CESAR LUIS MENOTTI: “EL FLACO”

(1938-2024) Tango and Rock and Roll

Il 26 giugno 1974 è destinata a rimanere una data storica per il football argentino.
Una data che rappresenta il punto più basso e, come spesso accade, allo stesso tempo segna l’inizio di una nuova era per un paese che affida i propri sogni al pallone che rotola sul prato verde.

 Allo spirare di un pomeriggio di fine giugno  in quel di Gelsenkirchen si scrive l’epitaffio del calcio argentino che fu.

 A ratificarlo la meravigliosa Olanda di Rinus Michels.

Tutti i limiti della scuola latinoamericana si palesano davanti al dinamismo, all’occupazione degli spazi e alla perfezione dei tempi di gioco degli orange.

Il calcio argentino si scopre vecchio, inadeguato: in una sola parola “superato”.

La presunzione di saperne più di tutti in ambito calcistico unita al gap di evoluzione strategica che le squadre sudamericane scontano rispetto a quelle europee ha prodotto un divario in termini di risultato e di spettacolo che la federazione non più tollera

Anche perchè la prossima coppa del mondo si giocherà proprio nel paese della Pampa.

 L’intuizione dei vertici federali è quella di comprendere che, prima ancora che la qualità dei singoli calciatori, sono i principi di gioco a necessitare di una corposa rielaborazione.

 La scelta del commissario tecnico dovrà essere improntata a dare un nuovo volto alla nazionale, che avrà davanti a sé un quadriennio per rinnovarsi e recuperare una credibilità ed una competitivtà ad alti livelli.

Competitività venuta meno nell’ultimo ventennio che ha visto i rivali brasiliani salire tre volte sul tetto del mondo e, successivamente, l’ascesa di grandi nazionali europee come Inghilterra, Germana Ovest ed Olanda.

La scelta non può che ricadere sul tecnico più moderno d’Argentina, quel Cesar Luis Menotti che ha portato l‘Huracan alla conquista del campionato nazionale nel 1973, interrompendo un digiuno di titoli che durava da 45 anni.

Non è l’allenatore più titolato e nemmeno il più esperto.

Ciò che conta sono le sue idee. Progressiste dentro e fuori dal campo.

In un momento storico complesso per il paese, in cui Peron è tornato (anche se brevemente) al potere senza tuttavia stabilizzare la situazione, inizia un nuovo corso in ambito calcistico.

Con Menotti c’è la svolta.

E’ il primo tecnico che, anziché operare in seno al conservatorismo di chi si crede il migliore, guarda fuori dai propri confini.

Luis Cesar Menotti

Anche lui, come molti, è rimasto colpito dall’Olanda che ha distrutto l’Albiceleste ma la sua attenzione, prima ancora che sulle giocate di classe di Crujff o sui disegni cerebrali di Van Hanegem, si è posata sulla condizione atletica e sulla ricerca dello spazio.

Ha capito che uno dei segreti dell’Olanda non è la fisicità ma l’atletismo.

Non gli interessa avere dei giganti bensì dei calciatori con elevata capacità aerobica, caratteristica rara negli argentini del tempo avvezzi piuttosto alle triangolazioni sul corto, da svolgere a basso ritmo in attesa della giocata dirimente in fase offensiva.

Vedendo giocare Neeskens, Menotti comprende l’importanza del giocatore box to box, sconosciuto in patria dai tempi di Alfredo Di Stefano.

La sua idea di calcio esce dai confini del cosiddetto “metodo”,  il sistema di gioco in voga da decenni nel Sudamerica, identificabile secondo la formula WW, in cui i terzini si posizionavano più avanti rispetto ai difensori centrali e il gioco transitava giocoforza per il volante (o volano) schierato a protezione della difesa con il numero 5.

Idee progressiste di un uomo che tende a guardare fuori dai confini di casa propria, dicevamo.

Ma chi è Cesar Luis Menotti

E’ un ex calciatore con qualche apparizione in nazionale, che ha deciso di trascorrere la fase conclusiva della carriera all’estero. Prima negli Stati Uniti e poi nel Santos, il club di Pelè, ossia il calciatore che più di tutti lo ha ispirato, in compagnia del quale trascorrerà diverse serate a Manhattan quando quest’ultimo si accaserà ai Cosmos e Menotti, che non disdegna la vita newyorkese, andrà a trovare spesso e volentieri

L’aspetto sarà una parte importante del suo successo, non solo nei confronti delle donne.   Portamento regale su fisico asciutto, da qui il soprannome “El Flaco”, porta in dote un’innata bellezza da playboy a cui, per non farsi mancare nulla, vanno aggiunti uno spiccato intelletto e un fascino da nobiluomo dalle vedute moderne.

 Iconiche rimarranno alcune immagini che lo ritraggono in doppiopetto nelle uscite ufficiali in cui non lascia nulla al caso o a dorso nudo durante gli allenamenti, incapace di scrollarsi di dosso quella componente di vanità che lo caratterizzerà per tutta l’esistenza.

Vuole arrivare al mondiale di casa con una squadra giovane, dinamica e offensiva.

Il gruppo del 74 verrà smembrato quasi del tutto.

Sceglierà da lì in avanti i calciatori secondo le caratteristiche che ritiene adatte al suo modo di intendere calcio e, ironia della sorte, consegnerà le chiavi della squadra a quello più distante da lui per idee e simpatie politiche.

I ritmi bassi del “metodo”, piano piano, lasciano il posto a giocatori con una gamba più dinamica

Il calcio argentino degli anni 70, tuttavia, non vive ancora i fasti dei grandi centravanti dei decenni successivi (Batistuta, Crespo, Milito, Higuain).

Davanti si gioca con le punte larghe e l’enganche.

Menotti non vuole inizialmente mdificare questo status ma pretende centrocampisti diversi.

E’ in mezzo al campo che le cose devono cambiare.

Amerigo Gallego e, soprattutto, Osvaldo Ardiles saranno i suoi discepoli prediletti con quest’ultimo a rappresentare il vero elemento di innovazione e distacco dal passato ovvero il centrocampista dalla doppia fase.

Gallego e Ardiles, giocatori fondamentali dell’Argentina ’78

Eccellente sia in interdizione che in impostazione, capace di inserirsi e di attaccare la porta avversaria oltre che abile nel dispensare assist, il centrocampista di Cordoba è un autentico maestro nel non perdere  tempi di gioco oltre che nel giocare con ambo i piedi e nel portare il pressing.

Uno così potrebbe tranquillamente ben figurare nel calcio di oggi!

Il primo biennio serve a Menotti per scegliere i “suoi giocatori” e cominciare a plasmare prima il gruppo e poi la squadra.

Due controindicazioni, tuttavia, paiono minare il suo percorso.

La prima è di natura politico-sociale poichè nel 1976 la dittatura militare prende il potere e con un mondiale da giocare in casa, con tanto di propaganda ad esso connessa, un commissario tecnico di spiccate idee progressiste potrebbe nuocere all’immagine governativa.

Una dittatura che “si rispetti”, tuttavia, non ha mai disdegnato di utilizzare lo sport quale mezzo di “promozione”.

Nemmeno i militari argentini vengono meno a questa regola perchè comprendono che con El Flaco alla guida le possibilità di vittoria nel “mundial” di casa sono sicuramente maggiori.

Il secondo impiccio è dato dal fatto che a meno di un anno dalla rassegna iridata Jorge Garrascosa, capitano della Seleccion non ancora trentenne, decide di dare l’addio alla nazionale.

Qualche maligno osserva che le idee di Garrascosa collidono con quelle del Generale Videla, salito al potere a capo della dittatura militare, e che l’abbandono sarebbe dovuto a motivi ideologici.         

Sarà lo stesso calciatore a dissipare i dubbi adducendo motivazioni meramente personali che nulla hanno a che vedere con l’aspetto politico.

Al di là dei motivi che tolgono Garrascosa dai giochi, il problema è di non poco conto perchè privare di una guida un gruppo giovane come quello creato da Menotti può risultare deleterio.

Ed è qui che il tecnico di Rosario dimostra la sua grandezza.

E’ consapevole di come tra i suoi giovani ve ne sia uno con il piglio del condottiero, un leader di natura. Uno nato per comandare, da qui il soprannome “El Caudillo”, con un sinistro dirompente come il suo modo di interpretare la figura del libero.

L’atteggiamento ribaldo, talvolta intimidatorio, è il suo modo di segnare il territorio.

Qui comando io” sembra voler dire.

 Si chiama Daniel Alberto Passarella.

Daniel Passarella, leader dell’Argentina di Menotti nel Mondiale del ’78

Di chiare origini italiane come Menotti sarà il suo riferimento in campo. Due più diversi tra loro non si possono trovare.

Non hanno una caratteristica in comune, le loro idee politiche sono agli antipodi come i rispettivi tratti caratteriali eppure alla magia dello sport e del calcio riesce non solo di farli coesistere ma di farli spendere l’uno per l’altro.

Se Ardiles è l’anima tecnica, Passarella è quella caratteriale.

Menotti gli consegna la fascia di capitano a soli 23 anni. Mai scelta si rivelerà più azzeccata.

Come sia andato il Mondiale del 78 è storia.

Ad oltre quarantacinque anni di distanza si continua a parlare delle pressioni di esponenti importanti a livello internazionale, della sconfitta “annunciata” del Perù (sepolto di reti da Kempes e compagni con la complicità del portiere Quiroga), di un arbitraggio troppo casalingo da parte di Gonnella nella finale che, ironia della sorte, vede l’Argentina sconfiggere la nazionale che quattro anni prima ne aveva evidenziato limiti e criticità.

Spesso per rimarcare le storture del regime militare si è tolto merito ai calciatori argentini ma, oltre ai suddetti Ardiles e Passarella, gente come Bertoni, Tarantini, Kempes, Houseman vanta carriere di altissimo prestigio.

E poi Fillol, portiere di grande affidabilità che Menotti promuove a titolare, stanco delle “follie” del predecessore Gatti.

Una sola sconfitta contro l’Italia al Monumental di Baires, in una gara dal risultato ininfluente, apre tuttavia una ferita in Menotti mai vincente contro Enzo Bearzot.

Il tecnico friulano lo sconfiggerà nuovamente alla guida del Resto del Mondo, ad un anno esatto dal trionfo del 78 in quella che doveva essere un’amichevole e si trasforma in corrida, dopo avergli imposto un pari sempre in amichevole a Roma e ne decreterà la fine dell’avventura da CT passando sopra ciò che rimane degli argentini a quattro anni dal trionfo di casa nel meraviglioso (per noi italiani) pomeriggio del Sarria.

Quello che ha fatto Menotti, tuttavia, dev’essere valutato al di là della vittoria nel mondi

El Flaco è riuscito a far sognare un popolo che stava vivendo il peggiore degli incubi.

Intramezzava le sue riunioni tattiche con riferimenti alla capacità di sognare, l’unica attitudine rimasta in quegli anni ad una nazione che da sempre demanda al pallone la funzione di riabilitare una realtà sociale schiacciata tra privazioni civili e disastri economici.

Chi gli rimprovera di aver stretto la mano a Videla davanti alla Coppa appena conquistata, dovrebbe pensare al contesto del momento. Che cosa avrebbe dovuto fare Menotti? Voleva un momento di gioia per la gente non per i governanti. Ha lavorato per anni per dare dignità, non solo calcistica, al suo popolo e si è sempre distino per coerenza.

Calcisticamente ha sempre cercato di migliorare e di progredire conscio che “squadra che vince non si cambia” altro non rappresenti se non un luogo comune da abbattere.

Talvolta la sua voglia di guardare oltre lo ha tradito come in preparazione al mondiale 82 quando inserisce nella squadra di quattro anni prima, di per sé offensiva, la classe di Maradona e il senso del goal di Ramon Diaz.

Maradona e Menotti

Menotti in Spagna schiera quattro difensori, i suoi pretoriani Ardiles e Gallego in mezzo al campo e da destra a sinistra Bertoni, Maradona e Kempes dietro a Diaz in una sorta di sistema 14231 per l’epoca troppo azzardato.

Sarà  Guy Thys, genio del male belga, ad approfittare degli spazi che si creano tra le linee di una squadra sbilanciata e sgangherata nella partita inaugurale, lasciando che prima l’Italia e poi il Brasile completino l’opera di disfacimento di una nazionale arrivata in Spagna a poche settimane dal maldestro e penoso tentativo di conquistare le allora isole Falkland, ultimo e grottesco atto di un regime, non più capace di mantenere l’ordine interno, che tenta di ricompattare il paese inventandosi una guerra impossibile da combattere contro le truppe inglesi.

L’Argentina 82 appare una squadra allo sbando come la nazione che rappresenta.

El Flaco lascia dopo 8 anni e riprende ad allenare i club.

Proverà anche l’esperienza italiana alla guida di una Sampdoria nemmeno lontana parente di quella degli anni precedenti ma gli verrà da subito eccepita una fase difensiva troppo allegra.

I calciatori da lui allenati saranno concordi nel dipingerlo come un uomo intento a guardare in avanti, nel tentativo di combinare i sogni con la realtà, sempre a petto in fuori.

Tornerà nuovamente alle dipendenze della federcalcio argentina, ancora all’indomani di un disastroso campionato del mondo, quello del 2018. Gli verrà affidato il ruolo di Direttore Tecnico delle nazionali dell’Argentina e sarà parte attiva e molto ascoltata nel gruppo che trionferà a Qatar 2022

Non verrà dimenticato Cesar Luis Menotti dagli amanti del football e dal suo popolo, posizionato com’è nel podio dei migliori CT argentini di sempre insieme a Carlos Bilardo e Marcelo Bielsa anche se portato naturalmente a spostarsi verso il secondo…

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

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