JOSÈ MOURINHO.

José Mourinho, ingaggiato nell’estate del 2021 dalla Roma affinchè potesse assurgere all’interno dell’ambiente capitolino quale inconfutabile condottiero volto ad instaurare una mentalità vincente che potesse travalicare gli angusti confini dell’Urbe e conseguentemente elevare i giallorossi a compagine competitiva quanto meno per conquistare abitualmente un posto in Champions League, ammaina il proprio vessillo dai monumenti della Città Eterna, abbandonando nuovamente, questa volta non per scelta propria, il nostro campionato.

Più volte in questa sede abbiamo rimarcato il nostro punto di vista, vale a dire che, pesando sulla bilancia diversi elementi e diversi fattori che avrebbero dovuto sancire quanto fruttifero fosse risultato l’approdo del tecnico portoghese sulla panchina della lupa, onestamente poco foriero di rimarchevole grandezza ci era sempre sembrato il cammino dello “special one”, al di là della diatriba sempiterna fra “giochisti” e “risutatisti”, una definizione per taluni aspetti notevolmente di spessore, per altri etichetta figlia della necessità di dover catalogare tutto, propria della mediocrità critica della modernità che tende a collocare scavalcando il contenuto.

Naturalmente, giusto per restare ancorati ad una tale diversificazione volta ad identificare le caratteristiche peculiari di un allenatore, Josè da Setubal rientra nel “girone infernale” di coloro che non prediligono l’aspetto estetico dello sviluppo del gioco, quasi avvertissero, costoro, una inconcepibile minore necessità di direzionare l’andamento di un incontro, di esprimere un calcio più dominante ed armonioso, al fin di innalzare i livelli del talento individuale all’interno di un collettivo identitario. 

Un aspetto che è indubbiamente appartenuto a Mourinho, apparso in diverse circostanze anacronistico, involuto, sommariamente assente nelle idee che tracciano un confine fra chi riesce a fare la differenza attraverso princìpi di gioco e chi si limita a sciorinare un calcio “torturato” dall’affermazione secondo la quale è “semplice” concepirne l’attuazione, oppositore della grandezza derivante dal coraggio e dalla bellezza, incapace di trarre il massimo da un gruppo di calciatori verosimilmente maggiormente più competitivi di quanto i due anni e mezzo dell’interregno di Josè possano narrare: con l’aggravante, altresì, di aver peccato nell’aspetto che maggiormente ha rappresentato nella sua carriera la ciliegina su una torta forse più che altro immaginata e mai realmente pienamente presente, ovvero la capacità di comunicare opportunamente sempre, con elevata e sottile enfasi intellettuale al fin di fungere contemporaneamente da riferimento unico nel bene e nel male e sollevare polveroni fuorvianti, declinando l’attenzione su tutto ciò che fosse al di là dell’espressione. 

Le squadre costruite per conquistare obiettivi ambiziosi (in alcuni casi non a livello assoluto ma soggettivamente, secondo il proprio progetto ed il piano di crescita) hanno assoluto bisogno di sfoderare prestazioni convincenti: minimalismo e “pragmatismo” condannano a restare inferiori a sé stessi, a non individuare mai realmente le proprie potenzialità, a non intuire ed esplicare mai profondamente le reali capacità di un gruppo. 

La Roma, nell’idea della proprietà, avrebbe dovuto, con Mourinho, effettuare quel salto di qualità attraverso il quale poter competere per obiettivi prestigiosi che, a onor del vero, avrebbero dovuto accostare i capitolini alle zone altissime della graduatoria, non già esclusivamente in ottica di nobiltà continentale: differentemente, per quale motivo mettere sotto contratto un allenatore dal lauto ingaggio se non per raggiungere risultati potenzialmente addirittura superiori al valore intrinseco del materiale umano a disposizione?

Da più parti si ascoltano attenuanti secondo le quali la Roma non avrebbe potuto fare di più di quanto consegnato agli almanacchi, motivo per il quale sorgono inevitabilmente constatazioni ed interrogazioni legittime e confacenti ad un’analisi immediata: lo scorso anno Spalletti, con una rosa il cui valore è probabilmente molto più vicino alle prove offerte nel corso di questa stagione, è riuscito a compiere un miracolo calcistico dai sapori infinitamente aulici conducendo il Napoli ad affossare per legittima superiorità un campionato sostanzialmente mai esistito in virtù dell’incredibile cammino partenopeo, ed altresì rendendosi protagonista di un percorso europeo maestosamente arricchito da successi roboanti come quelli sul Liverpool vice campione, sull’Ajax, sull’Eintracht detentore dell’Europa League; Sarri ha condotto una Lazio di sicuro non superiore alla Roma per bontà dell’organico ad un secondo posto sfavillante, Pioli, nel torneo precedente, era riuscito a plasmare un Milan da titolo acquisendo e facendo acquisire prerogative concettuali indispensabili per il calcio moderno. 

Or dunque, perché ciò non è riuscito ad una Roma che addirittura annovera alcune individualità di caratura oggettivamente appartenente alle primissime categorie quanto a suddivisione del valore individuale? 

Taluni si soffermano sull’impossibilità ad avere avuto perennemente a disposizione alcuni elementi fondamentali: a chi non è toccata questa sorte? Napoli e Lazio hanno dovuto lo scorso anno fare a meno di Osimhen ed Immobile per diversi mesi, senza intaccare l’identità di gioco e la continuità di prestazioni e risultati. 

Inoltre, se, tirando le somme, un allenatore è semplicemente “capace” di condurre la propria formazione ad occupare la posizione di classifica facilmente preliminarmente supponibile quale traguardo minimo, che bisogno ci sarebbe di sceglierlo e di pagarlo lautamente? Per apportare cosa? Per rendersi protagonista di una conduzione tecnica minimalista che approda ad un inevitabile minimalismo concettuale, prestazionale, di classifica?

La tendenza è stata tentare di abituare l’ambiente a rendere legittimo supporre e lasciar supporre che l’unico modo per esprimersi fosse primariamente pensare di non pensare, limitare il potenziale della propria squadra, instillare l’idea che si fosse “costretti” a praticare un certo tipo di calcio, svilendo i calciatori a propria disposizione, con la conseguenza che fare ciò che avrebbe dovuto corrispondere alla normalità assumesse i contorni dello straordinario, di un risultato sportivo visto come il limite massimo cui potersi spingere, poiché diabolicamente intenti ad abbassare il livello dell’aspettativa. 

Da cui l’imperdonabile responsabilità di rinunciare a fare calcio pur avendo qualità in rosa, accantonata a favore di un illogico ed oltremodo ricercato difensivismo, senza dare la possibilità di realizzarsi a giocatori differentemente esaltati in altri contesti da allenatori diversi.

Le squadre così allenate perdono la consapevolezza dei propri apici, perdono la sensazione di una competitività tranquillamente alla portata, foriera di felicità individuale; al di sotto delle aspettative, dei propri valori, dello spettacolo moderno del calcio globale: alcune guide tecniche sono lo specchio di una nobiltà decadente che specula e non decide, che subisce e non domina, protagonisti di un calcio che non c’è più o più semplicemente non c’è. La Roma ha navigato fra l’incompiutezza della propria espressione calcistica ed un’inconcepibile inadeguatezza temperamentale: il progetto non è mai decollato, gli obiettivi perennemente declassati, rivisti al ribasso dal proprio timoniere, fuori luogo ( lo sfogo dopo le sei reti subite in Norvegia contro Il Bodo Glimt o la “questione Karsdorp” sono istantanee dialettiche quanto mai significative ed emblematiche), dialetticamente disastroso, “bellicoso” a livello atmosferico in panchina in qualsivoglia incontro, più volte squalificato. 

In più circostanze, indipendentemente dagli interpreti, bisognava innalzare il livello espressivo di una squadra che può contare su elementi tecnicamente molto validi e predisposti ad una proposta superiore. 

I Friedkin non hanno voluto continuare a compiere l’errore di consolidare l’idea, svilente e paradossale, di ridimensionare l’ambizione, sportiva ed economica, accettando di non disputare la Champions League, costringendosi ad avallare il gioco al ribasso delle proprie potenzialità. 

La cronistoria narra di un sesto e di un settimo posto (nella graduatoria ufficiale la Roma è sesta lo scorso anno esclusivamente in virtù della penalizzazione inflitta alla Juventus) nei due campionati portati a termine da Mourinho: l’esonero è giunto con la Roma addirittura nona ed inequivocabilmente coinvolta nei soliti limiti di espressione, in una stagione in cui, al terzo anno della stessa conduzione tecnica, la compagine giallorossa avrebbe dovuto essere molto più vicina a quelle posizioni categoricamente da frequentare per l’intero arco della stagione.

Migliorare la qualità della rosa senza migliorare gioco e risultati, proseguendo nella distruzione dialettica e gestionale, ha significato certificare un fallimento tecnico che non può minimamente godere delle attenuanti rappresentate dal successo in Conference League ( competizione onestamente alla portata ) e dalla finale di Europa League, seppur rilevante ma figlia di un cammino discutibile con l’apoteosi rappresentata dalla gara di ritorno contro il Bayer Leverkusen, semplicemente complessivamente deludente.

A dirla tutta, dopo il “triplete” con l’Inter ( vera vetta apicale della carriera di Mourinho, precedentemente capace di vincere una Coppa UEFA ed una Champions con il Porto nel 2004, in un’edizione “morbida” con il suicidio del Milan in quel di La Coruna e l’approdo in semifinale dello stesso Deportivo, del primo Chelsea ancora parzialmente competitivo e del Monaco, poi sconfitto in finale), Mourinho non ha particolarmente brillato a Madrid, pur vincendo una Liga, al Chelsea, con la risoluzione consensuale del contratto, allo United ( ove vinse una Europa League da “retrocesso” dai gironi di Champions) esonerato nel dicembre del 2018, fino al Tottenham, esonerato nell’aprile del 2021.

La sensazione è che la parabola di Josè volga inevitabilmente al tramonto.

BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.

2 risposte

  1. Senta…io non so se Mourinho sia capace di comunicare, ancorché io ritenga di sì ed in modo efficace assai. Ciò di cui sono sicuro è che nulla ho compreso delle Sue riflessioni in questo articolo.

    1. Salve a Lei, mi spiace non abbia compreso il contenuto, onestamente esprime chiaramente i concetti espressi, in alcune circostanze anche con punti di domanda decisamente immediati. La mia idea è che per quelli che avrebbero dovuto essere i programmi da seguire nelle direttive della società, nonché obiettivi da raggiungere, l’operato di Mourinho è al di sotto delle richieste ma, per quanto mi riguarda, non al di sotto delle aspettative, dato che immaginavo ampiamente, considerando le peculiarità di Mourinho, che le cose andassero come poi sono andate (ciò affermato in tempi non sospetti, già ai primordi). Detto ciò la ringrazio di aver visitato il blog, essersi soffermato sul pezzo e aver interagito. Buona domenica.

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