L’OVVIETÀ CELATA DELLA REAL…TÀ

E’ andata esattamente come doveva andare, secondo un copione incredibilmente preliminarmente immaginato ancor prima di essere visto, constatato e degustato. In quel di Wembley, ove il Real mai aveva innalzato il suo vessillo, nel tempio più idoneo ad ospitare l’ennesima firma degli dei, nel luogo dove mito e leggenda si fondono per antonomasia e non solo per questioni squisitamente calcistiche, è andata come la maggior parte degli appassionati di quell’astruso meccanismo denominato football, sorto un secolo e mezzo fa proprio nei territori britannici, si aspettava andasse.

E già questo, nelle modalità, è istantanea incontrovertibile di verità ed estrema sintesi concettuale di questo enunciato. Il Real fa sua la Coppa dei Campioni, la quindicesima di un’epopea che affonda le radici all’illuminarsi del chiarore del crepuscolo dell’alba della più importante manifestazione continentale, allorquando la Casablanca, all’epoca non ancora ulteriormente abbellita di gloria eterna, annaspava fra i confini iberici alle spalle di Barcellona e Athletic Bilbao.

Una prima congiunzione temporale che sancisce, altresì decretando immediatamente ed impedendo che ci sia margine per far sì che la supremazia potesse in futuro essere sovvertita, quanto il connubio scritto in qualsivoglia angolo di sovranità ultraterrena fra il Madrid e il più illustre feticcio sportivo dovesse risultare indelebile ed inattaccabile, indiscutibile, inespugnabile. Oltre ogni logica sportiva ed agonistica.

Le prime cinque coppe sollevate al cielo d’Europa dalle “merengues” tracciano un solco che affossa velleità ancor prima che la competitività sportiva possa consegnare opportunità. Fosse sorta nel decennio precedente, probabilmente parleremmo del Torino alla stregua della società spagnola. Già, congiunzioni. Fato avverso o favorevole. Il Benfica e le milanesi provano ad opporsi ad un destino la cui stesura non può, però, essere modificata.

Arriva la sesta nel 1966. Successivamente, quasi forze occulte di natura fatale diametralmente opposte alle redini stabilite degli eventi prendessero il sopravvento, una voragine storica di 32 anni durante i quali il Madrid è colpevolmente assente dal palcoscenico continentale: una sola finale disputata nella competizione sorta perchè il Real fosse destinato a diventare ciò che avrebbe dovuto essere, e persa nel 1981 al cospetto del Liverpool, minacciosamente al terzo di quattro titoli annoverati in bacheca fra il 1977 ed il 1984.

Trentadue lunghi anni di oblio che parevano ridisegnare le volontà deistiche. Ma, nel 1998, quasi rigettato nella mischia dopo l’esilio cosmico, il Real torna, per l’appunto dopo oltre tre decenni, sul trono del Vecchio Continente. E il destino riprende il suo ineluttabile percorso: tre coppe in cinque anni, griffate da Mijatovic, Raul, Zidane. E sono nove.

Probabilmente, si saranno detti taluni artefici delle sorti terrene, un’esagerazione dopo anni di magra. Avrebbero potuto essere distribuiti meglio questi successi, anzichè essere perennemente concentrati. Si dà la sensazione di un abuso di potere. Allora che si fa? Che attendano con maggiore trepidazione la “decima”. Dodici anni di attesa. Dal 2002 al 2014. E, in questo momento, astrologia, misticismo, filosofia, paganesimo e sacralità sembrano fondersi in un binomio pressochè indistruttibile anche da alleanze intergalattiche.

Carlo Ancelotti guida il Real Madrid alla conquista della decima coppa. Da questo momento, con l’interregno di un sublime e predestinato Zidane, al Real e ai suoi protettori ultraterreni la dittatura non fa più paura. Sei coppe in undici anni, proprio nel bel mezzo di una modernità che avrebbe dovuto ampliare la competitività allargando ogni anno alle migliori squadre del continente la possibilità di conquistare la gloria. Per un’alternanza presunta piegatasi alle circostanza. Già. D’ora in poi, delineata la declinazione ineguagliabile di un club oggi largamente il migliore della storia, messi da parte luoghi comuni superflui volti ad esaltare attori protagonisti, mentalità vincente e quant’altro di affine, è tempo di sviscerare la Real…tà.

Ancora una volta, come accaduto in almeno altre quattro circostanze nelle sei recenti edizioni che hanno incoronato sovrano il madridismo, qualora l’attenzione fosse esclusivamente focalizzata sugli aspetti puramente calcistici, figli di un’analisi spoglia di qualunquismi e facili sensazionalismi, pressochè tutto, incredibilmente allargando l’orizzonte anche ai turni eliminatori precedenti all’approdo all’atto conclusivo di ognuna di queste edizioni sott’esame, pende oltre ogni logica meritocratica a favore del Real.

Per settantatrè minuti una compagine dai valori individuali nettamente inferiori alla Casablanca, rivestita di una paradossale leggerezza figlia della consapevolezza che avrebbe dovuto verificarsi qualcosa di straordinario per far propria la vittoria, impone calcio, tempi, ritmi, idee, punge come meglio non avrebbe potuto attraverso una corretta gestione della sfera, una perfetta occupazione degli spazi, varietà tattiche che passano dai piedi di Schlotterbeck che decide se far partire il fraseggio o cambiare versante, dalla posizione in fase di costruzione di Emre Can, dai tagli interni di Maatsen, dalla conduzione di Sabitzer, dalle imbucate di Hummels e dal lavoro posizionale degli esterni offensivi, con Fullkrug ad agire ora come terzo uomo ora come punto di riferimento offensivo, aprendo spazi e concludendo direttamente; il Borussia domina un incontro che avrebbe logicamente, per i più, dovuto sottintendere una disparità evidente a favore degli uomini di Carletto.

Fino a ciò che la maggior parte degli appassionati di quell’astruso meccanismo denominato football di cui sopra si aspettano: rete di Carvajal da calcio d’angolo, fortunatamente acquisito dopo una deviazione su un tiro sbilenco di Valverde che avrebbe concluso la propria traiettoria a quindici metri di distanza dal palo della porta di Kobel e raddoppio di Vinicius su gentile concessione di Maatsen che regala, inebetito, la sfera a quelli con la camiseta blanca.

E così, mentre da un lato una formazione sciorina calcio collezionando occasioni nitide ed imponendo la propria struttura e la propria espressione, ancorchè nettamente sfavorita, dall’altro, e non raccontiamo scioccamente sia una scelta perchè non si può scegliere di subire qualsivoglia avversario rischiando di perdere l’incontro più importante del calendario internazionale, una squadra che subisce, soffre, non crea, per conseguente sillogismo non conclude, e va al riposo incredibilmente sullo zero a zero quando il doppio svantaggio avrebbe rispecchiato più fedelmente le dinamiche dell’incontro.

La prima mezz’ora della ripresa riecheggia il filone interpretativo dei primi quarantacinque minuti, con il Dortmund sempre protagonista. Dopodichè, due circostanze fortuite regalano immeritatamente l’ennesima coppa al Real. Non voglio usare mezze misure. Il successo è immeritato. Largamente. E chi dice il contrario vive di luoghi comuni per accodarsi ad epiteti enfatici che non rispecchiano la veridicità. Come l’abusato “il Real sa soffrire”: cosa significherebbe esattamente questa affermazione? Cosa dovrebbe sottintendere? L’impalpabile concetto secondo il quale misticamente è come se il Madrid sapesse di poter subire qualsivoglia sfrontatezza avversaria uscendone illeso? E perchè giammai?

Cosa significa saper soffrire contestualizzato alla gara di sabato sera (tra l’altro bisognerebbe già spiegare per quale motivo la “squadra” per antonomasia del panorama globale dovrebbe per partito preso subire l’avversario, soffrendolo inequivocabilmente per poi passare da miracolata ed, erroneamente, da compagine, unica e sola, che “può” subire perchè “sa” di non perdere…perchè si dovrebbe partire dal pressupposto che soffrirai i dirimpettai sempre e comunque?), cosa significa essere inermi dinanzi alla prepotenza estetica altrui? Significherebbe forse ammirare gli avversari porsi nelle condizioni di poter capitalizzare occasioni a raffica, alcune clamorose, sperando che la rete resti comunque inviolata? Vedere il Dortmund a tu per tu in tre circostanza dinanzi a Courtois o cogliere un legno?.

L’unica e sola realtà è rappresentata dal fatto che una squadra che si impone per sei volte negli ultimi undici anni, che più generalmente vince consecutivamente nove atti conclusivi, dovrebbe palesemente lasciare in eredità quale discriminante inequivocabilmente evidente la propria superiorità: una compagine capace di laurearsi campione d’Europa per sei volte in un decennio solare dovrebbe risultare così dominante da non lasciare spazio ad alcun equivoco.

E invece la lente d’ingrandimento, neppure così tanto da analizzare minuziosamente al dettaglio, narra di un romanzo sulle cui pagine compaiono sei trofei così conquistati ( nonostante la presenza di elementi spaventosamente forti nel corso degli anni, da Sergio Ramos a Varane, da Marcelo alla santa trinità della mediana, da Benzema a Cristiano Ronaldo, da Vinicius a Bellingham): acciuffando un incontro ad un battito di tempo dallo scadere già praticamente perso contro l’Atletico Madrid nel 2014 ( con la rete di Sergio Ramos che conduce l’incontro ai supplementari con inevitabili contraccolpi per chi sino a quel momento pregustava già il successo), vincendo ai rigori contro gli stessi concittadini due anni più tardi, battendo (unico successo indiscutibile seppur viziato da eliminatorie su cui pesano errori arbitrali macroscopici) la Juve, spuntandola sul primo Liverpool di Klopp mestamente ridimensionato dalle clamorose papere elargite dal proprio estremo difensore il cui nome è ancor più noto oggi in Italia per motivazioni travalicanti l’ambito agonistico, e avendo nuovamente la meglio sulla città dei Beatles, a quattro anni di distanza, dopo aver subìto per tutto il match e aver ringraziato un Courtois insuperabile, eletto “man of the match”.

E’ possibile parlare di buona sorte? Incredibilmente ripetutasi in più circostanze? Al netto degli ovvi meriti da attribuire a fuoriclasse dentro e fuori dal terreno di gioco? Pur partendo dal presupposto che vanno sottintesi valori elevatissimi di competitività, umiltà, coesione, appartenenza e consapevolezza della propria storicità? Assolutamente sì. La realtà dice questo.

Dice di un Real praticamente già fuori con PSG, Chelsea e City due anni or sono e miracolosamente salvatosi nei supplementari o nel recupero ( allorquando soltanto due reti oltre il novantesimo concessero a Carletto di approdare in finale dopo aver perennemente subìto Guardiola su ogni fronte ), di un Real che già con il Lipsia agli ottavi, in questa edizione, avrebbe meritato l’eliminazione che altresì, meritocraticamente, avrebbe dovuto essere ragionevolmente sublimata contro il Manchester City al turno successivo.

Per cinque volte su sei atti conclusivi il Real avrebbe meritato di non vincere il trofeo. In diverse circostanze in finale non avrebbe dovuto neppure arrivarci, per ragioni di campo o più prettamente arbitrali ( reti siglate in fuorigioco, di un paio di metri, sviste, rigori assegnati allo scadere come l’iconico, discutibilissimo, contro la Juventus durante i quarti del 2018 ); in più occasioni le reti sono arrivate da grossolane disattenzioni individuali altrui come accaduto contro il Dortmund o contro il Liverpool a Kiev.

Questi sono i fatti. Che legano il Real ad un gigante della panchina la cui carriera da sovrano simbolico della stessa narra di cinque coppe fra le quali solo quella contro il Liverpool del 2007, nelle vesti di allenatore del Milan, è giunta con pieno merito. I calci di rigore (contro la Juve a Manchester priva di Nedved, pallone d’oro di quell’anno), una rete al 93esimo (contro l’Atletico) e due finali vinte con l’avversario meritevole di ottenere il successo il computo di una guida tecnica eccezionale per sagacia psicologica, conoscenza di minuzie umane, stracolma di sfaccettature calcistiche, ideale per guidare gloriose società, come accaduto nel corso della sua invidiabile ed unica carriera (è il solo ad aver trionfato nei cinque più importanti campionati nazionali ed il solo, va ribadito, ad aver disputato sei finali di Champions League vincendone cinque, almeno due in più di chiunque altro), i cui trionfi non rispecchiano, personalissimo parere, quanto fosse in realtà giusto vincere.

Ciò nulla toglie ad uno dei più grandi allenatori della storia, semplicemente tutto è volto a sottolineare quanto quel destino nato nel 1955 ed intrecciatosi ad un timoniere probabilmente privo di fatalità avverse ( con l’unico pegno pagato rappresentato dall’incredibile rimonta subìta dal Liverpool nel 2005, figlia però non della sfortuna ma di un’inconcepibile debacle complessiva nella seconda frazione, al punto tale che gli inglesi già al quarto d’ora della ripresa ristabilirono l’equilibrio) fosse, per l’appunto, destinato a condurre, indipendentemente dai meriti, Il Real e Ancelotti nell’Olimpo di quegli dei le cui trame avevano già preliminarmente sancito quanto la storia ha sino al suggello dell’altro ieri narrato e sublimato.

Or dunque onore ad un allenatore che ha disarcionato propri dogmi nel tempo ( Zola venne ceduto al Chelsea per questioni tattiche non collimanti con la purezza dell’1-4-4-2 di sacchiana memoria), che ha saputo far coesistere Pirlo, Seedorf e Rui Costa con l’aggiunta di due punte ( pur vincendo un solo scudetto in otto anni guidando formazioni sublimi al Milan, su tutte la squadra del 2004-05), che ha saputo adattarsi alle evoluzioni di vent’anni di mutamenti futbolistici, che ha saputo vincere ovunque ( benchè facilitato dal predominio autoctono delle squadre guidate) ma che ha raccolto credo più, ribadisco, di ciò che meritasse in ambito continentale, oggettività alla mano, spuntandola casualmente in diverse circostanze e da contraltare subendo invece spesso la direzionalità calcistica di tecnici verosimilmente più attenti allo sviluppo della manovra ( la lezione di Guardiola lo scorso anno lo testimonia).

Cosa commenteremmo, oggi, supponendo i rigori fossero stati avversi contro la Juve, se Sergio Ramos avesse millimetricamente colpito meno bene il pallone ad una manciata di secondi dallo scadere del tempo regolamentare nella prima finale contro l’Atletico, se Courtois non si fosse opposto a Liverpool e Borussia Dortmund meritevoli di ben altra sorte considerando l’evidenza delle prestazioni in finale? Onore ai risultati, certo. Onore alla lungimiranza e al merito. Onore alla saggezza paterna con cui rende fuoriclasse assoluti figli da coccolare, onore a tanto altro. Onore al Real e alla sua storia. Onore ai successi. Ma quando vinci 15 finali su 18 e 9 consecutive, qualcosa è dalla tua parte. Anche qualora ciò accadesse con merito indiscutibile.

Il Milan, sideralmente più forte di questo Real, non fece sue, ad esempio, le coppe del 1993 e del 1995, la Juve di Lippi o Trapattoni non collezionò successi in serie nonostante una netta superiorità, il Barcellona fra il 2006 ed il 2019 avrebbe potuto vincere per forza individuale e collettiva la Champions ogni anno. Ma sovente capita Bolì, altre volte Kluivert appena diciannovenne, alcune volte vieni punito da tuoi stessi “scarti” come Kohler, Julio Cesar, Reuter, a volte perdi per un fuorigioco non visto, a volte sei di gran lunga la corazzata più forte e probabilmente la migliore della storia ma un vulcano decide di eruttare costringendoti a raggiungere Milano sulla terraferma, a volte stecchi, a volte una squadra sideralmente inferiore ribalta incredibilmente un’eliminatoria già acquisita come accaduto contro la Roma. A volte vinci tre a zero all’andata e perdi quattro a zero al ritorno come contro il Liverpool. Ciò che è capitato al Real in questi anni è troppo “unidirezionale” per non affrontare alcune tematiche oggettive. Quello che è capitato al Real in questi anni capita nell’intera storia ad altri club.

BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.

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