EURO ’24 – POST GARA 2 -GIRONE C – DANIMARCA-INGHILTERRA 1-1

Chi sostiene che il calcio sia solo calcio mente, sapendo (forse) di mentire. Oppure lascia che una certa retorica disfattista o, peggio ancora, qualunquista prevalga sulla bellezza e sulla “densità”, anche socio-culturale, di uno sport seguito a ogni latitudine. Che poi, insomma, non c’è quasi nulla, a questo mondo, che sia solo quello che è. Che è per chi, poi?

Perché, guardando gli stadi pienissimi e multicolori di questi Europei tedeschi, a partire dalla cerimonia inaugurale, dedicata a Franz Beckenbauer, viene da pensare che esistano molte anime e infiniti riverberi capaci di muoversi e proiettarsi a partire da questa cosa che ci appassiona così tanto e che, mutuando il pensiero di Walt Whitman, ci sembra piuttosto contenere moltitudini.

Una moltitudine che si intreccia, come sempre, anche con la narrativa, specie se si pensa al calcio inglese, fucina infinita di aneddoti meravigliosi, talvolta ironici, pungenti, dissacranti – si pensi alla boot room di Liverpool, ai tempi di Bill Shankly, o alle freddure di Brian Clough – talvolta romantici o persino commoventi. Una storia in particolare, in questi tempi bui, risuona – o dovrebbe farlo – con le nostre coscienze. È nota di per sé, ma lo è ancora di più perché l’ha cantata, in un album del 1983, l’ormai solista Paul McCartney: sto parlando di Pipes of Peace.

“Aiutiamoli a imparare canzoni di gioia, invece di “burn, baby burn”…”, esortava Paul.

Era la notte della Vigilia di Natale del 1914, ma, c’è da giurarci, per chi combatte nei formicai è facile che un giorno assomigli fatalmente a quello che lo ha preceduto e a quello che dovrà seguirgli (se Dio vuole), perché ogni giorno è un giorno buono per essere ammazzati o per sparare a qualcuno che ha il torto di indossare un’uniforme diversa dalla nostra. Valeva ancora di più nelle vicinanze della cittadina belga di Ypres, a cui si deve il nome del cosiddetto gas mostarda, il tioetere del cloro etano; l’iprite, appunto. Lasciamo perdere le specifiche tecniche, ma si trattava, come si può ben capire, di una sostanza dall’impatto devastante. Fu usato per la prima volta nel 1917, ma già qualche anno prima quelle zone erano state il teatro di un indicibile massacro.

Forse è per questa ragione che il capitano Stockwell, ufficiale dei Reali Fucilieri del Galles, restò un po’ interdetto, quando si accorse che due soldati tedeschi stavano in piedi, in cima alla trincea, e per giunta disarmati. Le ragioni di quella singolare disposizione divennero chiare quando dal fronte nemico si levarono delle voci: vogliamo una tregua e siamo pronti a sancire la nostra richiesta, inviandovi delle birre.

No, Stockwell non era di primo pelo e non si fidò, tuttavia un colloquio con un parigrado dell’esercito rivale servì a dimostrargli che le intenzioni erano serie, sebbene, ahimè, temporanee. Andò così, e non era affatto scontato che accadesse, considerando che su altri fronti le battaglie continuavano a imperversare: soldati inglesi e tedeschi si incontrarono, si scambiarono cibi e bevande, mentre intonavano – insieme – canti natalizi. Poi accadde anche un’altra cosa: non si sa come, non si sa perché, a un certo punto, dalle fila d’Albione, saltò fuori un pallone da calcio. La partita che ne scaturì fu davvero fuori dall’ordinario, come fuori dall’ordinario erano le condizioni in cui i novelli calciatori si sarebbero dovuti esibire. La compagine tedesca – settanta uomini – sfidò cinquanta inglesi e gli inventori del football, sebbene in inferiorità numerica, ebbero la meglio.

Il giorno dopo, in seguito allo scambio dei convenevoli festivi, la guerra ricominciò, ça va sans dire, con i suoi mortiferi rituali. E se già non sapessimo quanto è disumana, basterebbe forse questa piccola-grande storia di “pace a tempo” per farcelo ricordare. Insomma, sì, certo, è solo calcio, ma allo stesso tempo – e penso anche alle recentissime prese di posizione di alcuni giocatori della nazionale francese, ribadite da Thierry Henry –  non è solo calcio.

A chi volesse approfondire, consiglio due testi: “La tregua di Natale. Lettere dal fronte”, a cura di Antonio Besana e con traduzione di Alberto Del Bono (Edizioni Lindau, 2014), e “Premier League”, di Nicola Roggero (Rizzoli, 2019).

C’è poco da eccepire: i discepoli di Mr. William McGregor hanno una storia così lunga e corposa da conoscere pochi eguali…

Inseriti nel girone C di Euro 2024, hanno battuto, senza troppe difficoltà, ma senza neppure brillare, come qualcuno si sarebbe atteso, la Serbia di Dragan Stojković. Colpa… be’, difficile stabilirlo, ma la scelta di non convocare neppure Jack Grealish (e non è l’unico escluso illustre: mancano Harry Maguire, infortunato, pare, Marcus Rashford, Raheem Sterling) e quella di far partite Phil Foden sulla sinistra – non la posizione preferita o quella in cui il giovane talento di Manchester rende meglio – hanno mostrato un Southgate con le idee ancora piuttosto confuse; una confusione solo in parte mitigata dalla sovrabbondanza di talenti disponibili: “Hey Jude” Bellingham, of course, ma pure Harry Kane, scarpa d’oro in Germania, alla sua prima stagione al Bayern, Bukayo Saka, Trent Alexander-Arnold, il già citato Foden, il duo difensivo del City, Walker-Stones, rispettivamente roccioso terzino destro e centrale, con vocazione da libero, Declan Rice, la new entry, Cole Palmer ecc.

Eppure la verità, di cui ci piace tanto riempirci la bocca, non è mai tale, in assenza di un’adeguata prospettiva di osservazione. Un solo gol a zero può senza dubbio essere ritenuto un risultato modesto, specie se lo si raffronta con la goleada di Toni Kroos e compagni contro la Scozia (meno fulgidi, invece, contro l’Ungheria di Szoboszlai), ma in Inghilterra, una volta, vigeva un motto simile al famigerato “corto muso” di Massimiliano Allegri: 1-0 and shut up the shop, 1 a 0 e abbassa la serranda. In pratica: massima resa con il minimo sforzo. A proclamarlo fu Don Revie, allenatore del leggendario, più nel male che nel bene, Dirty Leeds. L’Inghilterra del compassato Gareth Southgate, almeno contro la Serbia, sembra dunque essersi ispirata al mantra di quei cattivoni degli Whites!

Salda in testa alla classifica del girone, la nazionale dei Tre Leoni si trova di fronte la Danimarca di Kasper Hjulmand, reduce da un pareggio con la Slovenia, non insoddisfacente in quanto tale, ma poco promettente, se si guarda alla prestazione nel suo complesso. La Danimarca sembra infatti eccellere nel fraseggio a metà campo, tecnicamente di livello, ma abbastanza sterile, nei fatti. Bello, questo sì, e quasi giusto – l’aggettivo ha senso, considerando cosa erano stati i precedenti Europei per lui – il gol di Christian Eriksen, dopo poco più di un quarto d’ora dall’avvio del match, e buona la prova di  Jonas Wind, autore dell’assist (un po’ più spento l’ex Atalanta, oggi Manchester United, Rasmus Højlund).

Tuttavia i fasti della Danske Dynamite di Richard Møller Nielsen e di quel campionato europeo vinto in seguito a un ripescaggio (grazie all’esclusione della Jugoslavia, per ragioni belliche) sembrano davvero lontani. Dell’esperienza vittoriosa di Euro ‘92, contrassegnata, tra l’altro, dal gran rifiuto di Michael Laudrup, contrariato dal granitico 1-4-4-2 del Mister e da una sostituzione, durante le qualificazioni, vissuta come un oltraggio – mal gliene incolse! – è restato soltanto un cognome: Schmeichel. Allora era il fenomeno Peter, portiere dello United di Sir Alex Ferguson, del quale vale la pena ricordare almeno il rigore parato al nostro – nostro in senso milanistico! – Marco Van Basten.

L’impresa contro l’Olanda valse ai danesi la finale, vinta poi, per 2 a 0, contro i tedeschi, campioni del mondo in carica. L’aforisma di Gary Lineker – «il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti e alla fine vince la Germania» – resta memorabile, ma l’imprevedibilità del gioco l’ha più volte disatteso. Kim Vilfort, autore del secondo gol e piegato da una vicenda privata dolorosissima da affrontare, proprio nelle stesse settimane dei campionati europei, disse che la forza della squadra era l’assenza di aspettative. Può darsi che avesse ragione. Lo stesso vale per il portiere dell’attuale Danimarca, il figlio di Peter Schmeichel, Kasper. Dotato di un talento non folgorante come quello del genitore, è stato tuttavia co-protagonista di un’impresa non meno memorabile di quella del 1992: la vittoria della Premier League con la Cenerentola – Leicester City – di Claudio Ranieri. Anche in quel caso, le aspettative erano prossime allo zero, e invece…

Una curiosità: girone comune, per Inghilterra e Danimarca, anche a Euro ’92. La partita d’esordio, l’11 giugno, a Malmö, si concluse sullo 0 a 0.

Tornando all’oggi, Hjulmand ha dimostrato negli anni una notevole flessibilità tattica, utilizzando una gamma di moduli che permettono alla squadra di adattarsi a diverse situazioni di gioco e a differenti caratteristiche negli avversari. Questa volta ha optato per un prudente 1-3-5-2. Kristiansen e Mæhle (entrato solo sul finale, contro la Slovenia), quinti in grado di sfruttare l’ampiezza, sia in fase difensiva che in quella offensiva, e di arginare, almeno nelle intenzioni, la rapidità nelle incursioni di Saka e Phil Foden (di nuovo “sprecato” a sinistra), si sono aggiunti a Andersen e Vestergaard, in funzione di braccetti, pronti a stringere sulle scorribande di Kane, prima punta, come di consueto, e Jude Bellingham.

Proprio quest’ultimo, in un’Inghilterra assai misurata, per non dire del tutto statica, a tratti persino – incomprensibilmente – svogliata, è risultato però il principale assente. Se infatti Foden ha provato, in un’occasione in modo netto, colpendo in pieno il palo, in un altro paio di circostanze con minore precisione, ad accentrarsi e a mirare la porta – per trovarsi dove vuole, è costretto a un coast to coast dispendioso e poco pratico – il centrocampista del Real Madrid non è mai riuscito a entrare davvero in partita. E non tutto può essere imputato alle condizioni, abbastanza indecenti, è vero, del terreno di gioco, con zolle rialzate che mettevano in pericolo, a ogni azione, l’incolumità di ginocchia e caviglie. Kyle Walker ha rischiato grosso…

La squadra di Southgate, pur impensierendo di rado gli avversari, ha cominciato il match, spingendo sulle fasce con le sovrapposizioni dei due terzini, Walker – tra i migliori in campo, insieme a Saka, nelle fila inglesi, sebbene non si siano viste prestazioni memorabili – e Kieran Trippier. Se ne creava una disposizione a trapezio isoscele: i difensori di Newcastle e Manchester City, altissimi e radenti alle linee laterali, consentivano rispettivamente a Phil Foden e Bukayo Saka di occupare porzioni più centrali del campo, avvicinandosi quindi a una possibile linea di tiro. Proprio da un’azione così costruita, oltre che da una serie di fortuiti rimpalli e qualche disattenzione della non irreprensibile difesa danese, è nato il gol di Harry Kane: Kyle Walker, la cui rapidità è proverbiale (il picco sono gli oltre 37 km/h raggiunti in un Everton-ManCity del maggio 2023), ha beffato Kristiansen ed è riuscito a mettere la palla in area. L’attaccante del Bayern Monaco ha poi concluso da par suo. Sarà peraltro una delle poche azioni che lo vedranno protagonista.

Dopo una ventina di minuti, ha risposto la Danimarca che è riuscita a pareggiare con una bordata, da fuori area, di Hjulmand, sul quale Trent Alexander-Arnold e John Stones – i due inglesi in traiettoria – hanno potuto fare pochissimo. La squadra di Hjulmand, pur non contando su nomi altisonanti, ha condotto una partita niente affatto remissiva. Ottimi sulle seconde palle, organizzati a centrocampo, i danesi hanno peccato tuttavia di fretta o di scarsa lucidità (quanti tiri da fuori, quando c’erano soluzioni potenzialmente più efficaci). Anche le operazioni offensive, di rado a propulsione verticale, sono parse spesso troppo lente, quasi impacciate. Si veda, per esempio, l’azione di Alexander Bah all’82esimo: su errore di Guéhi, si lancia in solitaria verso Pickford, ma la sua manovra appare macchinosa e viene limitata dallo stesso difensore del Crystal Palace, in recupero.

Una manciata di minuti prima, Kasper Schmeichel aveva salvato il risultato, con una buona uscita sul subentrato Ollie Watkins.

L’ultima emozione della partita, si fa per dire, ce la regala la nazionale di Hjulmand, intorno all’84esimo minuto: Højbjerg scarica di poco a lato, con un tiro dalla distanza (di nuovo!), forte, ma impreciso.

Tutto qui, ed è un po’ poco per quella che doveva essere la partita più attesa del girone C.

DANIMARCA (1-3-5-2): Schmeichel; Andersen, Christensen, Vestergaard; Kristiansen (57’, Bah), Hjulmand (82’, Nørgaard), Eriksen (82’, Scov Olsen), Højbjerg, Mæhle; Højlund (67’, Poulsen), Wind (57’, Damsgaard). CT: Hjulmand

INGHILTERRA (1-4-2-3-1): Pickford; Walker, Stones, Guéhi, Trippier; Alexander-Arnold (54’, Gallagher), Rice; Saka (69’, Eze), Bellingham, Foden (69’, Bowen); Kane (70’, Watkins). CT: Southgate

Arbitro: Dias (Portogallo)

BIO Ilaria Mainardi: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

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