«Pianga, Malaussène, pianga in modo convincente. Sia un buon capro»
Prima di ogni incarico lavorativo, il buon Benjamin Malaussène, personaggio nato dalla celebre penna di Daniel Pennac, è consapevole che sarà il capro espiatorio presso il posto di lavoro. Questa è la sorte riservata ai numeri 9 della nazionale italiana degli ultimi anni. Vero e proprio leitmotiv, di cui è stato vittima in primis Ciro Immobile. Quest’ultimo ha almeno vestito questa pesante e ingombrante maglia all’Europeo vinto tre anni fa dagli Azzurri. Il capro espiatorio attuale è quel Gianluca Scamacca titolare nell’Atalanta, e fresco vincitore dell’Europa League, ma ritenuto l’emblema della pochezza offensiva del calcio italiano.
La solitudine dei numeri 9 risale alla notte dei tempi. Calciatori di bel altro pedigree rispetto al pur capace e volenteroso Scamacca sono stati vittime di feroci stroncature da parte della critica. Quello del centravanti è uno dei ruoli condizionato inevitabilmente dall’intero impianto di gioco della squadra. Sotto l’occhio del ciclone sono finiti calciatori del calibro di Ronaldo il Fenomeno, Vieri, Inzaghi, Higuain, Batistuta od Osimhen, solo per citarne alcuni e rimanendo confinati al calcio del Belpaese. Quando non arrivano i rifornimenti, l’attaccante resta stretto nella morsa e, anche se è un fenomeno, può fare poco e nulla. Vi sono state annate in cui la squadra in cui militavano questi campioni non è giunta nei primi posti. Nessun bomber ha poteri sovrannaturali. Il Fenomeno non ha vinto alcuna Champions, per fare un esempio. Ho verificato e la memoria non mi ha tradito: in nessuna di quelle edizioni è ravvisabile una qualsivoglia responsabilità del brasiliano. Prefigurare difficoltà per Scamacca, lontano anni luce da certi marziani, rientra nell’ordine naturale delle cose laddove il contesto è proibitivo.
Il buon Scamacca non è qualitativamente paragonabile a nessuno dei calciatori citati. Si tratta di un centravanti strutturato fisicamente, forte a livello acrobatico e in grado di segnare anche gol spettacolari, ma non dotato di grande progressione, di una tecnica sopraffina o di capacità per fungere da regista offensivo. Immobile possiede caratteristiche diverse. Meno fisico rispetto a colui che ha ereditato la 9 della nazionale, l’attaccante della Lazio vanta una notevole tecnica di tiro e una buona progressione. La pulizia del tocco e la qualità globale non sono naturalmente paragonabili a quelle dei migliori centravanti del nuovo millennio. L’Europeo di Scamacca si è rivelato un deserto arido, dove l’acqua del gol sembrava talvolta a un passo, ma inaccessibile. Basti pensare al gol sfiorato da due passi contro l’Albania su assist di testa di Pellegrini.
Non si ingaglioffisca il commentatore medio, che mi duole rampognare nuovamente, visto il suo modus operandi da commentatore “di pancia”. Un certo tipo di aiscrologia non reca giovamento a tali iconoclasti estensori. Il valore e le prestazioni di un calciatore vanno rapportate al contesto di riferimento. Possibile che all’Atalanta Scamacca venisse esaltato per la visione di gioco e la balistica da fantasista mentre in Nazionale venga schernito e ritenuto un attaccante da Serie C? Come mai lo Scamacca visto a Euro 2024 non è altro che la copia sbiadita del calciatore ammirato con la Dea soprattutto in Europa League? Manca quella facoltà di formulare un giudizio fondandosi sul contesto situazionale. Certe critiche sono pretestuose e non vengono formulate nel merito. Il sottoscritto non si prefigge di difendere il calciatore declamando ore rotundo. Va dato a Cesare quel che è di Cesare, nel senso che occorre prendere atto delle critiche circostanziate. Al contrario, vanno confutati certi giudizi ingenerosi. Le prestazioni di un calciatore non vanno osservate con gli occhi del Tristo Mietitore ma avvalendosi di una sana onestà intellettuale. Il metodo utilizzato deve essere scevro da pregiudizi.
Quali critiche potremmo muovere, orbene, a Gianluca Scamacca nel merito?
Beh, è presto detto. Al centravanti della Dea, così come a tanti attaccanti che si sono avvicendati negli ultimi anni in Nazionale, va imputata quella mancanza di famelicità ferina che invece contraddistingue diversi bomber stranieri. Pippo Inzaghi era una faina sotto porta, fermo restando che il bomber piacentino era un connubio di capacità oculo-podaliche nel vedere la porta e qualità innata nello scegliere il timing perfetto per colpire. A Scamacca manca il killer instinct ma non è l’unico aspetto in cui ha lasciato a desiderare all’ultimo europeo. Il 9 azzurro è parso avviluppato in una sorta di anatema quando si trattava di concretizzare le azioni sotto porta.
La potenza del tiro, che in altre circostanze avrebbe fatto tremare le reti, è diventata un ulteriore scherzo del fato, mancando di precisione e finezza nei momenti topici. Un’istantanea emblematica è rappresentata da una conclusione goffa e scoordinata dal limite nell’area finita a distanza siderale dalla porta difesa da Sommer. Si è configurata una sorta di sindrome del bersaglio mancato. Gianluca Scamacca, con le sue ataviche problematiche sotto porta evidenziate in nazionale, è la quintessenza del moderno enigma del centravanti. Un rompicapo che sfida la logica calcistica e alimenta il dibattito tra critici e tifosi. Scamacca non è solo un attaccante in crisi realizzativa con la Nazionale, ma l’emblema del calciatore italiano contemporaneo, costretto a tradurre il proprio talento in risultati immediati, sacrificando l’arte del gioco alla tirannia del goal. Tali difetti vanno evidenziati in modo tale da evitare di ottenere gli stessi risultati dell’arringa in difesa dell’amico Milone, orazione in cui Cicerone non diede il meglio di sé, viste le intemperanze rivali. D’altronde questo ostracismo nei confronti di Scamacca è suffragato da alcune basi, fermo restando che l’assunzione a capro espiatorio del fallimento azzurro è del tutto fuori luogo.
Perché certe aspettative sono eccessive
Scamacca è l’uomo gettato nel flusso dell’evento calcistico, intrappolato tra l’attesa messianica del goal e la cruda realtà dell’errore. Il calciatore dell’Atalanta si vede alienato dalla propria essenza più autentica. Le proprie caratteristiche vengono quindi snaturate. Il “nostro” ha pertanto assunto le vesti di eroe tragico, costretto a lottare contro nemici provenienti da tutte le parti e contro sé stesso. Gli italiani incollati al televisore mormoravano, i cronisti annotavano. Lui, tra un respiro affannato e un altro, tra una corsa a vuoto e un’altra, continuava a cercare quel gol come un miraggio in un deserto infinito.
La critica ha visto in Gianluca Scamacca l’eco di quelle promesse infrante, le speranze di una nazione appese a un filo troppo sottile per sostenere il peso delle aspettative. In troppi dimenticano che il calcio è uno sport che si gioca in 11, in cui la fanno da padrone le contingenze. Quello dell’Atalanta è un meccanismo troppo ben oliato per non valorizzare le abilità dei propri avanti. Come abbiamo spiegato a più riprese, Spalletti è un tecnico da campo. Nonostante non sia più di primo pelo, l’allenatore di Certaldo è alla prima esperienza da CT. Le metodologie sono decisamente diverse e l’adattabilità non è scontata. La nazionale azzurra era una polveriera e, tolti Donnarumma e Calafiori, nessuno ha reso ai propri livelli. L’attaccante dell’Atalanta è stato relegato alla succitata solitudine, lontano dalla propria comfort zone e senza uno schema che ne favorisse le virtù. Il pallone, quell’amico traditore, sembrava sfuggirgli, ridendo tra i piedi degli avversari e rifiutando di rispondere ai suoi richiami.
In questo dramma calcistico, in cui le speranze di una nazionale si intrecciavano con i sogni dei singoli calciatori, non possiamo puntare il dito solo verso Gianluca Scamacca. Certo, i suoi passi erano incerti, e il gol, quell’elisir magico, non si materializzava. Ma il fallimento di una squadra è una sinfonia dissonante composta da molte note stonate. Dietro ogni attaccante c’è una rete di passaggi e movimenti che devono funzionare come un orologio svizzero. Svizzeri, come i nostri avversari, che hanno onorato il proprio prodotto principe. E quando gli ingranaggi si inceppano, la colpa non può ricadere solo sul danzatore solitario che si esibisce sul palco. Scamacca ha pagato il prezzo delle aspettative irrealistiche, delle speranze sovraccaricate sulle spalle di attaccante nel pieno della carriera agonistica. La nazionale italiana, come un’orchestra senza direttore, ha suonato una melodia confusa, priva di coesione e armonia. La critica feroce verso l’attaccante viene naturale. È come biasimare un singolo attore per il fallimento di un’intera compagnia teatrale. Gianluca Scamacca, con i suoi errori e le sue lotte, è solo una parte di un mosaico più grande. Non può essere eretto a capro espiatorio di un fallimento che appartiene a tutti. In campo e fuori.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.