Mister, il “ metodo Conte” è antiquato?
E……, in cosa consiste?
Apro la chat e trovo queste domande formulate da un giovane collega.
Caro Vincenzo (nome di Fantasia), non sono d’accordo sull’espressione antiquato, e circa il cosiddetto “metodo Conte”, neanche su quest’ultima, perché altro non si tratta di un modello di “preparazione precampionato “molto diffuso.
Essa è organizzata su blocchi metabolici gerarchizzati dove, specie nella seduta antimeridiana privilegia molto il lavoro a secco, principi comuni in chi si riconosce in questo modello di lavoro frazionato.
Nel corso della stagione agonistica, Il lavoro si sviluppa in maniera lineare e progressiva secondo i principi del classico microciclo settimanale (dove persiste la logica della separazione) in cui nei primi giorni si interviene fisicamente in maniera consistente ( soprattutto il mercoledì con la doppia seduta), mentre negli ultimi allenamenti, specie quelli prossimi alla gara, è previsto un impegno tecnico-tattico prevalente.
Il tutto sempre eseguito ad altissima intensità.
Niente di antiquato, ma neanche nulla di nuovo.
Circa lo stile di conduzione, esso è autoritario, prescrittivo e direttivo.
Anche qui nulla di nuovo.
Dal punto di vista tattico, opera per settori e per fasi distinte con codifiche e i cosiddetti “ schemi “.
Tutto questo perseguito con un numero elevato di ripetizioni.
Mi chiedi se è giusto? Ti rispondo così: per lui si!
Ed è questo ciò che conta. Vuoi sapere se lo condivido? No.
Però fa vincere comunque…evviva la varietà!
Noi, invece riteniamo il gioco del calcio un sistema aperto, il cui sviluppo muta e cambia in continuazione, integrato, che va osservato, compreso e allenato ologrammaticamente e non in maniera polittica ( nel linguaggio letterario, opera letteraria, teatrale, musicale, risultante di più parti, anche autonome per quanto riguarda lo stile e il contenuto, ma comunque fra loro collegate), non-lineare, dove le situazioni di gioco si presentano in maniera non sempre sequenziale, caotico, con inaspettati e improvvisi mutamenti contestuali dove a prevalere sono l’incertezza e l’imprevisto.
Il suo manifestarsi provoca autorganizzazioni e autocostruzioni continue, in quanto una medesima variabile in partite, se non addirittura in momenti diversi della medesima gara, può esercitare una differente influenza.
Difatti, spesso è sufficiente una semplice sfumatura, a determinare una grande perturbazione al suo sviluppo.
A tale riguardo, mi sovviene in mente Dante Alighieri, quando nel primo canto del Paradiso scrive: POCA FAVILLA, GRAN FIAMMA SECONDA ( una piccola scintilla può provocare un grande incendio).
Allora se la carta d’identità del gioco è complessa, non si può evitare di confrontarsi con l’approccio sistemico, prendendo in esame le varie entità in interazione reciproca tra di loro.
Dentro a questo sistema, i calciatori agiscono sempre come unità inserite entro un contesto, dove eventuali miglioramenti individuali e/o di un singolo reparto esercitano i propri benefici effetti su tutto il sistema, tali che da modificarne e trasformarne i “ connotati”.
Così come, le singole componenti non possono svilupparsi indipendentemente dal sistema in cui sono immerse.
È una visione aperta, dialogica, possiede una direzione, ma non ha un punto di arrivo prefissato.
Questa visione rappresenta una grande sfida per i metodi di allenamento, che generalmente presuppongono una di tipo accumulativa , sommativa, predefinita.
Ciò confligge fortemente con quello che succede durante la gara.
Infatti, dalle squadre emergono proprietà e comportamenti collettivi senza che sia possibile spiegarli scientificamente a priori, poiché proprio questi comportamenti emanano dalle loro interazioni interne ed esterne
Ciò significherà disimparare ciò che abbiamo imparato nel quadro tradizionale, per fare spazio a una maggiore complessità, per osservare meglio il gioco, acquisire più informazioni e provare a interpretarle rispettando il caos specifico del calcio.
Dobbiamo ridurre l’automazione del gioco.
Perché, se automatizziamo il gioco, non li batteremo mai” ( Seirul·lo nel libro Pep Guardiola: “la metamorfosi”).
Siccome le situazioni di gioco cambiano costantemente, dobbiamo tutti essere disponibili ad adattarci, a cambiare, a individuare soluzioni continuamente..
Ma tutto questo ha valore se si incomincia da subito.
Ne deriva che il percorso formativo del giovane calciatore non può essere concepito solo come progressiva e lineare acquisizione di abilità motorie ma soprattutto come un processo di inibizione e decostruzione di gesti, rispetto ai problemi di risoluzione posti dalla situazione emergente.
È il contesto diverso che influenza notevolmente il comportamento del giocatore.
Ecco perché la tecnica deve essere lavorata con molta variabilità.
Quanto più diverse sono le situazioni, tanto più i bambini potranno sperimentare soluzioni diverse, tanto più saranno in grado di percepire, decidere e agire. Infatti, più si amplia la variabilità e più migliora l’adattabilità dei giocatori.
Per far sì che questo accada è fondamentale creare un ambiente adeguato, in modo tale da agevolare i processi d’apprendimento dell’individuo.
Il primo aspetto fondamentale per creare un’ambiente sportivo ideale è quello di progettare un ambiente caratterizzato da relazioni positive tra i soggetti, in quanto un’atmosfera socio-affettiva favorevole può aiutare il giovane a concentrarsi sull’apprendimento e sull’interazione con l’ambiente.
Anche l’allenatore svolge un ruolo determinante nella definizione dell’ambiente, infatti, è attraverso lo stile di conduzione dell’allenamento e la manipolazione dell’ambiente che l’allenatore può stimolare l’apprendimento.
Inoltre, l’allenatore deve assumere un approccio olistico, sviluppando un ambiente che soddisfi le esigenze di ogni membro attraverso un atteggiamento inclusivo.
Per questo, ritengo che utilizzare un approccio ecologico nell’allenamento sia utile per massimizzare la performance, in quanto, stimola la creatività, l’auto-organizzazione e l’individualità del soggetto, aspetti fondamentali per la crescita e lo sviluppo del giovane calciatore.
Infine, dobbiamo evitare assolutamente che i bambini si specializzino troppo presto.
In altre parole, non guardare un bambino di 5 o 6 anni e dire: “Sei un difensore”. Io direi anche di non guardarlo e dire “sei un calciatore”.
Pensa a lui come a un bambino in via di sviluppo che ha bisogno di divertirsi, divertirsi e giocare. Deve avere voglia di continuare a tornare ogni settimana.
C’è una cosa che nel calcio è chiara, e sta emergendo anche in questi campionati europei, ed è che nessuno è capace di ripetere un gesto tecnico nello stesso modo.
I calciatori sono sistemi complessi e non sono in grado di reiterare esattamente un movimento, nemmeno in condizioni di laboratorio. Ci sono sempre fattori, specie di natura emotivo-affettivi, che cambiano la situazione, oltre ai parametri di forza, angolazione del movimento, motivazione del giocatore, che rendono ogni azione diversa dalle altre.
Se addirittura in condizioni di laboratorio non siamo in grado di ripetere lo stesso gesto due volte di seguito, ha senso cercare di regolare il gesto di un giocatore o immaginare un gesto tecnico ideale?
Allora, se il contesto in cui il giocatore dovrà compiere un gesto non è mai lo stesso, devo allenarlo nella variabilità.
La pedagogia non lineare propone una metodologia di apprendimento autorganizzato, che favorisce le capacità di ricerca delle soluzioni da parte dei calciatori che li renda autonomi, responsabili e solidali
La percezione e la comprensione sono pilastri del processo di apprendimento, grazie ai quali i calciatori, già dalla prima formazione, impareranno a identificare gli stimoli rilevanti nello spazio di gioco.
E’ il vissuto agito, quindi, che renderà il calciatore capace di mettere in pratica il proprio apprendimento in situazioni di pressione temporale, spaziale o ambientale cangianti, caratteristiche tipiche del gioco.
Il paradigma metodologico prevede che il calciatore sia capace di captare le informazioni e di risolvere i problemi reali del contesto: affinché l’apprendimento sia significativo, l’insegnamento deve essere contestuale.
Lo staff tecnico in questo paradigma non istruisce, ma crea varie condizioni, specie di incertezza, affinché l’apprendimento avvenga: allenare, e soprattutto nei giovani calciatori, è aiutare, sostenere, e perché no, “complicare”.
4 risposte
È vero, non è nulla di nuovo, è quello che gli faceva fare Mazzone a Lecce, solo che qui ha i preparatori altetici di scuola arcellianana, che Mazzone non aveva, e non si fanno più le marcature a tutto campo.
Per il resto analitico, urla, preparazione a secco coi picchi, partite ombra e squadre che corrono e menano.
Comunque vince solo col ds giusto, come (quasi) tutti.
Più che avversare il metodo a me non piace il risultato, non è quasi mai venuto fuori il bel gioco.
Zeman (per citare uno che fa la preparazione a secco, le partite ombra e l’analitico, e che ha vinto solo coi Ds bravi, Pavone, Corvino) diverte molto di più.
A PROPOSITO DELLA FATICA
È l’argomento dominante dei corrispondenti dei giornali che sono a Dimaro e al Training Center di Torino, rispettivamente luoghi in cui i nuovi allenatori di Napoli e Juventus, stanno svolgendo la preparazione precampionato.
Nulla circa l’idea che essere preparati atleticamente non sia fondamentale nel calcio moderno, anzi. E nessuna critica sulle metodologie di lavoro che utilizzano Conte e Motta, e sulla elevata ( spropositata?) quantità del lavoro a secco che viene somministrata quotidianamente.
Però! Non è che per essere efficace sto lavoro abbiamo la convinzione che il calciatore debba vomitare, se non addirittura stramazzare al suolo? Veramente si crede che questo sia sinonimo di un buon lavoro?
Ebbene, alcuni dati al riguardo:
nella Serie A appena conclusa la Lazio è stata prima per distanza media percorsa (115 km), Inter campione d’Italia solo quinta.
Per distanza media corsa ancora la Lazio prima (68 km), Inter ancora una volta quinta. Nella distanza media scatto il Sassuolo è settimo (9 km) contro i 7,8 del Genoa ultimo. Chi si è salvato tra i due club? Ironicamente, chi aveva sputato di più sangue nei rispettivi ritiri?
Ecco, in un contesto che banalizza temi così interessanti, così formativi, che potrebbero elevare la cultura professionale e perché no, anche il livello di conversazione tra i tifosi, vi lascio con un pensiero che ci deve sempre venire in soccorso, ogni qualvolta leggiamo che una squadra perde, perche non ha corso a sufficienza:
“Il giocatore più veloce nel calcio non è quello che percorre più velocemente una determinata distanza, ma quello che risolve più velocemente una situazione di gioco.”
Condivido tutto in pienò nell’ utilizzare un approccio olistico nel l’allenamento dei giovani calciatori! Ma secondo me è sbagliato paragonare l’approccio di Mister Conte che ha giocatori evoluti che già hanno una comprensione del gioco evoluta e forse cerca di automatizzare certe cose in modo tale da guadagnare dei tempi di giocata che possono sorprendere gli avversari ,con la metodologia dei ragazzi giovani che non hanno ancora la comprensione del gioco? Cioè paragonare i due approcci secondo me non va bene perché uno può’ essere vincente con giocatori evoluti e l’altro è vincente cioè quello olistico nella formazione dei ragazzi!
Intanto, ringrazio gli intervenuti. Circa le osservazioni che pone Giuseppe in merito all’approccio olistico e aggiungo sistemico a cui faccio riferimento, ritengo che considerata la logica del gioco e soprattutto di come si manifesta, debba essere la costante del percorso di formazione e sviluppo del calciatore, specie del calcio di alto livello, dove le relazioni che determinano le varie situazioni, spesso di incertezza e imprevedibilità, richiedono una grande disponibilità di adattamento. E questa capacità può essere allenata solo utilizzando contesti variabili e perturbanti, proprio per evitare che si instaurino rigidi automatismi. Pur ritenendo che essi siano importanti, tuttavia, ripeto, che le autorganizzazioni siano gli aspetti prevalenti di questo gioco.
E questo si persegue utilizzando il metodo del gioco, che riproduce situazioni simili alla gara e quindi al modello prestativo dello sport-specifico, che è costituito da continue e mutevoli attività di cooperazione/opposizione. Codificare le giocate potrebbe ancora trovare una sua giustificazione, ma, senza esagerare