale divenire il personaggio principale di ogni vicenda che lo vedeva partecipe.
Fu per queste doti che, quando ancora veniva schierato nel ruolo di centrocampista, incantò i reali inglesi sul prato di Wembley al termine di un mondiale giocato su livelli sublimi con un’eleganza e una raziocinio del tutto sconosciuti ai “medianacci” del tempo.
Quattro anni dopo riuscì ad apparire regale seppur con un braccio legato al collo, unico modo per rimanere in campo a seguito di un infortunio alla spalla che avrebbe compromesso la prestazione di chiunque ma non la sua. E nonostante la bendatura che lo limitava nei movimenti e nei contrasti, duellava con Rivera quanto ad eleganza, con Domenghini quanto a dinamismo e con De Sisti quanto a capacità di organizzare il gioco.
Nel 1974 prese lui il timone, rectius il comando, della propria nazionale dopo la sconfitta con la Germania Est; assunse di fatto il ruolo di CT e non si fece problemi a strillare i compagni, anche i suoi fidati del Bayern, al fine di indicar loro la via del trionfo.
La carriera calcistica di Franz Beckenabauer è quanto di più esemplare possa esservi per chi ricerca la qualità nel calcio.
Qualità come descritta in questo blog; ovvero non solo tecnica bensì l’insieme di situazioni atte a “qualificare” in positivo un calciatore in seno alla complessità del gioco del calcio.
Franz Beckenbauer ha rappresentato l’emblema delle capacità e delle conoscenze individuali funzionali al collettivo.
Non vi era nulla nei suoi gesti, nei suoi interventi, nelle sue scelte che non fosse finalizzato ad elevare il livello della squadra come non vi era alcuna sua giocata che non risultasse inserita in un contesto più ampio, forte di un pensiero sempre avanti rispetto a quello degli avversari, dei compagni e talvolta anche di chi lo allenava.
Assoluto protagonista dell’evento, come tutti i grandi campioni, aveva l’innata dote di dominare visivamente tutto il contesto che lo circondava.
L’eleganza da aristocratico dell’ottocento non ha rappresentato solo un esercizio di stile, bensì un modo di stare in campo che rapiva gli occhi dello spettatore e che fungeva da rassicurazione per i compagni, consci di poter contare su un elemento che incuteva rispetto e timore agli avversari solo per il fatto stesso di star loro di fronte.
L’educazione e la correttezza lo hanno accompagnato per tutta la carriera evidenziando un concetto caro a chi scrive secondo cui il talento per esprimersi ai massimi livelli non necessita forzatamente di “sregolatezza” ma può, anzi deve, inserirsi in un contesto di riferimento onde evitare di sconfinare nell’anarchia.
La tecnica individuale con cui condiva giocate per palati fini, non è mai risultata fine a se stessa. Rappresentava uno elemento cardine della sua qualità per quanto addizionata alla capacità di giocare con ambo i piedi che gli permetteva di non perdere, se non talvolta di anticipare, i tempi di gioco e, unita alla testa rigorosamente alta, gli ampliava i confini del terreno sul quale immaginava le giocate ed i movimenti di compagni ed avversari prima ancora che prendessero forma.
La razionalità, che non gli faceva difetto nemmeno nei momenti di maggior tensione, non lo faceva mai uscire dalla partita che controllava dal primo all’ultimo minuto, senza mai andare in affanno, conscio del fatto che i compagni di squadra traggono maggior vantaggio dall’avere a fianco un leader affidabile che sappia trascinarli fuori dai momenti bui piuttosto che un umorale dai nervi fragili. Coloro i quali sostengono che nell’essenza della razionalità vi sia una mancanza di emozioni, se lo riguardino mentre giocava e si chiedano se davvero Beckenabuaer non emozionasse le platee…
Le emozionava eccome; anzi, le rapiva.
Quanto al suo carisma, nessuno, nemmeno tra i suoi avversari interni, ne è stato immune.
Franz Beckenbauer poteva permettersi di essere autorevole senza assumere gesti autoritari. In grado di divulgare la propria dottrina calcistica oltre i confini delle proprie giocate, non ha mai necessitato di qualcuno che lo spalleggiasse o che lo sponsorizzasse. Di sicuro era meglio stare dalla sua parte che contro di lui ma il consenso di cui ha goduto, tanto in patria quanto fuori dai confini tedeschi, gli è sempre giunto addosso in maniera naturale, mai per forzature o per captatio benevolentiae
Sapeva essere anche spietato, sia chiaro, come i grandi decisionisti sanno fare ma solo e sempre allo scopo di fare la cosa giusta per la squadra.
E così durante gli anni trascorsi al Bayern lui, espressione della borghesia bavarese, tollerava il compagno maoista Paul Breitner con il quale non andava d’accordo su nulla riconoscendogli un valore da calciatore oltre la media.
Diversamente, in nazionale, fu causa indiretta dell’epurazione di un grande talento come Netzer, meravigliosa espressione del Borussia Moenchengladbach ovverosia di una visione del calcio e della vita troppo distante da quella che lui prediligeva.
Quando si capì che due personalità del genere erano portate al conflitto, divenne naturale comprendere quale delle due fosse destinata a lasciare la scena.
Beckenbauer è stato innovatore in tutto.
Nel modo di giocare, da libero “costruttore di gioco” nonché partecipe dello sviluppo dell’azione.
Nel modo di proporsi, attento ad ascoltare tutti anche se poi si faceva come decideva lui.
Nell’approccio alla professione che lo ha visto dare origine all’abitudine di farsi rappresentare da un procuratore e di vestire i panni del “calciatore azienda” prima ancora di Crujff.
Nella curiosità che lo ha portato a scegliere la grande mela newyorkese quale luogo statunitense in cui svernare a fine carriera, oltre che accompagnare Pelè nelle recite del soccer, con la differenza rispetto ad altri emigranti oltre oceano che, al termine del primo biennio di esperienza USA, il nostro faceva ritorno in patria per vincere un’altra Bundesliga militando nell‘Amburgo di Happel, trionfatore nella stagione 81-82 apripista del successo in Coppa dei Campioni nell’annata successiva in finale contro la Juventus dei 6 campioni del mondo oltre che di Boniek e Platini.
E quando la Germania uscì con le ossa rotte dall’Europeo 1984 a chi pensate abbiano chiesto di fare il CT? Poco importa se non aveva il patentino.
Pronti via ed è subito secondo al mondiale 86 con un gruppo, per alcuni a fine ciclo, piegato in finale dall’Argentina di Maradona e da un paio di errori poco usuali per un portiere come Schumacher.
Non si lasciò prendere dallo sconforto nel momento in cui venne eliminato in semifinale dall’Olanda in occasione dell’Europeo giocato in casa nell’88. Fece i complimenti a Van Basten mentre già pensava alla rivincita che puntualmente si prese due anni dopo a San Siro, annichilendo gli Orange molto più di quanto reciti il risultato finale di 2-1 in un ottavo di finale che altro non rappresentò se non la presa di coscienza che quella Germania era da mondiale
Non che Beckenbauer fosse un tecnico dal pensiero moderno o portato ad una proposta di calcio spettacolare, questo no! Era più un selezionatore che un allenatore. Ma la tranquillità che innervava nei suoi, dovuta al carisma ed al rispetto che gli si doveva, rappresentava una polizza da riscuotere per tutta la nazione.
Non era un mister da urli, preferiva dare indicazioni.
Magari pure banali, ma se te le dà Beckenabuer…
Se stai giocando e, guardando verso la tua panchina, vedi il Kaiser…eh… allora qualcosa di buono ti viene da fare.
Una squadra pragmatica si è detto della Germania del 1990 ed a ragione considerato come tra semifinale e finale non abbia segnato una rete su azione.
Ma mai refrattaria nei confronti del talento se è vero, come è vero, che ha sempre schierato contemporaneamente due attaccanti (Klinsmann e Voeller) e due mezze punte (Haessler e Littbarski). E quando in semifinale Voeller e Littbarski erano assenti il Kaiser li sostituì con due pari ruolo (Riedle e Thon) per non modificare un assetto oramai consolidato e per non dare agli avversari la sensazione che i suoi potessero temerli.
La parentesi da dirigente è stata più o meno sulla falsariga di quelle da calciatore e da allenatore.
Un’unica macchia si è palesata in occasione dell’assegnazione dei campionati del mondo 2006 alla Germania ma troppo lieve per sporcare la sua immagine.
Franz Beckenbauer è stato negli anni 70 al pari di Borg e di Alì un atleta destinato ad essere icona anche al di fuori del proprio contesto sportivo.
Ma se dovessimo trovargli un paragone extra calcio, nel suo essere elegante e corretto, raffinato ma non sregolato, l’unico che ci viene da scomodare è Roger Federer.
Nel momento in cui Andy Wharol lo ha ritratto ne ha certificato la gloria non semplice da raggiungere per un tedesco negli States.
E quando l‘Austria, nazione tanto vicina quanto rivale della Germania, ha adottato proprio quel ritratto per un francobollo nazionale, la grandezza del personaggio al di là delle fazioni è stata celebrata come meglio non si sarebbe potuto fare.
BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.