“Passi la settimana a preparare la partita in un modo, poi vai in campo e ti accorgi che l’allenatore avversario ha stravolto modulo e tattica della sua squadra. Solo in Italia accade questo: negli altri campionati europei ognuno gioca quasi sempre alla stessa maniera, cambiano solo uno o due dettagli”.
La difficoltà di allenare nel nostro Paese è molto ben riassunta nella confidenza che tempo fa un tecnico fece a un dirigente durante il riscaldamento pre-gara. I nostri uomini della panchina sono strateghi, abilissimi nel cambiare le carte in tavola, mescolando e ridisegnando schemi: questo spiega in buona parte le ragioni per cui – con squadre decisamente inferiori, almeno secondo opinionisti e bookmakers… – in questi ultimi 3 anni abbiamo portato la Roma, la Fiorentina, l’Atalanta, l’Inter e il Milan in finale o alla soglia di finali europee assolutamente fuori pronostico.
Roma e Atalanta hanno pure vinto! Ed è forse un po’ anche questa la ragione per cui, da quando sono nato – boomer doc del 1961 – in Italia ho visto vincere lo scudetto solo da 5 stranieri: Helenio Herrera, Nils Liedholm, Vujadin Boškov, Sven Goran Eriksson, José Mourinho.
Un Mondiale per club lo vinse Rafa Benitez, ma fu esonerato dall’Inter di Moratti la notte stessa di quel successo…Il calcio di HH (Helenio Herrera) era basato sulla comunicazione e sulla psicologia: inculcava nei giocatori l’ossessione per la fiducia nei propri mezzi, aveva pochi e chiari concetti basati quasi esclusivamente sul catenaccio e sul contropiede, usava l’aggressività nelle espressioni e nella sua idea di gioco.
Il suo slogan più famoso fu, non a caso, “Taca la bala”, una traduzione un po’ maccheronica del francese “Attaquez le ballon” tanto che alla lettera, la traduzione in italiano non sarebbe “Attacca la palla” (prima versione strategica del pressing), ma “Affronta il proiettile” che comunque rende bene la filosofia herreriana.Ho conosciuto un Helenio completamente trasformato negli studi televisivi di Mediaset, molti anni dopo il suo ciclo straordinario in nerazzurro: era ironico e disincantato, politicamente scorrettissimo e simpaticissimo. Lui, che amava essere amato e temuto, attaccava continuamente cartelli motivazionali negli spogliatoi, sollecitava i tifosi allo stadio perché sostenessero continuamente la squadra, meticoloso lavoratore e osservatore prendeva appunti in continuazione: leggete bene quanto fu innovatore rispetto ad abitudini consolidate del calcio moderno. La sua fama di catenacciaro non gli impedì di esaltare talenti offensivi come quelli di Mazzola, Jair, Peirò e il magnifico Luis Suarez, benché non amasse Mario Corso che però fu per sempre il beiamino di Angelo Moratti che ne impedì la cessione – richiesta da Helenio – almeno in un paio di occasioni.
Nils Liedholm era esattamente agli antipodi, come carattere, modi, idee e filosofia di gioco. Nel 1961, dopo aver smesso di giocare all’età di 39, il Barone iniziò la sua brillante carriera da allenatore: Le squadre da lui allenate furono il Milan, il Verona con cui ottenne la promozione in serie A, il Monza, il Varese con cui ottenne un’altra promozione in A, la Fiorentina con cui perse una finale di Mitropa e una di Coppa Anglo-Italiana). Vinse 2 scudetti (Milan 1979, Roma 1983) e con i giallorossi arrivò in finale in Coppa dei Campioni nel 1984, perdendo all’Olimpico contro il Liverpool ai rigori. Vinse anche 3 Coppa Italia (1980,1981 e 1984). Importò in Italia la “zona”, che sradicava la marcatura uomo a uomo privilegiando il presidio degli spazi con e senza palla.
Ha sempre finto di non conoscere a fondo la nostra lingua per potersi esprimere con la sua ironia, i suoi doppi sensi che spiazzavano spesso l’interlocutore. Diceva di essere stato un campione di molti sport in gioventù e di essersi avvicinato al calcio per curiosità, avendo vinto tutto nelle altre discipline… Un ego forse pari a quella di HH, ma trasmessa decisamente con opposta sottigliezza. Gli chiesi, durante l’imperversare del Ma.Gi.Ca a Napoli (Maradona Giordano Careca): “Qual è stato il trio d’attacco più forte di tutti i tempi?”. Mi rispose: “Charles Martino Praest della Juventus”. Sorpreso, ribattei: “Pensavo mi avrebbe detto il Gre-No-Li del Milan, Gren Nordahl Liedholm!”. Sorrise: “Tu chiesto trio attacco, noi forti tutto campo”. Gli chiesi un’altra volta quale fosse stata la squadra più forte di ogni tempo, mi disse: “La Svezia del ’58 (Svesia scinquantoto)”. Osservai: “Ma perse la finale Mondiale contro il Brasile della stella nascente Pelè!”. Sorrise di nuovo: “Io uscito prima”.
Le testimonianze di alcuni campioni come Chicco Evani e Pietro Vierchowod raccontano di uno Sven Goran Eriksson silenzioso e pacato, incline a lasciare grande libertà ai giocatori in campo e fuori, responsabilizzando la loro professionalità attraverso il silenzio e le indicazioni tattiche. Prediligeva il calcio all’inglese, un 4-4-2 trasformato nel tempo in un 4-5-1, moduli basati su squadre molto “corte”, fitte ragnatele di passaggi, pressing e improvvisi lampi sulle fasce, privilegiando spesso la fisicità dei suoi atleti. Ha vinto lo scudetto con la Lazio nel 2000 e, sempre con questo club, 2 Coppe Italia, una Supercoppa italiana, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa. Moltissimi altri trofei con altri club in una carriera interminabile tra club e Nazionali. Di recente ha confessato di essere stato colpito da un grave tumore terminale, “ma ho ancora molta voglia di vivere”, ed è stato accolto e festeggiato a Genova dai tifosi della Sampdoria (dove allenò 5 anni dal 1992) e della Lazio. Porterò nel cuore alcune interviste per Sport Mediaset, una in particolare in estate a Bogliasco – alla vigilia del campionato – in cui il calcio fu solo marginale.
Di José Mourinho è quasi inutile scrivere. Un Herrera moderno, nei modi e nelle idee calcistiche, istrionico e provocatorio, che ho avuto il piacere di intervistare da allenatore del Chelsea prima e del Real Madrid poi. All’Inter dal 2008 al 2010 vince 2 scudetti e riporta in nerazzurro la Coppa dei Campioni dopo 45 anni. Il ritorno alla Roma nelle ultime stagioni è stato discusso e controverso, ma non lo ha esentato dal riportare nella Capitale un trofeo internazionale, la Conference League del 2022, 50 anni dopo la Coppa Anglo-Italiana e addirittura 61 anni dopo la Coppa delle Fiere. Famoso per la platealità delle sue proteste, delle sue esultanze, delle sue esternazioni, resta uno dei tecnici più vincenti dell’era moderna.
BIO: Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.