Curiosa è spesso l’analisi dei numeri. Questa pratica, all’apparenza fredda e contabile, nasconde alcune verità che sono innegabili. Se poi vengono esaminate nel mondo dello sport, diventano motivo di riflessione. La vittoria della Spagna a EURO’24 è già storia, ma per alcuni è soltanto l’inizio di un nuovo ciclo vincente, data la giovane età di alcuni suoi interpreti, come Niko Williams e Lamine Yamal. La destinazione geografica di questa edizione offre poi un altro interessante raffronto. Il mondiale tedesco del 2006 per la Spagna è stato deludente, nonostante l’ottimo andamento nel girone eliminatorio con tre vittorie, otto gol fatti e uno subito. L’incrocio degli ottavi con una grandissima Francia, tuttavia, fu fatale e così gli uomini di Aragones furono eliminati per l’ennesima volta, attirandosi le consuete critiche di chi vedeva nelle Furie Rosse un’eterna incompiuta.
Tanta classe ma poca concretezza, dicevano.
Da contraltare, il 2006 è stato il nostro ultimo successo mondiale. Berlino ha rappresentato lo scenario della gloria, il coronamento di un percorso biennale sotto la guida di Marcello Lippi, che era riuscito a creare un gruppo vincente e coeso, avendo comunque un capitale umano e tecnico di altissimo livello. Da allora, per noi poche soddisfazioni, eliminazioni tragicamente storiche nell’ordine dell’apocalisse sportiva, anche se una gioia – la vittoria dell’Europeo del 2020 – ha un po’ messo da parte critiche e delusioni cocenti, rinviando a data da destinarsi un serio ragionamento sul nostro sistema calcio che si è rifatto impellente. La Spagna invece è ripartita dalla sconfitta contro i francesi e ha costruito, a partire dall’edizione di EURO 2008, un ciclo vincente. Certo ci sarebbero stati dei passaggi a vuoto, delle prestazioni al di sotto delle aspettative, ma dal 2006 in poi la Spagna ha messo in mostra un modello di calcio che viene impartito già dalle giovanili e che è in grado di unire un paese con tante differenze comunitarie e territoriali.
A livello di nazionali maggiori, gli iberici hanno vinto tre campionati europei (2008, 2012, 2024), un titolo mondiale (2010) ed è detentore della Nations League. A questi successi può essere aggiunto anche un piazzamento importante, la semifinale ai campionati europei del 2020. Gli Azzurri hanno vinto il campionato europeo del 2020, un successo indimenticabile ma che ha rappresentato una parentesi tra due umilianti eliminazioni dai campionati del mondo.
A livello giovanile, se consideriamo la competizione europea più importante, il torneo Under-21, la Spagna ha vinto ben tre europei, noi al contrario non vinciamo questo torneo da vent’anni!
Il confronto diventa impietoso se si vanno a considerare i successi dei club che sono la cartina di tornasole sullo stato di salute del calcio nazionale. Dopo il 2006, che è il nostro punto di partenza in questa analisi, la Spagna ha vinto ben nove Champions League, tre il Barcellona e sei il Real Madrid. L’Italia ha ottenuto solo due successi, collocati in uno spazio temporale lontano: il Milan nel 2007 e l’Inter nel 2010. Poi abbiamo partecipato ad alcune finali, negli anni 2015, 2017 e 2023.
Ma a dare un ulteriore senso a questa riflessione, che può sembrare sterile all’apparenza, è il numero di Europa League vinte da formazioni spagnole. Ebbene, dal 2006 sono dieci le Coppe finite dalle parti di Siviglia, Madrid e Villareal, mentre solo quest’anno l’Atalanta, che ha una chiara idea di calcio (ecco l’importanza di un progetto basato sul gioco) è riuscita a riportare in Italia un trofeo che fino alla stagione 1998/1999 era di casa da noi. Abbiamo perso delle finali anche in modo rocambolesco (2020 e 2023), ma davvero troppo poco per chi era abituato a fare incetta di titoli europei.
È chiaro, i successi dei club possono anche dare una visione incompleta del fenomeno, basti pensare per l’appunto alle nostre affermazioni in campo europeo negli anni 80 e 90 che non hanno poi avuto un riscontro immediato a livello di vittorie internazionali della nostra Italia. È una questione di mentalità e di know how che gli spagnoli hanno incarnato da tempo e che è diventato il distintivo del loro essere sul campo. Di base c’è una filosofia di gioco, improntata sul possesso palla che soprattutto in questo Europeo ha saputo essere efficace. Lo scrivevamo qualche tempo fa: se la Spagna non esagera con il possesso palla, con questa pratica edonisticamente sterile, potrà dire davvero la sua.
E così è stato.
Si parlava di know how, quel saper fare che in Italia di solito fa riferimento alle piccole e medie imprese. Mi viene in mente la cantera del Barcellona, un laboratorio di talenti, dove certi valori vengono inculcati già dalle prime partite degli esordienti, come il possesso palla e il calcio come estetica. D’altronde non potrebbe non essere così nella città di Gaudì e Mirò.
Poi c’è dell’altro che può essere quello che di cui parlava Borja Valero in un’intervista su radio rai 1, allorquando riferiva del suo passato al Real Madrid, più precisamente del suo apprendistato nel Castilla, la seconda squadra dei blancos, dove i ragazzi si fanno le ossa e iniziano a formarsi per essere pronti per la prima squadra. Secondo un recente sondaggio nella Liga, ci sono soltanto il 37,7% di stranieri. Questo è un numero inconfutabile, che la dice lunga sull’importanza data al capitale umano nazionale.
In Italia, invece, gli stranieri sono il 61,7 %, una percentuale non molto distante da quella della Premier League (60,6%), ma che da noi pare essere un’aggravante. Ma proprio in Inghilterra esiste la Professional Development League, un campionato competitivo dove vi giocano le seconde squadre formate da calciatori under 21. Per restare ai campionati top, anche in Germania esiste un modello simile a quello inglese, seconde squadre che invece giocano nelle serie minori, come in Spagna. In Italia questo modello esita a decollare: soltanto Juventus, Atalanta ed ora Milan hanno avviato un progetto sulle seconde squadre.
I successi della Spagna sono un mix di cultura calcistica e di valorizzazione dei giovani, utilizzati già da precoce età nelle prime squadre, di cui è esempio lampante Yamal del Barcellona che ha esordito nella Liga all’età 15 anni 9 mesi e 16 giorni. Anche Pioli, va detto, ha avuto il coraggio di far esordire Camarda in prima squadra, stabilendo il record del più giovane esordiente in Serie A (15 anni e 260 giorni).
Ma sono esempi sporadici.
Sicuramente da noi manca il coraggio di lanciare i giovani e di aspettarli.
Ma è anche vero che non basta investire per vincere.
Inghilterra e Belgio hanno fatto importanti investimenti nel settore calcistico, puntando sui giovani, ma al momento hanno raccolto poco. Per vincere una competizione importante servono diversi fattori, non ultimo anche un pizzico di fortuna, ma l’unicum della Spagna sta nella sua filosofia e nella sua cultura calcistica.
Eppur qualcosa si muove dalle nostre parti.
L’Under-17 ha appena vinto l’Europeo di categoria, l’Under-19 sta difendendo il titolo in Irlanda del Nord, infine siamo arrivati secondi nel Mondiale Under-20 dello scorso anno.
I talenti ci sono, vanno valorizzati.
Ricordare la gloria di Berlino 2006 e cancellare il brutto Europeo appena finito, guarda caso proprio nella capitale tedesca, sarà l’imperativo che ci deve riportare laddove dovremmo essere.
Da Berlino a Berlino tanto è cambiato, lo dicono i numeri freddi dei successi spagnoli, che in realtà celano un modello che tutti invidiano e che rappresenta un’assoluta eccellenza nel panorama calcistico mondiale.
BIO VINCENZO PASTORE:
Pugliese di nascita, belgradese d’adozione, mi sento cittadino di un’Europa senza confini e senza trattati.
Ho due grandi passioni: il Milan, da quando ero bambino, e la scrittura, che ho scoperto da pochi anni.
Seguire lo sport in generale mi ha insegnato tante cose e ho sperimentato ciò che Nick Hornby riferisce in Febbre a 90°: ”Ho imparato alcune cose dal calcio. Buona parte delle mie conoscenze dei luoghi in Gran Bretagna e in Europa non deriva dalla scuola, ma dalle partite fuori casa o dalle pagine sportive[…]”
Insegno nella scuola primaria, nel tempo libero leggo e scrivo.