LA COMPLESSITÀ NON SI INSEGNA E NON SI ALLENA, SI VIVE

“La complessità non si spiega, si vive”

(Edgardo Zanoli)

“…facendolo lo impariamo, come per esempio costruendo si diviene costruttori e suonando la cetra citaristi. Allo stesso modo anche compiendo atti giusti si diventa giusti mentre si diventa temperanti compiendo atti temperanti, e coraggiosi compiendo atti coraggiosi”

 (Aristotele, Etica Nicomachea pag.59)

Viviamo nel tempo presente, gran parte di quello cui abbiamo a che fare ogni giorno è un imprevisto.

Il senso di imprevedibilità è alla radice della parola “improvvisazione”, che deriva dal latino improvisus, che, appunto, significa “non previsto”. La vita comporta molte cose che non possiamo pianificare passo dopo passo ma alle quali dobbiamo comunque  rispondere, e giocare al calcio non sfugge a questa considerazione..

Infatti, giocare a calcio è un’attività complessa e caleidoscopica e richiede la mobilitazione di tutti gli strumenti di cui siamo dotati, specie di quelli “ sensoriali”, solo così possiamo percepire e dare senso agli eventi che accadono e ai loro legami con la logica del gioco, e per poter esprimere la nostra comprensione, fino a saper cogliere anche una singola sfumatura per poter risolvere la specifica situazione.

Se vuoi comprendere il mondo che ti circonda, devi immergerti in esso.

Chi gioca a calcio è impegnato in una delle attività sportive più complesse tra quelle svolte dagli esseri umani. Perché, per giocare a calcio non basta saper trattare bene la palla, oppure correre più degli altri ecc…, ma compiere costantemente atti di percezione, pianificazione, e previsione, dando senso e significato non solo al suo operato (agito consapevole) ma interpretando tutto ciò che si muove intorno a lui (palla, compagni, avversari, arbitro, allenatore ecc.) e tutto quello che potrebbe succedere nell’istante successivo.

Questa comprensione del mondo circostante nasce dalle interazioni del nostro sistema mente/corpo con l’ambiente. Se giocare a calcio dovesse significare invece, come erroneamente continuano a pensarlo in molti, mettere a punto una serie di procedure, o osservare un elenco di istruzioni sarebbe un compito solamente difficile, che impareremmo a svolgere ripetendolo innumerevoli volte. Purtroppo, la realtà del gioco non si presta a questa lettura, perché si presenta spesso in maniera imprevedibile e incerta. Non solo, ogni giocatore che si incontra è diverso da un altro, come le squadre, ogni situazione da affrontare e risolvere non è mai del tutto identica a quella, pur somigliante, sperimentata in precedenza, così come noi medesimi non siamo gli stessi rispetto a prima.

Quindi, anche il fatto di mettere a raccolta dati su larga scala (conoscenza per descrizione) le loro analisi, seppur utili, non risolvono del tutto il problema. Invece, quanto più attivamente sviluppiamo una conoscenza incarnata, tanto meglio saremo attrezzati per affrontare l’incertezza e per assumere buone decisioni, sulla base di una comprensione empatica del gioco (conoscenza per esperienza).

Infatti, è acclarato scientificamente che il modo in cui conosciamo, pensiamo e sentiamo emerge dalle interazioni fra mente, corpo, ambienti e esperienze.

Quindi, non schemi preordinati e codificati, ma relazioni sociali, emozioni, sentimenti, mondi interiori, che non possono essere spiegati in modo computazionale, assimilando il cervello a un computer che va riempito di file in blocchi distinti per fasi o quant’altro. Per carità, una conoscenza fattuale, di derivazione illuministica, con lo scopo di misurare il mondo, senza per nulla considerare l’esperienza, la partecipazione, le emozioni che come già disse Montessori nel lontano 1912, psiche e movimento appartengono alla stessa unità, ha una sua dignità culturale, magari in altri ambiti,  ma non è sufficiente per poter giocare a calcio.

Fare esperienza del gioco, in prima persona, esserci, immergersi in esso, questo ci consente di averne una conoscenza profonda.

E questo avviene solo con il tempo, attraverso il fare, in situazioni cangianti e mutevoli.

E allora, veniamo al titolo iniziale: la complessità non si può allenare ma si vive…. a patto di immergervisi.  La scienza ci dice che non esiste un modo univoco per imparare a ‘muoversi’ in un contesto complesso come il gioco del calcio.                    

Ma ci dice anche che quello che non deve mancare è l’esperienza diretta con l’ambiente partita.              

Per imparare a giocare a questo gioco complesso, infatti bisogna giocare.              

Più si farà esperienza diretta di situazioni complesse e più si diventerà bravi a giocare nella sua complessità.          

La comprensione incarnata dei principi (scopi) e del linguaggio (non verbale) comune della squadra aiuteranno i calciatori a risolvere i problemi attraverso la collaborazione dinamica.     

Pertanto, per vivere la complessità del gioco bisogna allenarsi:

-alle circostanze (non ai gesti) operando su spazi e densità di gioco specifici;

-al riconoscere le intenzioni dei compagni;

-al prevedere le intenzioni degli avversari

-al nascondere agli avversari le proprie intenzioni

– risolvere problemi, facendo scelte funzionali (conscie-inconscie) in contesti imprevedibili e ciò si determina solo con la presenza da parte di avversari.        

Allenare il sistema mente/corpo piuttosto che i muscoli o gli apparati,  i quali, giocando, si alleneranno di conseguenza (messa in discussione dei tradizionali metodi di allenamento a partire dalle preparazioni estive )

Allenare la comprensione del gioco( non codifica )i cui principi emergeranno dagli ambienti formativi che l’allenatore sarà in grado di elaborare, proporre, organizzare, manipolare per stimolare le collaborazioni relazionali attraverso l’educazione all’autonomia e alla responsabilità

Negli sport di situazione, è fondamentale che i contesti dell’allenamento siano fedeli alla prestazione.

Ciò consente di aumentare l’esperienza e i vissuti cosicché il cervello dei soggetti coinvolti si può allenare a riconoscere/comprendere le dinamiche di gioco in allenamento e di conseguenza in partita le riconoscerà più facilmente.

Educare i calciatori a osservare le dinamiche del gioco; si tratta di un vero e proprio “modus operandi”!

Fin dal primo periodo di formazione vanno sollecitati a osservare il movimento degli altri giocatori, compagni e avversari, in modo da capirne le intenzionalità e prevedere le giocate.

Il ricreare la medesima organizzazione spaziale e le stesse problematiche tecnico-tattiche riscontrabili in partita, è la chiave per permettere l’attivazione del sistema specchio.

Esso infatti è  in grado di prevedere specifiche azioni e tempi di attivazione. I neuroni specchio si attivano non soltanto nell’osservare azioni transitive rivolte ad oggetti o persone, ma anche attraverso azioni intransitive (ovvero azioni mimate).

Un allenatore deve quindi spingere il giocatore non solo ad effettuare azioni che comportino un rapporto diretto con la palla o con una persona, ma anche azioni “immaginarie”, in cui il giocatore deve immedesimarsi in situazioni di gioco potenziali.

Il sistema specchio configura dunque l’intera azione e permette di riconoscere l’intenzione,  ricorrendo alle esperienze maturate attraverso continui vissuti.

Per “allenare” al meglio questo tipo di neuroni, è di fondamentale importanza utilizzare attività che si svolgono nello spazio regolamentare.

Quest’ultimo infatti, è in grado di far scaturire nei giocatori la capacità di ipotizzare anche giocate alternative, non prevedibili dagli avversari, oltre a riuscire a sviluppare un’esperienza pratica adeguata al giocatore stesso.

Inoltre, la funzione predittiva dei neuroni specchio è fondamentale nel gioco del calcio, basti pensare ad esempio ad un difensore che è capace di leggere il contesto che si crea fra lui, l’avversario ed il proprio posizionamento. Egli infatti riesce ad intervenire in anticipo, avendo avuto la capacità di immaginare preventivamente la traiettoria della palla.

Di conseguenza allenare i neuroni specchio, si rivela essere molto utile in fase difensiva e in situazioni dove il difensore deve coprire correttamente gli spazi.

Nelle transizioni,  ovvero il tempo di passaggio da una fase all’altra, l’allenamento dei neuroni specchio è utile per indurre l’atleta a giocare senza pause, ad aumentare il suo livello di attenzione e la sua intuizione. Nella fase offensiva invece, l’elemento predittivo è legato all’empatia con i compagni di squadra, dove l’obiettivo principale è quello di conoscerne in anticipo i movimenti e condividere con loro un particolare linguaggio, aspetto fondamentale nella costruzione, sviluppo e conclusione della manovra.

I neuroni specchio si attivano (come già sottolineato in precedenza) quando si compie o si osserva un altro individuo compiere un’azione motoria.

Tutto ciò però è realizzabile solamente se si tratta di un’azione precedentemente assimilata, e dunque l’esperienza sul campo è la chiave per perfezionare le collaborazioni tattiche e la comprensione delle intenzioni dell’avversario.

CONCLUSIONI

Il processo per comprensione del gioco sposa il concetto della non-linearità dell’apprendimento, quello trasformativo,  proponendo compiti aperti, in cui il calciatore può̀ sperimentare e scoprire autonomamente, avendo anche un forte impatto sulla motivazione intrinseca attraverso lo sviluppo del senso di  “autostima “ che di “autoefficacia”.

È fondamentale, quindi, proporre esercitazioni che forzino lo sviluppo della presa di decisione sia in situazione di superiorità, di parità, sia d’inferiorità numerica.

Per fronteggiare l’incertezza che ne deriverà, il giocatore sarà stimolato a metterà in atto un processo di adattamento, fluido, leggero e quindi contestualizzabile.

Per questa ragione, l’allenatore deve prodigarsi per la realizzazione di esercitazioni con la necessaria presenza dell’avversario e dei compagni dove si invita il giocatore a percepire i loro movimenti nonché del pallone, prima di realizzare il compito.

La complessità del gioco si costituisce non solo da una grande quantità di componenti, ma soprattutto dalle loro relazioni. Pertanto, l’interazione di tutti questi elementi permettono l’insorgenza di comportamenti emergenti non inerenti o riconducibili a nessuna delle parti che compongono il “tutto”.

Questo tipo di conoscenza può essere acquisita solo mediante immersione nella realtà del gioco con l’azione, con la sperimentazione attiva non con un’istruzione formale.

Solo attraverso l’esposizione ripetuta a conosciute o  nuove situazioni ( e qui sta il compito dell’allenatore), siamo in grado di sviluppare una conoscenza altamente adattiva.

Ciò è confermato alla teoria della percezione di Merleau-Ponty, già espressa in precedenza dagli psicologi della Gestalt, che dice che essa non è l’accumulo di pezzi distinti di input sensoriali, ma emerge come una totalità coerente, che non può essere disaggregata nei suoi componenti. È come un brano musicale: le note acquistano il loro significato perché sono parte di un tutto. Percepiamo il mondo come una totalità dotata di significato. E questo fenomeno si manifesta specie in ambienti dove è forte la pressione temporale ed è richiesta grande rapidità decisionale.

E ancora, il riconoscimento (comprensione) è prezioso quando non solo è richiesta tempestività nella decisione, ma soprattutto quando le condizioni sono mutevoli.

2 risposte

    1. La complessità non si insegna e non si allena, si vive immergendosi in essa. Il nostro sistema mente/corpo filogeneticamente ha acquisito le strategie per vivere la complessità del reale. Infatti, il sistema nervoso per adattarsi ad essa ha compiuto e realizzato una serie di accomodamenti, il più importante è quello di saper lavorare in maniera integrata. I neuroni si sono organizzati in rete per fronteggiare ” collettivamente ” le sfide a cui venivano sottoposti, mettendo in piedi una sofisticata e ingegnosa forma di conoscenza, quella incarnata. Secoli di formazione, razionalistica, riduzionistica, della frammentazione, ne hanno mortificato gli sforzi compiuti in secoli di evoluzione. Purtroppo, nonostante le evidenze scientifiche, questo atteggiamento continua a persistere, con la presunzione ( hybris) di voler controllare e dominare tutto. La pratica e soprattutto la formazione calcistica non è immune da tutto ciò. Anzi, per certi versi, ne è auterevole esponente( la tecnica separata dalla tattica, la motricità disgiunta da tutto il resto, il tutto avulso dal contesto…). Si è confermato che solo immergendosi completamente nella realtà così come si presenta, la si può comprendere. Non solo, che occorre farlo assieme agli altri, di essere parte attiva in un ambiente molto peculiare come quello della prestazione, mediante continue e specifiche interazioni con l’ambiente circostante. Invece, persiste l’idea di suddividere la prestazione in più parti, con istruzioni senza contesto. Ma dato il gran numero di situazioni a cui bisogna far fronte, è molto improbabile che il calciatore possa ricevere una ricetta per ognuna di esse. Invece, è l’esperienza vissuta della realtà del gioco come ” atto unitario ” che ci farà intuire come deve essere risolto quel problema.
      Tornando a Aristotele, voleva dire che è ciò che facciamo che ci cambia, e che più facciamo quella cosa così come deve essere fatta, più siamo connessi a essa

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