Se, come sostengono in molti, c’è maggior virtù nell’essere autorevoli che nel risultare autoritari, Sven Goran Eriksson, gentiluomo della panchina che ci ha lasciati all’età di 76 anni, ha fatto della virtù il suo forte.
Chiamato poco più che trentenne alla guida tecnica della più importante squadra svedese (Goteborg), ha vissuto tre decenni di calcio ad alto livello facendosi apprezzare durante tutte le esperienze da allenatore sia per contenuti calcistici che per comportamenti.
Il suo modo di agire, improntato su modi signorili e sempre coerente, gli ha portato un’enorme quantità di complimenti al di fuori del terreno di gioco, offuscando in parte la sua grande conoscenza di campo e la sua bravura di tecnico.
Dopo aver portato il Goteborg alla vittoria in Coppa Uefa, distruggendo in finale l’Amburgo di Happel che l’anno seguente avrebbe trionfato in Coppa Campioni, inzia un girovagare della durata di un ventennio tra Portogallo ed Italia caratterizzato da stagioni quasi sempre positive, quando non entusiasmanti.
Durante il primo magistero portoghese riporta il Benfica al vertice del calcio lusitano innestando concetti di mobilità, dinamismo e fraseggio veloce in un contesto che, da un lato, è abituato al gioco a zona di cui il nostro è assiduo seguace ma, dall’altro, ristagna su ritmi lenti e monotoni che faticano a farlo emergere in ambito internazionale dai tempi di Eusebio.
La modernità e l’estetica mostrate da Goteborg e Benfica non lasciano insensibili le maggiori società italiane che, tuttavia, non sembrano prendere in considerazione il tecnico svedese considerato il divieto, allora vigente, di assumere allenatori stranieri.
Divieto che, tuttavia, non ferma la Roma quando, forse su suggerimento di Liedholm che nell’84 se ne torna al Milan, lo assume con il ruolo di direttore tecnico facendo sedere in panchina Claguna.
Superate le difficoltà della prima stagione, dovute anche all’impossibilità di seguire la squadra durante la gara, nell’anno successivo mostra ai tifosi giallorossi e a tutto il calcio italiano una delle compagini più belle che si ricordi.
Difesa in linea, centrocampisti arretrati sulla linea dei difensori, terzini come Nela schierati da centrale e una brillantezza di manovra che da novembre in poi comincia a mandare in tilt gli avversari sino a recuperare otto punti di svantaggio (quando la vittoria ne valeva due) alla Juve di Trapattoni prima dell’harakiri in casa contro il retrocesso Lecce.
Di quella squadra, come di tutte quelle allenate da Eriksson, è impossibile dimenticare il centrocampo, formato nella versione titolare da Boniek, Ancelotti e Cerezo (con il giovane Giannini prima riserva) ovvero tre giocatori capaci di interpretare la “doppia fase” nell’accezione moderna, con i primi due maestri nel non perdere tempi di gioco.
Vittoriosa in Coppa Italia, la squadra si eclissa nella stagione successiva, caratterizzata dal declino di alcuni punti fermi e dal ridimensionamento societario.
Il tecnico svedese, tuttavia, non percorre molta strada perchè si accasa alla Fiorentina dove nel primo anno fatica ma si inventa, con profitto, Sergio Battistini al centro della difesa in linea con il connazionale Hysen e, nell’anno successivo, accompagna l’esplosione di Roberto Baggio affiancandogli il compianto Stefano Borgonovo per un attacco da sogno che i tifosi viola ancora ricordano.
E’ una bella Fiorentina.
Frizzante, offensiva e giovane. Fatica in trasferta ma sconfigge l’Inter dei record ed alla fine, trascinata in mezzo al campo da Dunga, raggiunge la qualificazione in Europa sconfiggendo, ironia della sorte, proprio la Roma al termine di un infuocato spareggio.
La dirigenza viola, dopo aver tergiversato in inverno, in primavera le prova tutte per prolungare il contratto a Svennis ma lui, da uomo tutto d’un pezzo, non se la sente di ritirare la parola che ha dato al Benfica dove il suo ritorno è atteso come quello del Messia.
Sarà ancora piena di successi l’avventura portoghese anche se il sogno di vincere la Coppa dei Campioni si infrange in finale contro il Milan al termine di una gara che i rossoneri ricordano come tra le più complesse di quel periodo.
La nostalgia dell’Italia, paese con una cultura calcistica totalmente differente rispetto a quella di Eriksson ma del quale non sa fare a meno, si fa sentire e nel 1992 la Sampdoria si affida a lui per la ricostruzione del dopo Vialli.
Secondo alcuni, sarà un problema far coesistere le idee di calcio del tecnico, rigide e rivolte ad una visione collettiva, con il talento di Roberto Mancini.
Nulla di più falso perchè i due daranno vita ad uno dei rapporti di campo (e non) più stretti di sempre.
Mancini diventa il verbo illustrativo del “suo” allenatore dal quale ottiene licenze che altri nemmeno si sognerebbero di chiedere.
Posto in un piedistallo di leader indiscusso, Bobby goal, durante il quinquennio in blucerchiato di Eriksson, dimostra come il talento possa coesistere con la razionalità.
Il calcio della Samp di Eriksson esalta il suo capitano e viceversa.
I goal al volo, il colpo di tacco che non risulta mero esercizio di stile bensì finalizzato a liberare il compagno, le reti su angolo appostato sul pimo palo, gli assist in favore dei vari compagni di reparto si susseguono con una continuità impressionante secondo un concetto, caro a questo blog, per cui l’organizzazione non restringe il talento ma lo esalta.
Ma non c’è solo Mancini.
Alla corte di Eriksson si rigenerano campioni che parevano destinati al declino come Gullit ed Evani ed esplodono giocatori come Jugovic, Seedorf, Karembeu.
Altri come Mihajlovic e Lombardo trovano la consacrazione.
Si ripete con Franceschetti, centrocampista di professione arretrato a centrale difensivo, l’operazione riuscita a Firenze con Battistini.
Ma è sempre a centrocampo che le sue squadre rubano l’occhio.
Memorabile la Samp 93-94 con Jugovic e Platt a gonfiare le reti avversarie e con Evani a coprir loro le spalle nella posizione di centrale di centrocampo che gli permetterà di esser convocato per USA 94. Il tutto con Lombardo, Gullit e… ovviamente Mancini.
Ma come dimenticare la versione 1995-96 con Seedorf, “giovane-vecchio” palleggiatore e l’arrembante Karembeu? E quella successiva con Veron a marmaldeggiare?
Alcuni di questi se li porterà alla Lazio, la squadra più forte tra quelle da lui allenate.
Ad onor del vero quando torna a Roma, sul versante opposto del Tevere, a distanza di tredici anni dall’esperienza giallorossa, l’Eriksson dal calcio arrembante e dinamico ha lasciato il posto ad una versione più pragmatica, atta ad allenare un “instant team” quale è quella Lazio che si diverte a strappare a compagini blasonate campioni a suon di miliardi e che vincerà Scudetto, Coppa Italia, Coppa Coppe, Supercoppa Italiana ed Europea.
Ciò premesso, l’operato da allenatore non è da sottovalutare in considerazione delle difficoltà ambientali e di alcune difficili relazioni in seno ad un gruppo in cui l’arrivo di “mezza Sampdoria” non è ben visto da alcuni senatori del tempo.
A fronte dei suoi modi da galantuomo e della sua ritrosia nell’alzare i toni, sarà Eriksson a porre la parola fine all’esperienza laziale di Beppe Signori, simbolo e capitano, per affidare le chiavi del comando al suo fidato Mancini. E sarà sempre lo stesso tecnico a “tagliare” giocatori importanti a seguito di litigi o discussioni.
Per alcuni addetti ai lavori vincere con la rosa della Lazio di allora era un dovere.
Ci sia permesso di dissentire perchè trionfare in un ambiente che non è abituato a primeggiare non è mai semplice.
Conclusa l’esperienza laziale prima del previsto, vi è la chiamata della nazionale inglese.
Sarà il primo tecnico straniero della storia e ciò gli comporterà una critica ancor più feroce rispetto a quella a cui è notoriamente sottoposto il CT dei tre leoni.
Le eliminazioni ai calci di rigore ad Euro 2004 ed al Campionato del Mondo 2006, entrambe patite dal Portogallo a seguito di gare agoniche viziate da arbitraggi sfavorevoli, lo accompagneranno alla porta della Federazione Inglese a conclusione di un’esperienza in cui le cronache di gossip ed extracalcistiche prenderanno il sopravvento sul percorso tecnico.
Da lì in poi sarà un girovagare per continenti sino all’annuncio degli scorsi mesi con cui ha reso nota la malattia.
Quando ha allenato squadre forti ha vinto, quando ha allenato compagini meno qualitative ha quasi sempre divertito.
Gli va riconosciuta la capacità di convincimento nei confronti dei presidenti che lo hanno quasi sempre accontentato. Non era facile convincere la dirigenza laziale ad esportare tanta Samp.
Si è corretto su Baggio che inizialmente non riteneva un campionissimo ed ha esaltato i centrocampisti tecnici e dalla doppia fase.
Mai irrispettoso nei confronti degli arbitri e sempre educato nelle interviste non sarebbe corretto farlo passare per buonista. Era restio ad alzare i toni ma non era uno che perdonava tutto ai suoi calciatori.
Era difficile litigare con Eriksson ma se ci litigavi una volta rischiavi di uscire dalle sue grazie.
Al netto delle vicende private che alcuni si sono divertiti a raccontare con discutibile morbosità per alimentare il gossip britannico, è giusto ricordare Sven Goran Eriksson per il suo aspetto signorile e per la sua eleganza purchè i complimenti per il suo modo di proporsi non oscurino gli enormi meriti di una carriera da grande allenatore.
BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.
2 risposte
Complimenti Alessio per averci deliziato con la stesura della lunga ed invidiabile carriera di uno dei trainer europei più amati e non solo dal lato sportivo ma soprattutto per il suo costante e pcato comportamento da vero gentlemen. Un stile, un marchio ed un esempio che molti new enter coach dovrebbero imitare.
Un caro saluto.
Massimo 48
Grazie infinite.
Aggiungiamo anche che alcuni suoi giocatori sono diventati allenatori importanti o assistenti di questi.
Ancelotti, Mancini, Mihajlovic, Conceicao, Simone Inzaghi, Dunga, Nesta e parecchi della nazionale inglese.