LE NAZIONALI CHE NON HANNO VINTO IL MONDIALE: IL BRASILE 1982

“Tra sogno ed incubo”

Il 21 aprile 1960 rimarrà una data storica per il Brasile perchè una città creata dal nulla, che prende il nome di Brasilia, ne diventa la capitale ponendo fine all’eterno quesito se la metropoli più importante e più rappresentativa sia la turistica, carnevalesca e divertente Rio de Janeiro o la produttiva, organizzata e moderna San Paolo.

Lo stesso infernale dilemma assale nell’estate del 1982 la delegazione della nazionale di calcio, incerta se far atterrare l’aereo che riporterà in patria i futuri campioni del mondo prima a San Paolo o prima a Rio. La discussione, che per ogni carioca o paulista che si rispetti non è questione da poco, comincia ad entrare nel vivo man mano che la conclusione del mondiale si avvicna.

E’ evidente che la città designata ad accogliere la coppa potrà vantarsene negli anni a venire nei confronti della rivale.

Da settimane circolano voci su come il paese intero celebrerà il trionfale ritorno dei suoi beniamini che nelle prime quattro gare del Mundial hanno incantato gli appassionati di tutto il mondo.

I festeggiamenti dovranno risultare memorabili; d’altronde il football è uno dei pochi elementi a tener unito un paese da sempre diviso su ogni questione che non sia religione, carnevale e calcio.

In seno ad una gestione politica sempre più caotica, in cui gli esponenti della dittatura militare si susseguono al potere, e ad una situazione sociale in cui all’enorme ricchezza di pochi fa da contraltare l’estrema povertà della maggioranza dei brasiliani, la Selecao rappresenta un vanto ed uno dei pochi momenti di spensieratezza per l’intera nazione.

“Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una Chiesa, ma non ne esiste uno senza un campo di calcio” (Eduardo Galeano)

Ma cos’ha di speciale la nazionale di calcio verdeoro dell’82?  Non è una novità che i brasiliani siano tra i favoriti per la vittoria finale.

Che cosa la rende diversa dalle altre compagini del passato?

Il ragionamento parte da lontano.

A seguito delle difficoltà palesate nel mondiale 1974 la federazione brasiliana, resasi conto di come il calcio europeo avesse intrapreso una nuova era sulla scorta della modernità olandese e della solidità tedesca, aveva chiamato alla guida della nazionale Claudio Coutinho, militare dell’esercito oltre che professore di educazione fisica, affinchè elevasse il livello atletico e prestazionale della nazionale.

Il cammino durante il mondiale del 1978, concluso con un terzo posto tra le polemiche a seguito della chiaccherata goleada dei padroni di casa argentini al Perù, non aveva entusiasmato.

Era stato “tollerato” da tifosi e stampa considerati i favori di cui l’Argentina aveva goduto e le precarie condizioni fisiche in cui erano giunti alla kermesse iridata alcuni tra i calciatori più rappresentativi.

Di sicuro la rinuncia alla tecnica ed alla visione di gioco di Falcao, a vantaggio del più solido Chicao, aveva fatto discutere così come alcune scelte in attacco.

Diveniva pertanto fondamentale lasciare il segno l’anno successivo in occasione della Copa America, con una squadra dal tasso tecnico più elevato grazie al ripensamento sul futuro Re di Roma e all’inserimento in pianta stabile del dottor Socrates che avrebbe affiancato lo straripante talento di Zico con la sua classe e la sua innata visione di gioco.

La sconfitta patita in semifinale dal Paraguay, a seguito di gare di andata e ritorno secondo il format dell’epoca, segna la fine dell’epoca Coutinho.

 Un’epoca caratterizzata dalla nostalgia della grandezza del decennio precedente e dalla voglia di ripristinare i concetti cari al calcio brasiliano fatto di tecnica, movenze feline, danza sul prato verde e autocompiacimento.

Con l’avvento in panchina di Telè Santana da Silva, le cose prendono immediatamente il verso giusto. Il nuovo tecnico è reduce da un decennio in cui ha fatto incetta di successi alla guida di  Fluminese, Atletico Mineiro, Gremio e Palmeiras.

Telè Santana da Silva

Appena insediatosi alla guida della nazionale, Santana opera uno strappo importante rispetto alla metodologia scientifica di Coutinho.

I giocatori vengono scelti in primis per il talento e anche nel reparto difensivo viene data priorità all’eleganza, al portamento ed alla tecnica.

Il primo appuntamento di prestigio nel nuovo corso della Selecao è il Mundialito (giocato tra dicembre 1980 e gennaio 1981) vinto sì dall’Uruguay padrone di casa, ma in cui i brasiliani danno dimostrazione delle loro abilità balistiche, proponendo un football godibile ed allo stesso tempo efficace in grado di surclassare per 4-1 la corazzata Germania Ovest nonostante l’assenza di Zico.

Da lì all’inizio del mondiale spagnolo sarà un continuo crescendo di una squadra tra le più dotate tecnicamente di sempre in cui gli assoli jazz di Zico si fonderanno con le sviolinate d’autore di Socrates.

Zico abbraccia Socrates dopo un goal

In cui autentici riff di chitarra firmati Junior lanceranno le percussioni suonate da Eder, sotto la regale armonia del pianoforte di Falcao intramezzato dall’esuberanza al sassofono di Toninho Cerezo.

Il paese si reinnamora della nazionale.

Tutte le divisioni che lacerano il Brasile scompaiono quando la Selecao scende in campo.

Il popolo si ricompatta nel nome del “futebol bailado”.

Non c’è squadra che possa contrastarli. Il talento di quella compagine rimarrà inarrivabile.

L’assenza di sconfitte durante l’anno e mezzo che precede il mondiale certifica un percorso di avvicinamento che potremmo definire marcia trionfale.

Il girone di qualificazione alla coppa del mondo concluso a punteggio pieno ed una tournee europea in cui Germania Est, Francia ed Inghilterra vengono sconfitte a domicilio rappresentano alcune delle tappe di un gruppo che fa sognare e, soprattutto, gioca divertendosi.

L’armonia, pur tra tanti campioni, è totale. Anche il secolare dualismo tra carioca e paulisti pare sepolto.

Chi ha la fortuna di vederli giocare ne rimane ammirato, chi li deve affrontare da avversario  rimane schiacciato!

Telè Santana, fedele al suo credo, ha innestato nella squadra tutto il talento possibile.

Con il senno di poi si rivelerà una scelta azzardata. La  collocazione delle teste di serie nei rispettivi gironi porta il Brasile in dono a Siviglia, una delle città più sensibili al ballo e alle sonorità.

Lì si esibiranno i verdeoro nelle recite iniziali della coppa del mondo prima di passare alla seconda fase che li vedrà protagonisti al Sarria di Barcellona.

Con la città andalusa è, ovviamente, amore a prima vista. Senza considerare i numerosi e fantasiosi supporter brasiliani che seguono in Spagna le gesta dei loro beniamini, trasformando le gradinate dello stadio in un vera e propia torcida

In molti hanno tentato di disegnare il sistema di gioco del Brasile dell’82 secondo i dettami della modulistica attuale. Prima di abbozzare una descrizione sistemantica, tuttavia, è doverosa una premessa.

Per quanto sublime e incantevole a vedersi non si tratta di una squadra perfetta.

Per far coesistere tanti talenti ed un numero così elevato di piedi buoni, qualcuno di loro è giocoforza destinato a finire “fuori ruolo”, in una zona di campo per lui inusuale.

Su questo equivoco molte nazionali sono cadute.

Il concetto per cui i piedi buoni possono giocare insieme a prescindere dall’equilibrio di squadra, “tanto sono gli avversari che devono preoccuparsi”, unito a taciti compromessi accettati dai CT per non inquinare l’atmosfera di uno spogliatoio con personalità ingombranti, ha spesso provocato eliminazioni eccellenti (e premature).

Rimanendo agli ultimi decenni, si passa dall’Argentina 1994 che schiera Balbo sull’out di centrocampo, perchè chiuso dal trio d’attacco Batistuta-Maradona-Caniggia, ad alcune versioni dell’Olanda che vedono Seedorf spostato sulla fascia a causa di altre nobili presenze in mezzo al campo, per ritornare all’albiceleste che, nel 1998, allarga Simeone a “quinto” di sinistra lasciando posto ad Almeyda, Veron ed Ortega sino alla versione del Brasile 2006 che al fine di schierare contemporaneamente Ronaldo, Ronaldinho, Kakà e Adriano costringe gli ultimi due ad un lavoro che non è il loro.

Sono solo alcuni esempi di nazionali in cui è mancato il coraggio di escludere nomi importanti con l’effetto di squilibrare la squadra e patirne le conseguenze in termini di gioco e risultati.

Ma al Brasile dell’82, questa è la sensazione, non può accadere nulla di tutto ciò.

Ci trovassimo al cospetto di una squadra “normale”, al casting per il ruolo di leader di centrocampo a cui spetta la prima costruzione parteciperebbero Cerezo, Falcao, Batista e Junior.

A partire da in alto a sx e in senso orario: Cerezo, Falcao, Batista e Junior

Quattro candidati per una maglia. Quattro autentici numero 5 secondo del futebol bailado

Ma questa non è una squadra “normale” con la conseguenza che nell’undici di base c’è posto per almeno tre di loro.

Osservando la compagine nel suo insieme con un’elevata dose di acribia un paio di “buchi” si possono, tuttavia, individuare.

Il portiere, ad esempio, appare non all’altezza dei compagni in ossequio ad un adagio del calcio brasiliano secondo cui il meno dotato con i piedi trova posto tra i pali.

A ciò si aggiunga, e questo è più difficile a comprendersi, che anche il centravanti si pone al di sotto del livello di squadra considerato come il totem Serginho abbia in carriera fatto parlare di sé più per le sue avventure fuori campo che per le performance sul terreno di gioco.

Ma per i brasiliani questo non è un problema. Serginho è messo li per fare le sponde che permetteranno all’uno o all’altro fenomeno di turno di attaccare la porta o di inserirsi in area.

Serginho od un altro, quindi, fa poca differenza!

Serginho centroavanti del Brasile nel Mondiale di Spagna 1982

Volendo modulare l’undici di Santana possiamo azzardare un’ipotesi di 14231 con numerosi adattamanenti dovuti alla difficoltà di collocare in modo equilibrato tutti i piedi magici presenti.

Davanti ai quattro difensori apparentemente schierati in linea ma con i terzini che giocano in costante proiezione offensiva, albergano Toninho Cerezo e Falcao che pare si divertano a  dileggiare i malcapitati avversari di reparto. Il triello di fenomeni alle spalle di Serginho vede Socrates (costretto a partire da una per lui insolita posizione di centro-destra), Zico ed Eder che sul lato oppposto “scorribandeggia”, saltando tutto ciò che gli si palesa davanti e scaricando con il piede sinistro missili di inusitata potenza di cui si era persa traccia dai tempi di Rivelino.

Ribadiamolo: e’ solo un’ipotesi di sistema di gioco perchè i sei di centrocampo ed attacco si scambiano costantemente la posizione in seno ad una continua ricerca di combinazioni a due o a tre, spesso con tocchi di prima, disegnate con eleganza chirurgica.

Secondo un’idea che fa comodo a molti, che in uno dei miti di Platone viene definita “post verità” e che nel nostro quotidiano potremmo volgarmente tramutare in “luogo comune”, la nazionale verdeoro del 1982 è una compagine sbilanciata in avanti, poco propensa alla fase difensiva che tende ad esporsi al contropiede avvesario.

La realtà certifica altro ovvero che, anche se infarcita di fuoriclasse, una volta persa la palla, la squadra è pronta a ricomporsi ed andare a prendere posizione con i singoli al fine di coprire gli spazi. Di sicuro non vi è una ricerca del recupero palla immediato, questo no, ma ogni giocatore copre la zona di competenza.

Si è scritto e detto troppe volte che il Brasile ha subito tre goal da un’Italia abile nel contropiede ma, in realtà, due segnature su tre sono avvenute a difesa schierata e la rimanente a causa di una disattenzione catalogabile alla voce “errore individuale”.

Il termine “disattenzione” è uno dei più utilizzati dagli allenatori di moderna generazione quando si trovano a commentare i goal subiti a causa di amnesie difensive.

Chi vuole evidenziare un difetto nel Brasile 1982 lo individuerà proprio nella mancanza di attenzione. Troppo belli, troppo portati al compiacimento, troppo ottimisti nella giocata e nella previsione dello sviluppo dell’ azione.

Ma come avrebbero potuto fare diversamente?

Il 14 giugno 1982 è il giorno dell”esordio contro un’URSS che ancora non è la macchina perfetta che il colonnello Lobanovs’kyi mostrerà al mondo nell’edizione del mondiale messicano e che sarà finalista ad Euro 88

E’ una squadra, quella sovietica, a cui spetta il ruolo di vittima sacrificale.

Tanto per rendere l’assetto ancor più offensivo, Santana pensa bene di sostituire l’indisponibile Toninho Cerezo con Dirceu, trequartista dal sinistro magico che militerà in cinque squadre diverse durante un lustro di permanenza in Italia.

Dirceu con la maglia del Napoli

Verona, Napoli, Ascoli, Como ed Avellino saranno le tappe della sua esperienza nel nostro paese, caratterizzata da un rapporto di grande amore e stima con i supporter delle squadre in cui ha giocato e da qualche incomprensione con allenatori e presidenti che lo hanno avuto alle dipendenze (Bagnoli, Marchesi, Costantino Rozzi).

Già convocato per le Olimpiadi del 1972 è stato protagonista al mondiale del 1974 oltre che capocannoniere del Brasile durante il mondiale di Argentina 1978, coronato da un gan goal all’Italia nella finale per il terzo posto.

Quella in Spagna sarà la sua terza partecipazione alla coppa del mondo e non sarebbe stata l’ultima se un infortunio patito alla vigilia del mondiale messicano non lo avesse costretto al forfait.

Nella partita contro i sovietici Dirceu viene schierato sul centrodesra offensivo il che comporta che Socrates arretri nella zona solitamente di competenza di Cerezo, davanti alla difesa, in una versione ultraoffensiva dell’undici di Santana.

La prima mezz’ora della Selecao pare un’esibizione di ballo.

Le movenze sono talvolta feline, talvolta felpate.

La palla scorre quasi sempre rasoterra e le maglie color oro si trovano a meraviglia in un tourbillon di movimenti, colpi di tacco, esecuzioni di prima intenzione ed accelerazioni alternate a giocate da fermo. I ritmi sembrano assorti sino a quando entrano in scena Falcao e Zico. Il primo tende a tagliare il campo, ora in verticale ora in diagonale, dopo aver iniziato l’azione e/o dettato il passaggio. Il secondo si “stacca” per ricevere palla tra la linee e dar vita al suo classico movimento in giravolta dopo immancabile finta di corpo.

I Brasiliani attaccano, sprecano occasioni, si specchiano nella loro bellezza e non vengono meno alla giocata di fino.

Le due “solite” controindicazioni, tuttavia, faran passare loro un brutto intervallo.

Serginho si divora almeno due delle quattro palle goal create ed il portiere Valdir Peres commette un errore che definire “papera” è riduttivo. Su un tiro senza pretese del sovietico Bal sbaglia la più comoda delle prese con la palla che termina in rete.

Valdis Peres portiere del Brasile al Mondiale del 1982

Se nel primo tempo il Brasile non ha segnato è per demerito del suo centravanti ma anche per gli interventi di Rinat Dassaev, esponente della scuola di portieri sovietica, che ha avuto in Yascin un illustre precursore, e che si presenta in campo indossando un paio di ginocchiere stile volley.

Anche il secondo tempo riprende con lo stesso copione con il Brasile che assedia la porta dell’URSS a cui, va detto, viene negato un rigore solare.

Dassaev continua ad opporsi alle conclusioni verdeoro con lo spettro di un’incredibile sorpresa che ad un quarto d’ora dalla fine comincia a materializzarsi.

A risvegliare i brasiliani dall’incubo sono due tra i goal più belli dell’intera rassegna iridiata.

Socrates prima ed Eder ad una manciata di minuti dalla fine riportano in vita un popolo intero.

Di Socrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira è stato scritto molto fuori dal campo. Figlio di un appassionato di studi filosofici (da qui la scelta di chiamarlo come il filosofo greco dopo che il padre aveva letto “La Repubblica” di Platone), dottore in medicina e per qualche decennio medico a tutti gli effetti nonchè impegnato in politica ed ideologo del sistema di autogestione dello spogliatoio del Corinthians (“democrazia corinthiana”), rappresenta un prototipo di calciatore unico.

Chi è avvezzo al calcio di oggi non rimane sorpreso nel vedere atleti di oltre un metro e novanta muoversi con grazia e dotati di grande tecnica. Chi ha conosciuto il calcio degli anni 70 e 80 ricorda quando, al contrario, la tecnica era ad appannaggio esclusivo dei giocatori di medio bassa statura.

Socrates con la maglia della Fiorentina in cui militò nella stagione 1984-’85

E’ del tutto impossibile assistere ad un gesto in cui Socrates non brilli per eleganza. L’incredibile capacità di controllo del corpo (e, soprattutto, del tronco) gli consente di compensare la carenza di velocità con l’attitudine a non perdere tempi di gioco, come in occasione della rete siglata contro l’URSS in cui completa con quattro tocchi una giocata per la cui esecuzione un giocatore normale ne necessiterebbe di almeno sette.

Il movimento con il piede perno, inoltre, lo agevola nel controllo palla a 360 gradi che esalta la sua illuminata visione di gioco. E’ in grado di duettare sul corto e sul medio oltre che di lanciare sul lungo. Per lui giocare di prima è naturale, anche correndo all’indietro.

La palla, quando è in suo possesso, pare volerlo rispettare apparendo in soggezione di fronte al suo incommensurabile carisma che lo ha portato ad indossare la fascia di capitano della nazionale dopo sole 6 presenze.

Più che dribblare gli avversari tende ad aggirarli e, quando è pressato, esibisce il suo proverbiale colpo di tacco, vero e proprio marchio di fabbrica che esegue non solo per stile ma, soprattutto, per alimentare con profitto lo smarcamento del compagno.

E’ il leader carismatico e mentale della squadra.

Nei momenti in cui le cose van bene lascia che siano i compagni a divertirsi per entrare in scena quando la matassa si fa complicata, chiedendo la palla anche quando è marcato. Il portamento regale lo rende riconoscibile in ogni momento della contesa, anche quando da fermo (la mobilità non è il suo forte) si sbraccia per inpartire indicazioni ai compagni che pendono dalle sue labbra come fanno i seguaci di un guru.

Non ha ruolo né posizione definiti, è probabilmente il più credibile tra gli eredi di Hideguti, il fenomenale centravanti di manovra che mandava in rete i compagni dell’Honved e della grande Ungheria, con il quale avrà in comune l’esperienza fiorentina.

Un’esperienza con più bassi che alti per il dottore che, oltre a soffrire i sistemi di allenamento del calcio nostrano, si vedrà rimbalzare da uno spogliatoio orfano del leader Antognoni, quell’anno fermo ai box, in cui le grandi personalità della Fiorentina degli anni 80 poco gradiscono il confronto con il tuttologo brasiliano

Rimangono comunque negli occhi dei tifosi viola giocate di incredibile impatto, frutto della classe e del sapere calcistico di uno dei più grandi calciatori brasiliani di sempre all’esito di una stagione caratterizzata dalla particolarità di aver trovato la rete, in coppa come in campionato, contro le stesse squadre sia all’andata che al ritorno.

Per Socrates non esiste la differenza tra forma e sostanza. La prima è componente necessaria della seconda

Nel Brasile dell’82 è adattato sul centrodestra ma non si pone problemi ad attaccare l’area per far valere la sua abilità nel gioco aereo e a tagliare verso il centro del campo per dialogare con i compagni, in particolare Falcao e Zico, trovati grazie a linee di passaggio che vede solo lui.

La rete che pareggia la sfida contro l’URSS è una perla ma, se cercate un concentrato della sua classe, osservate l’azione del momentaneo primo pareggio contro l’Italia. Vi troverete eleganza, testa alta, controllo del corpo, tempi di inserimento, tecnica e conclusione chirurgica.

Ad effettuare il sorpasso nei confronti dei sovietici, oramai inebetiti di fronte a tante giocate di classe, ci pensa Eder Aleixo de Assis.

In una squadra di calciatori duttili e capaci di fare tutto, rappresenta uno “specialista” nel senso che fa meno cose dei compagni ma sa essere letale.

Il Dio del calcio gli ha donato una capacità balistica di prim’ordine ad appannaggio del piede sinistro (il destro non lo usa mai).

Un mancino potente e chirurgico. Dirompente ma anche raffinato.

Liberato da un finta “visionaria” di Falcao, abbatte il muro sovietico con una bomba al volo da distanza siderale dopo essersi alzato la sfera con lo stesso piede. Si ripeterà qualche giorno dopo contro la Scozia deliziando la platea con uno spettacolare pallonetto.

Temibilissimo sui calci piazzati è l’emblema della sfacciataggine.

Forte del suo aspetto, che lo pone tra i più desiderati dalle donne brasiliane, si atteggia dentro e fuori dal campo con la tracotanza e la faccia tosta di colui che si sente superiore.

Punizione da 40 metri? La calcia in porta.

Calcio d’angolo? Tenta direttamente la via della rete.

E’ il simbolo perfetto dell’edonismo, non solo calcistico, degli anni 80. Nulla è impossibile per il sinistro di Eder.

Come tutti coloro che si beano del proprio aspetto, tende a specchiarsi anche quando non dovrebbe. Chiedetegli tutto ma non morigeratezza…

Superato, non senza affanni, l’ostacolo sovietico, i brasiliani non ci pensano nemmeno a  riconsiderare il loro atteggiamento di superiorità.

Consci delle loro qualità tecniche, affrontano la Scozia senza modificare il copione.       Diagonali, tocchi di prima, linee di passaggio ed inserimenti a turno per un quarto d’ora spettacolare sin tanto che, al primo affondo scozzese, Narey la piazza all’incrocio dei pali.

 A quel punto Zico, che sino a quel momento ha incantato molto ma concluso poco, decide di entrare in scena.

Insacca una punizione delle sue e trascina la squadra con una prestazione sensazionale.

E’ totalmente immarcabile, dribbla, calcia in porta, offrre assist, viene incontro per dialogare, apre spazi. Non lo fermano mai. Di lui abiamo già scritto in questo blog nel racconto dedicato ai grandi 10 della storia del calcio di seguito riproposto:

“Ritiratosi Pelè, ne ha raccolto l’eredità Rivelino, seguito da Dirceu, ma è con Zico che la verdeoro torna agli antichi splendori. Arthur Antunes Coimbra, questo è il vero nome, rappresenta la fantasia al potere. Una fantasia, si badi bene, finalizzata all’efficacia considerato come risulti un chirurgo del goal. Apparentemente non dotato di importanti doti fisiche, è in grado di spostare il pallone “coccolandolo” dal destro al sinistro come volesse addolcirlo. Il dribbling è di quelli che “ti lasciano sul posto” anche in virtù di una finta di corpo con la quale manda al bar gli avversari. La mette in pratica con un movimento del bacino che indirizza il difensore su un lato e, quando questi prova a rientrare su di lui, se ne è già andato via.

Può indifferentemente calciare una punizione dal limite con l’interno, con il collo piede o con le tre dita. Scattategli un’istantanea e coglierete la perfezione del gesto. Come non bastasse il micidiale uno contro uno e la maestria nei piazzati è eccezionale nel mandare in porta chi gli gioca a fianco. Attira su di sé i difensori per far spazio ai compagni anche senza toccare il pallone. La giocata con cui apre a Socrates la via del goal nella sfida del Sarria è poesia allo stato puro.      Leggenda nel Flamengo, con cui nell’81 trionferà nell’Intercontinentale, colorerà di verdeoro la fredda Udine che a distanza di quarant’anni non perde occasione per celebrarlo. Avrà poca fortuna ai campionati del mondo, che pure lo han visto sempre protagonista, ma che in due edizioni su tre affronterà in condizioni non ottimali. Dopo di lui, ci vorrà un decennio abbondante prima che la Selecao torni a glorificare il 10”.

https://www.filippogalli.com/2023/02/20/il-numero-10-la-poesia-del-calcio-in-italia-europa-sudamerica-e-3-parte/

Qualche mese prima del mundial spagnolo ha trascinato il Flamengo alla vittoria in Coppa Intercontinentale schiantando il favoloso Liverpool di inizio decennio.

E’ all’apice della carriera e, cosa in comune con Pelè di cui è considerato l’erede, è in grado di determinare sia come goleador che come assist man.

La partita con la Scozia la sistema lui.

Fan seguito un colpo di testa di Oscar, la solita magia balistica di Eder ed un inserimento chirurgico di Falcao. Un poker di reti in scioltezza e tanti saluti ai britannici.

Dopo due vittorie in due gare, quella con la Nuova Zelanda sarà una formalità.

Santana, tuttavia, decide di schierare anche contro i kiwi la formazione titolare.

I neozelandesi, alla prima apparizione al mondiale, cascano male…

Ciò che  si materializza ai loro occhi li inebetisce.

Zico è il mattatore di un’orchestra diretta da Socrates che porta alla conclusione tutti gli effettivi.

Anche Serginho, seguendo una giocata irreale del Galinho, trova la rete dopo che Falcao aveva come sempre piazzato un diagonale dei suoi.

Al fischio finale parte un’autentica contesa tra gli avversari per accappararsi le maglie dei campioni della Selecao.

Dieci reti in tre partite, segnate in tutti i modi possibili: su piazzato, da dentro area, con tiro da fuori, per combinazione, per giocata individuale, di testa. Un campionario completo di giocate di fino e tanto divertimento per gli spettatori.

In tutto questo splendore estetico, prende corpo anche l’anima empirica della squadra.

C’è un calciatore che sta sorprendendo tutti gli addetti ai lavori.

Non che non si conoscesse il valore di Paulo Roberto Falcao ma il suo rendimento al mondiale è stupefacente.

Più volte calciatore dell’anno in patria, da due anni delizia i tifosi della Roma che al termine della stagione successiva festeggeranno la conquista dello scudetto.

A differenza di illustri compagni che sbarcheranno in Italia negli anni a venire, Falcao ha già arricchito il proprio bagaglio con nozioni ed insegnamenti del calcio europeo.

Ogni sua giocata racchiude senso estetico ed efficacia, eleganza e pragmatismo. I virtuosismi che offre alla platea sono sempre propedeutici all’utilità e, a differenza di altri giocolieri in squadra, è decisivo in tutte le zone del campo.

Chi lo definisce regista o playmaker non gli rende la giusta descrizione

Per il calcio di quel tempo è un passo avanti a tutti.

Scordiamoci il concetto di regista brasiliano dai ritmi lenti e dal poco dinamismo.

Falcao è molto più di un costruttore di gioco. Al contrario di molti connazionali che si divertono a toccare la palla spesso e volentieri, riduce al massimo il numero di tocchi perchè sin da giovane ha compreso che il tempo di gioco è tutto.

E’ per questo che, giocando spesso di prima, tende a colpire la sfera di petto e di testa avvantaggiato dal fatto che, mentre sta per ricevere palla, ha già in mente lo sviluppo successivo dell’azione.

Sembra avere gli occhi di dietro o, se preferite, sembra in possesso di un radar.

Ha in comune con Michel Platini la caratteristica di inziare l’azione e concluderla dopo aver dettato il passaggio ma, a differenza del francese abituato ad agire sulla trequarti avversaria, il nostro parte dalla propria metà campo.

Non è veloce Falcao ma arriva sempre prima degli altri disegnando il campo con portamento regale da nobile ottocentesco; un “architetto” che con le sue movenze sposta compagni ed avversari come fossero pedine

Per molti campioni si tende a utilizzare la locuzione “calciatore intuitivo”. Per lui l’aggettivo corretto è “deduttivo” perchè ogni movimento che esegue è dettato dalla razionalità e dalla capacità di prevedere ciò che sta per accadere.

Raro che Falcao sbagli un’esecuzione, impossibile che sbagli una scelta. 

In alcune circostanze risulta determinante per l’esito dell’azione pur senza toccare la sfera inducendo gli avversari a seguirlo e liberando in tal modo i compagni sul lato opposto.

Memorabile un’azione della Roma nella stagione 81-82 in cui, al cospetto della capolista Fiorentina, fa partire l’azione dalla propria area di rigore e vistosi scavalcato da una palla imprecisa, una volta arrivato nei sedici metri avversari, la accarezza di tacco al volo trasformandola nel più comodo degli assist per Pruzzo.

Nonostante l’innata eleganza, non si tira indietro nei contrasti che lo vedono spesso vincitore grazie al timing perfetto.

Quanto dianzi raccontato è sufficiente a descriverne la grandezza se non vi fosse un altro  particolare di non poco conto considerato come trovi il goal con assidua continuità.

Superata con lode la fase a gironi, tutto pensava il Brasile tranne che incontrare Argentina e ed Italia nel girone a tre della seconda fase ma, in seno ad una formula studiata per portare in semifinale le due sudamericane con Germania Ovest e Spagna, sia gli argentini che gli azzurri si sono classificati secondi nel girone iniziale.

Ciò comporta che le sfide tra compagini tutte vincitrici in passato della coppa del mondo si giochino nel piccolo stadio Sarria di Barcellona.

La FIFA tenta un’inversione dei campi di gioco con altro girone per spostare le gare al Camp Nou ma oramai i biglietti sono venduti ed il programma non può essere modificato.

La partita con l’Argentina campione uscente è un confronto impari.

Da una parte una squadra a cui tutto viene facile, corale nei movimenti leggiadri, con vari solisti che a turno si prendono il proscenio, dall’altra un’armata di calciatori dall’indiscusso valore in preda ad un isterismo non più controllabile.

Già sconfitti dall‘Italia, agli argentini non riesce nulla di quanto riusciva loro quattro anni prima. L’innesto del grande Maradona non li aiuta. Anzi, se possibile, li rende ancora più fragili considerato come il Flaco Menotti, vittima di un senso estetico non più sostenibile, ripeta l’errore di presunzione commesso contro gli italiani mandando la propria squadra allo sbaraglio.

Vero è che nei dieci minuti iniziali gli argentini attaccano e stazionano nei dintorni dell’area avversaria ma trattasi di giocate individuali, dettate da rabbia e foga, non frutto di quel collettivo compatto che quattro anni prima aveva trionfato.

Al’11’ minuto Eder scaraventa sulla traversa una punzione a 174km/h con Fillol che, più che cercare la parata, sembra intento a preservare la propria incolumità. Sulla ribattuta Zico è svelto ad anticipare compagni e avversari.

Eder, ala sx del Brasile, dotato di un tiro di rara potenza

Vantaggio Brasile, da lì in poi sarà uno show.

L’atteggiamento degli argentini con quattro giocatori che si disinteressano della fase difensiva comporta degli spazi tra le linee in cui i brasiliani fanno quello che vogliono.

In un contesto del genere  Carlos Antonio Cerezo, detto Toninho, diventa incontenibile. I centrocampisti avversari se lo vedono sbucare da ogni angolo, forte di un dinamismo che lo materializza empre nella zona ove staziona il pallone. Che sia per impostare l’azione, per contrastare l’avversario o per portare sostegno ad un compagno è sempre vicino al cuore del gioco.

Contrasta come un “cagnaccio”, vede il gioco come un regista, corre con leggerezza ed è in grado di attaccare più avversari nella stessa azione con un pressing “ad elastico” che gli permette di muoversi in diagonale accorciando sempre le linee di percorrenza

Chiamato a Roma da Liedholm, sarà protagonista anche con Eriksson in un centrocampo che, salutato Falcao, avrà in lui, Boniek ed Ancelotti tre massimi esponenti della doppia fase.

Godrà di un rapporto privilegiato con i tifosi per via del suo approccio più “popolare” rispetto all’aristocratico Falcao e per quel senso di allegria che sin da bambino, cresciuto in una famiglia di clown ed artisti circensi, lo contraddistingue.

Lasciata la capitale disegnerà calcio nella Samp di Boskov, facendo incetta di coppe e vincendo il tricolore prima di concludere la carriera salendo sul tetto del mondo con il Sao Paulo alla veneranda età di 39 anni.

Nonostante i chilometri percorsi dà sempre la sensazione di leggerezza.

Per comprendere l’importanza di Cerezo nella Samp scudettata, basti pensare che Boskov decide di schierarlo nel big match di San Siro contro l’Inter, che decide l’esito del campionato, dopo mesi di assenza dai campi.

Nel frattempo, in tribuna, il CT italiano Enzo Bearzot si appunta mentalmente alcune situazioni. E’ ovviamente incantato dal gioco dei brasiliani che raddoppiano con Serginho servito alla perfezione da Falcao e fanno letteralmente venire giù lo stadio in occasione del terzo goal all’esito di una combinazione Junior-Zico-Junior che vede il dottor Socrates “offrire” lo spazio al compagno con un movimento senza palla che manda al bar l’intera difesa albiceleste.

Eh si perchè, non bastassero Falcao e Cerezo, ad innestare ulteriore visione di gioco e qualità in mezzo al campo ci sta pure Leovgildo Lins da Gama detto Junior.

Un leader nato.

Ad uno così, che sarebbe il fulcro della squadra in tutte le altre 23 nazionali del mondiale, non si può rinunciare.

Santana si ricorda che ha cominciato la carriera da esterno difensivo prima di dominare da playmaker nel Flamengo campione del mondo e lì lo colloca.

Occupa la posizione di terzino sinistro ma, in realtà, agisce sempre in proiezione offensiva.        In alcune circostanze avvia la prima costruzione partendo dal lato. Quando, viceversa, avanza palla al piede, più che correre tende a ballare per poi chiedere lo scambio ad un componente del quartetto Cerezo-Zico-Falcao-Socrates

Alla conclusione ci arriva con la medesima coordinazione sia di destro (il suo piede) che di sinistro.

Tre anni di magistero nel Torino di Radice gli varranno importanti riconoscimenti e non c’è appassionato italiano che non ricordi le sue esecuzioni su punizione o calcio d’angolo.

Rispetto ad altri centrocampisti brasiliani, che tendono a giocare sul breve, è abile anche nel lancio lungo e nel dribbling.

Condivide con Falcao la peculiarità di essere sempre padrone visivo dell’evento e, quando i dissapori con il tecnico ed alcuni compagni lo allontano da Torino, a Giovanni Galeone non pare vero consegnargli le chiavi del suo Pescara con l’allora capitano, Giampiero Gasperini, che al primo allenamento gli cede la fascia di capitano.

Bearzot, che lo ammira tantissimo, sarà felicissimo quando verrà acquistato dal “suo” Toro. Ma in quel momento il CT azzurro sta osservando altro. Ha notato che davanti a Junior staziona Eder il che significa che quando attaccano sull’out sinistro sono sempre in superiorità.

In un paio di occasioni, a dire il vero, Bertoni e Maradona da quella parte sono andati via complice lo spazio che si apre dietro le spalle di Junior ed alla sinistra di Luisinho, non sempre rapido nello scalare di posizione.

Il risultato fnale però recita 3-1 per il Brasile e siamo a 13 goal in 4 partite.

Al termine del mondiale saranno 15 in 5 gare.

Ma la corsa dei brasiliani si fermerà prima del traguardo, secondo alcuni per eccesso di narcisismo o poca attitudine ad accontentarsi del pareggio.

I 4 difensori brasiliani schierati nella partita con l’Italia – da sx in alto in senso orario: Leandro, Oscar, Luisinho e Junior

Di sicuro, i ragazzi di Santana non eccellevano nella gestione del risultato ma chiedere a loro di accontentarsi del 2-2 contro gli azzurri che senso avrebbe avuto?

Due marcature su tre subite a difesa schierata, una di queste addirittura su corner. Perchè avrebbero dovuto snaturarsi?

Certo è che nel buco apertosi tra Luizinho e Junior l’Italia ha costruito la propria vittoria.

Le formazioni della partita, Italia-Brasile, del Mondiale giocato in Spagna nel 1982

Sarà forse per questo che il grande Leo al momento di firmare per il Toro pretese garanzie sul fatto che avrebbe giocato a centrocampo…

Il viaggio di ritorno in patria dev’esser stato l’emblema della tristezza.

Che l’aereo fermasse prima a San Paolo o a Rio non aveva più importanza.

Ma chi nel 1982 era già in età di comprendere il calcio non potrà negare d’esser stato rapito da tanta poesia calcistica almeno sino al 5 luglio di quell’anno.

Note a margine

  1. Telè Santana condusse il Brasile dalla panchina anche in occasione del mondiale messicano del 1986. Socrates, Zico, Junior e Falcao erano ancora presenti mentre Dirceu e Cerezo dovettero rinunciare per infortunio. Nell’86, peraltro, la nazionale verdeoro andò ancor più vicina alla vittoria, eliminata dalla Francia in una partita in cui a fallire dagli undici metri furono Zico (durante i tempi supplementari), Socrates e Platini (ai calci di rigore). Nell’edizione dell’86 il portiere ed il centravanti non rappresentavano più un problema perchè Carlos tra i pali e Careca in attacco ebbero un ottimo rendimento. La buona sorte, tuttavia, girò le spalle al Brasile dopo un quarto di finale in cui avrebbe oggettivamente meritato la vitttoria.
  2. Toninho Cerezo, regolarmente convocato per il mondiale messicano, dovette dare forfait a causa di un problema muscolare. Anzichè godersi da spettatore la competizione iridata, il suo senso di professionalità lo fece tornare a Roma poiché la propria squadra di club nelle settimane successive avrebbe giocato la finale di Coppa Italia. Già privi dei nazionali Boniek, Nela, Conti e Righetti, ai giallorossi non parve vero poter contare su Cerezo, anche se per pochi minuti comunque sufficienti a siglare il goal vittoria, ironia delle sorte, proprio contro la Sampdoria per cui avrebbe giocato da lì a poche settimane.

Alessio Rui con Zico e Falcao

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

6 risposte

  1. Nel 1982, parlando con i miei colleghi di lavoro, sostenevo, che l’Italia era più efficace del Brasile, sia nella fase difensiva che in quella di contrattacco e per questo forse avremmo vinto i mondiali.
    Sostenevo che la squadra era molto equilibrata, anche in termini di tecnica e rendimento. Soprattutto, mi piaceva la struttura e le diverse attitudini ed abilità della linea del centrocampo. Non intendevo solo i tre centrocampisti puri Oriali, Tardelli e Antognoni stupendamente complementari), ma guardavo al supporto di Scirea, da dietro e di Cabrini e Conte sulle fasce (questi ultimi due potenza di corsa (Cabrini) e fantasia (Conte). Poi, avevamo il killer Rossi e un Graziani in formato attaccante tornante.

    Quanto poi ai difensori, non c’è neanche da discutere.

    Insisto nel dire che eravamo la squadra più completa, ma come diceva il grande Gianni Brera eravamo una “squadra femmina”, che più che imporre il proprio gioco si adattava all’avversario di turno.

    Il Brasile come rosa di qualità ci era superiore, ma non aveva la nostra compattezza e capacità di adattamento.

    Non perse solo 3 a 2, il gol di Antognoni era buona ed avrebbe chiuso la partita.

    Due notazioni: Zico quando venne all’Udinese disse, che se in difesa avessero avuto lo stopper dell’Udinese avrebbero vinto il mondiale.

    La bellezza degli allenamenti del Brasile, poichè ricordo un giornalista (non ricordo se l’ho sentito in tv o l’ho letto sul giornale), “adesso andiamo a godere guardando allenarsi i verde-oro”.

    Alessio, mi complimento per il tuo articolo, prendendo spunto dalla tua giusta mania (che è anche la mia) dei tempi di gioco, normalmente l’efficacia è più forte della bellezza. L’efficacia è strettamente correlata con il rispetto dei tempi di gioco, la bellezza spessissimo li ritarda.

    1. Gentile Giuseppe.
      Sono d’accordo nel senso che a volte la ricerca del ricamo, con il tocco in più, compromette il tempo di giocata.
      Ciò premesso, ci sono esempi, più nel passato che nell’attuale, in cui i tempi di gioco erano perfetti grazie alla bellezza.
      Roberto Mancini, ad esempio, non era veloce nè potente ma la sua innata eleganza gli consentiva di coordinarsi in maniera leggiadra e grazie ad una tecnica sublime effetuare il controllo a seguire e prendere quel tempo di vantaggio. Lo stesso Antognoni faceva della bellezza la sua forza per non perdere il tempo di gioco.
      Anche Predrag Mjiatovic, da buon balcanico, grazie alla belezza acquisiva tempi di gioco.
      Ma in generale concordo con te. Ci sono calciatori che ritardano la giocata a discapito del colpo ad effetto. Ma quella non è bellezza, è ricerca dell’inutile.
      Quanto a quel Brasile, Cerezo e Falcao, ancorchè con caratteristiche diverse, erano maestri nei tempi di gioco.
      Detto ciò, non credo che il Brasile abbia perso contro di noi per una questone di mancati equilibri, poichè ha preso goal a difesa schierata. Ha peccato di attenzione e non ha coperto le spalle a Junior. Almeno questo è il mio pensiero.

  2. Alessio,
    come al solito abbiamo pochissime differenze di vedute tra di noi. Vero che il Brasile ha preso gol a difesa schierata, quindi o noi eravamo bravi nell’attaccare, o loro poco abili nel difendersi, o una via di mezzo.
    Sostanzialmente, nella realtà, credo che ci abbiano alquanto sottovalutati.

  3. Per chi ha vissuto in Brasile come é successo a me é un articolo che va oltre il parlare di una seleção tra le più forti e belle. Nonostante la quantità di fuoriclasse e talenti in ogni Brasiliano ancora oggi il nome di Pablito Rossi riecheggia come un risveglio direttamente in un incubo. Ma é stata una seleção meravigliosa con un calcio avanti di qualche decennio. Bellissimo articolo complimenti

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