Gigi Riva, cannoniere principe della nazionale italiana con 35 reti in appena 42 presenze fra il 1965 ed il 1974, è stato non solo uno dei migliori attaccanti della storia del calcio continentale, dotato di un mancino potente e preciso, ma, soprattutto, un’icona romanzata di un calcio d’altri tempi, capace di raccontare favole irripetibili come lo storico scudetto conquistato dal Cagliari nel 1970, allorquando l’Italia di Ferruccio Valcareggi, di Albertosi e Rosato, Burgnich e Facchetti, Domenghini e Boninsegna, dell’incredibilmente tutto nostrano dualismo Rivera-Mazzola, e, per l’appunto di Gigi Riva, fu suo malgrado costretta ad inchinarsi dinanzi al Brasile di Pelé, all’Azteca di Città del Messico, nell’atto conclusivo della Coppa del Mondo, perdendo, assieme alla finale, la possibilità di custodire per sempre la Coppa Rimet.
Un legame inscindibile quello fra la Sardegna e “rombo di tuono” (epiteto per lui coniato da Gianni Brera), suggellato da un amore che ha spinto il figlio prediletto a non abbandonare l’isola neppure al richiamo delle sirene torinesi e milanesi.
Quattordici anni in rossoblù, a difendere una terra ed uno stemma oltremodo identitari: un amore unico, una storia irripetibile, un connubio romantico e viscerale che travalica qualsivoglia propensione volta a comprendere ciò che poteva essere vissuto, assaporato, interiorizzato esclusivamente in prima persona, per emozioni, vibrazioni, sapori, odori, empatia, impatto epidermico.
Riva indossava la Sardegna, in una fusione che è oltre il primordiale concetto di simbiosi, è pura sintesi, è apoteosi nel più puro aspetto concettuale, vale a dire ascesa al cielo di un eroe da divinizzare. Un ragazzo, ben presto uomo per difficili condizioni familiari, ragazzo nel decennio durante il quale si è creato per l’eternità il concetto di gioventù, che dal varesotto, luogo natio, non può sapere ancora quanto la sua vita sia destinata ad essere trascorsa oltrepassando non solo il Lago Maggiore e l’Appennino, ma anche le coste occidentali della terraferma: dal Legnano, ove esordì in Serie C (in gol contro l’Ivrea), al Cagliari di Arturo Silvestri. Il motivo? Oltremodo bizzarro. Per limitare il numero di viaggi, limitando le spese, la compagine rossoblù era solita all’epoca affrontare alternativamente due partite casalinghe e altrettante in trasferta: la base strategica dell’insediamento sardo durante il perdurare della permanenza logistica dettata dagli impegni preventivamente fissati era rappresentata da Legnano. Gigi non potè che essere notato dagli uomini appartenenti alla società.
Dopo l’esordio in cadetteria, la Serie A: con nove reti permise al Cagliari, nel 1965, di mantenere la categoria e, due anni più tardi, si laureò capocannoniere con 18 marcature. Non pago delle proprie gesta Riva replicò e triplicò il primato nelle stagioni che condussero gli isolani prima al secondo posto al pari del Milan nella stagione del secondo scudetto della Fiorentina e, maestoso a dirsi, al titolo nell’annata 1969-70: Mancin, Poli, Domenghini, Gori, Albertosi, Cera, Niccolai, Manlio Scopigno allenatore.
Quarantacinque punti, quattro lunghezze di vantaggio sull’Inter, sette sulla Juventus. Un’isola che domina la penisola, un condottiero lombardo per le istituzioni ma sardo per le contemporanee e future generazioni che colleziona scalpi dall’Alpi alla Sicilia, dal Po all’Arno.
Impetuoso, potente, a tratti devastante, con una personalità esponenzialmente senza limiti ma primordialmente ferita dall’assenza di una famiglia nella sua accezione più compiuta: in cuor suo, nell’intimità più recondita e custodita, Gigi, il ragazzo presto uomo, non cercava altro che casa. Verosimilmente non avrebbe potuto immaginare che il focolare domestico ardentemente desiderato potesse corrispondere ad un intero reame in cui potersi elevare, seppur primus inter pares, al rango di Re.
Un intero mondo, difficile per orografia, graffiante nei lineamenti dipinti sui volti, solcato da millanta storie, linguisticamente unico per derivazione, parimenti così affascinante da essere definito da uno dei maggiori esponenti del Novecento, Fabrizio De Andrè, come “luogo dove invecchiare”, totalmente lui devoto.
“Foreste, campagne, coste immerse in un mare miracoloso coincidente con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso” le parole del cantautore e poeta genovese, un genio purissimo, un animo troppo profondo per essere pienamente e compiutamente esplorato, neanche lontanamente scalfito dal sequestro subìto nel 1979. Un animo accostabile a Gigi, per ricchezza e sensibilità.
Campione d’Europa nel 1968, autografando la prima delle due reti che consentirono all’Italia di battere la Jugoslavia e di assurgere ad apice continentale. Che poi, cosa volete che importasse ad un uomo in tal modo nell’essenza costituitosi di vaneggiare l’orizzonte di terre lontane. Cosa volete scaturisse dalla vittoria internazionale. Gloria mercenaria? Ricerca vacua di fama che lo avrebbe costretto ad abbandonare l’indole taciturna e schiva, la saggezza dell’ascolto delle proprie sensazioni? Parole dosate. Sempre. Come negli Stati Uniti con Baggio. Signorilità, correttezza, eleganza comportamentale.
Di un calcio che fu. Di uomini che furono e sono in sempre minore quantità. Speriamo avesse ragione De Andrè: che il Paradiso sia una replica della Sardegna e che Riva continui ad essere Gigi, a casa sua.
BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.
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