Il settore giovanile rossonero ha prodotto molti giocatori di serie A, ma pochi che giocano nel Milan. La soluzione? Un calcio più “umanizzato”, in cui ci sia la capacità di ascoltare ogni ragazzo e costruire con lui il percorso migliore. Per guadagnarci tutti, atleta e società.
È ufficiale: Marco Brescianini è passato dal Frosinone all’Atalanta (una squadra che con i giovani sbaglia raramente), con una formula che prevede un prestito a un milione di euroe un riscatto di 12 milioni. Il Milan, che ha cresciuto il giocatore nella sua Primavera, ha diritto al 50 per cento della rivendita, cioè sei milioni circa, per di più fra un anno. È un valore congruo? Lo sapremo solo con il tempo. Ma la vicenda offre lo spunto per abbozzare qualche riflessione, specie adesso che si parla con sempre maggiore interesse di vivai (qui una bella analisi sul progetto Milan Futuro e dintorni), anche come soluzione, almeno parziale, al “caro-prezzi” determinato in primis dallo strapotere economico delle squadre di Premier.
Sei milioni sono, guarda caso, il prezzo che il Benfica pagò nel 2014 per un altro centrocampista di scuola Milan, Bryan Cristante, che all’epoca aveva 19 anni. L’esperienza, a quanto pare, non fu felice: dopo un paio di prestiti con diritto (non esercitato) ad altre squadre italiane, fu l’Atalanta (ma guarda un po’) a prenderlo in prestito e successivamente a riscattarlo per quattro milioni, rivendendolo per trenta alla Roma, dove gioca ancora, nel 2018. Forse era solo questione di tempo. Forse il Cristante di 19 anni non era pronto, quello di 23 sì.
Dei tanti prodotti del settore giovanile rossonero, che ho avuto l’onore di guidare per nove anni, solo tre giocano nel Milan: Calabria, Gabbia e Pobega. Tanti li abbiamo visti uscire, a volte un po’ frettolosamente, come l’esempio di Cristante sembra suggerirci. I nomi li conoscete, ma ne ricordo volentieri alcuni: Verdi e De Sciglio, poi Petagna, Cutrone, Locatelli, Bellanova, Brescianini, e – più recentemente – Daniel Maldini, Colombo e con tutta probabilità Marco Nasti (non parlo qui di Donnarumma, perché si tratta di un caso completamente diverso). Sono tutti giocatori che hanno dimostrato di valere la serie A, anche se a livelli diversi. Qualcuno è stato ceduto a cifre molto basse, qualcuno con buone plusvalenze, qualcuno a mio avviso farebbe comodo ancora adesso (Locatelli, per non fare nomi, è un centrocampista la cui qualità non è forse chiara nemmeno a lui).
Che cosa voglio dire? Che forse i giovani giocatori italiani, tanto invocati in un momento storico in cui il Milan potrebbe realisticamente scendere in campo con undici stranieri, andrebbero aspettati un po’ di più. Mi direte: ma i campioni sono campioni a 16 anni, guarda Donnarumma o Lamine Yamal. Bravi: qui vi volevo. Nel senso che è verissimo, avete ragione. Proprio oggi ho letto una bella testimonianza di Lilian Thuram su Clarence Seedorf: “Giocava nell’Ajax, contro l’Auxerre. Era strano, perché quando è entrato davano tutti la palla a lui. Qual era la cosa strana? Aveva 16 anni”.
Siete smarriti? Ho detto in poche righe due cose apparentemente in contrasto? Sì e no. Ho detto che i giovani vanno aspettati, ma che ci sono dei giovani che a 16 anni sono già dei leader. Perché sono vere entrambe le cose. I calciatori, e soprattutto i giovani calciatori, sono innanzitutto persone. E le persone, come sappiamo benissimo tutti, hanno tempi di maturazione diversi. C’è chi a 16 anni sa già cosa farà nella vita e c’è chi ci arriva per tentativi, dopo qualche vagabondaggio esistenziale. La risposta, nel calcio come in qualsiasi lavoro, è ascoltare, osservare, parlare. L’innovazione, infatti, è certamente interpretare dati, algoritmi, utilizzare tecnologie avanzate, realtà virtuale, intelligenza artificiale; ma è anche comprendere le persone, metterle nelle condizioni in cui possono dare il meglio, personalizzare i percorsi, perché non esistono due persone che apprendano le stesse conoscenze allo stesso modo, negli stessi tempi, tanto più in un sistema iper-ultra-competitivo come lo sport professionistico, a maggior ragione in uno sport “ad abilità aperte” come il calcio, in cui le variabili sono infinite e passano innanzitutto attraverso il rapporto con i compagni. C’è chi nasce leader e chi ha bisogno di conferme. C’è chi è introverso e chi tende a cercare il confronto con gli altri. C’è chi, come Patrick Cutrone (tornato in serie A a suon di gol: complimenti!), reagiva male a un gol sbagliato, si colpevolizzava, arrivava ad auto-sabotarsi, e chi ci, come Gigio Donnarumma, aveva fin quasi da bambino la capacità di mettersi alle spalle l’errore senza fatica. Non a caso, due percorsi diversi, con tempi diversi.
Per questo continuo a sognare un calcio più “umanizzato”, in cui per ogni atleta possa essere costruito un percorso più mirato, con la collaborazione di tutti gli attori del sistema: il giocatore stesso, la famiglia, la parte tecnica della società, quella economica, i procuratori.
Sono sicuro che questo calcio umanizzato produrrebbe risultati migliori per tutti: giocatori più realizzati, società più forte e – se vogliamo pensare giustamente anche al bilancio – più ricca, perché si può fare player trading, ma ai valori giusti.
Siamo all’inizio di un ciclo importante, di cui abbiamo appena visto l’antipasto con la prima partita ufficiale del Milan Futuro (bravi!) e abbiamo – a quanto pare – materiale umano di alto livello, da Torriani a Camarda, da Liberali a Jimenez, a tanti altri: non perdiamo questa grande occasione!
[Grazie a @Luca Villani per la collaborazione].
5 risposte
Condivido al 100% questa filosofia !!!
Perfettamente condivisibile, carissimo Filippo, tutto ciò che hai scritto ed analizzato. Un giovane, nel pieno delle sue turbe adolescenziali, va pedissequamente seguito e non solo sul campo ed in palestra, ma va sorretto mentalmente ed umanamente da persona di fiducia e serietà che possa fare le veci di un genitore o meglio ancora di quell’amico al quale si suole confessare di tutto e di più…. magari anche che la ragazza del cuore lo ha piantato per i suoi continui impegni!
L’articolo appena letto centra appieno il titolo sul portale del tuo blog che spicca per l’unicità dei temi trattati: “La complessità del calcio”!
Chapeau Filippo!
Buona estate e buon Milan!
Massimo 48
Concordo con il bell’articolo. Fin dalle giovanili, dove spesso conta solo il risultato, non si riesce a guardare oltre le prestazioni del momento per capire quale possa essere il percorso corretto di ciascun ragazzo. A 16 anni i fenomeni sono l’eccezione, la regola è che un ragazzo a 20 è ancora tale. L’impatto fisico e mentale con il calcio professionistico può essere devastante e quindi è importante trovare percorsi giusti fatti di under 23 o squadre con allenatori che siano garanzia di minuti giocati e di valorizzazione. Io ricordo Locatelli fischiato ai primi passaggi sbagliati; Locatelli andato al Sassuolo con de zerbi e rinato. Forse non era il momento per Locatelli al Milan ma come fa il Real Madrid, conservarsi dei diritti di recompra piuttosto che lavorare sui prestiti potrebbe essere una buona strategia per valutare i profili nel lungo periodo e in contesti man mano più sfidanti.
Materiale pr i dirigenti di una società. A lei risulta che dopo Galliani ne abbiamo avuti?
Credo che l’evoluzione di un ragazzo\atleta debba essere accompagnata, fin dai primi passi, da una consapevolezza del proprio percepito emozionale e da un’attenta riflessione su ciò che sta imparando. Nei giovani che fanno specialità sportive individuali (tennis, golf, judo, etc) c’è una capacità di autoanalisi precisa e circostanziata che manca a chi fa sport di squadra. Questa, a mio avviso, sarebbe una delle strade da percorrere.
Per non perdere talenti da parte delle società ci vuole una buona dose di coraggio e visione futura, ma anche la volontà di far crescere le nuove generazioni con una visione del calcio come disciplina sportiva che richiede impegno e sacrificio e non come viatico per guadagni “facili”