LAZIO – MILAN 2-2: ANCORA TROPPE OMBRE SUI ROSSONERI

Può sembrare un’osservazione iconoclasta e in parte forse lo è, se affermo che il mio Milan – il nostro Milan – negli ultimi anni, e in particolare nella lunga estate calda di questo calciomercato che sembra davvero non finire mai (in effetti ancora non è finito, dato che si parla di un contatto con lo svincolato Rabiot), mi ha fatto pensare al finale di uno dei film italiani più belli del Novecento, sublimazione cinematografica di un romanzo altrettanto memorabile: Il Gattopardo, di Luchino Visconti.

Talvolta capita che ce lo impongano alle scuole medie, quasi quale compendietto per immagini sulla storia del Risorgimento, da ingurgitare obtorto collo. È un vero peccato, perché si tratta di un film che, come tutti i capolavori, non smette di parlare.

Vediamo dunque il Principe di Salina in mezzo a case che sembrano impresse nella roccia, un presepe dimenticato da Dio e dagli uomini. Sentiamo un campanellino che pare extradiegetico, come un acufene, ma subito ci viene rivelata la sua natura narrativa: è il campanello di un prete che si reca a benedire un moribondo, accompagnato soltanto da un giovane chierichetto, in un’atmosfera spettrale, già morta da tempo. Fabrizio Salina si inginocchia, in segno di rispetto, e pronuncia la celebre “O stella, o fedele stella”. Il montaggio stacca sulla “nuova” Sicilia, quella di don Calogero Sedara, per poi tornare sul Principe che, accompagnato dal suono funereo della campane, scompare nel buio di un vicolo di Donnafugata: si compie una specie di dissoluzione. 

Lungi dall’essere una parabola reazionaria sul declino della classe aristocratica – affermarlo significa non conoscere Visconti – Il Gattopardo è piuttosto un film sulla fine degli ideali umanistici, scalzati da valori (o disvalori) che nel tempo dei Salina significavano borghesia rampante, ma nel nostro tempo sono i principi cardine di un neoliberismo sfrenato, di quella “mutazione antropologica” di cui parlò anche Pasolini.

E allora, che c’entra tutto questo con il Milan? C’entra, se pensiamo a quello che siamo stati e a ciò che siamo e che ci si prospetta per l’imminente futuro: un vicolo buio, come quello in cui si disgregano Salina e il mondo che ha conosciuto, rischiarato probabilmente più dalle promesse che dalla concretezza delle cose. Dati di fatto che qualche risultato positivo, inevitabile, prima o poi, anche per mera legge dei grandi numeri, con tutto quello che si gioca, non potrà cancellare, purtroppo.

Perché se la finanza domina il calcio – e mica solo nel Milan, ci mancherebbe altro, il problema è sistemico e ineliminabile, a meno di non voler indulgere in utopie nostalgiche e un po’ sciocche – dove finisce il sudore? Si rischia che diventi anch’esso liofilizzato, come le terze maglie, ogni anno diverse, ché servono per il marketing, come i pre-campionati in giro per il mondo, per esportare i brand (e che importa se il fisico dei calciatori patisce fusi orari e voli intercontinentali), come le figure manageriali e di rappresentanza che prima inglobano, poi sostituiscono quelle squisitamente sportive. Ma, senza nulla togliere all’idea di calcio di Thiago Motta, head coach in sicura ascesa, cosa sarebbe stato l’ottimo mercato della Juventus senza l’apporto del direttore sportivo, Cristiano Giuntoli?

Allora vale la pena riflettere sui nostri assetti e cercare di interrogarci se siano i più congeniali rispetto a ciò che vorremmo essere. Zlatan Ibrahimovic è, insieme a Fonseca, l’unica figura pubblicamente “visibile” del Milan attuale: presente in conferenza, dove non di rado esercita la sottile arte dell’evasività, di lui ci è stato detto che è “un uomo di RedBird”. Ciò ci ha indotto a interpretare che fosse, in automatico, un “uomo del Milan”, visto anche l’illustre passato sul campo. Ma è vero sempre e in modo inconfutabile? Perché non è così certo che gli obiettivi ultimi di un fondo speculativo convergano con quelli di una squadra di calcio, quelli auspicati dai tifosi, insomma. Il che non significa, ovviamente, che debbano per forza divergere, come vorrebbe un certo disfattismo a tutti i costi: resta che l’assenza di un’area sportiva e tecnica “forte” pesa e non si può far finta di nulla.

Il Milan non ha cattivi giocatori, ma ha giocatori che sembrano vivere di luce propria, di giocate personali: il secondo gol contro la Lazio, sull’asse Theo-Leão-Tammy Abraham, entrati da una manciata di minuti. Sono quei guizzi improvvisi, salvifici, ma talvolta irripetibili, nell’arco dei novanta minuti. Il calcio è invece un ensemble: lo dice Guardiola, che afferma che nessun giocatore è più importante dell’insieme, lo dice Sacchi, ma lo dice pure chiunque sia in grado di capire che non c’è nulla che funzioni più a lungo – “meglio” è un termine fuorviante – dell’accordarsi armonioso degli strumenti.

Parliamoci chiaro: senza Felipe Anderson, Luis Alberto, Kamada e lo stesso Immobile, Baroni si è trovato fra le mani una Lazio che ha più di un problema, in vari reparti. Eppure gli è bastato rivedere l’assetto tattico, nel secondo tempo, spostando Guendouzi e riequilibrando le insidie sulle fasce, con l’inserimento di Isaksen, per avere una squadra che, nel suo complesso, girava in modo diverso, valorizzando al massimo, tra l’altro, l’eccellente e onnipresente Nuno Tavares. Abituato, dall’esperienza al Verona, a fare di necessità virtù, il tecnico laziale ha saputo leggere la partita, sfruttando le falle e le prevedibilità degli opponenti. Non è tutto, ma non è neppure poco, se in rosa i campioni si contano sulle dita di mezza mano.

Dal Milan mi sarei aspettata un piccolo passo in avanti, rispetto alle partite contro Torino e Parma, ma si è visto poco. Fonseca, memore dalla staticità dello svizzero contro la squadra di Pecchia, ha preferito giocare senza una vera e propria prima punta, sfruttando Okafor soprattutto per le sue incursioni sull’esterno, complice la mobilità dell’infaticabile Pulisic che fungeva da propulsore. L’idea poteva funzionare, ma, come detto, sarebbe servito un gruppo armonioso, dove tutti sanno cosa devono fare, in base a quello che fanno gli altri. Purtroppo invece Loftus-Cheek, al quale si deve una buona giocata, partita, guarda caso, dalla mediana, non è (ancora) un trequartista efficace: poco ricettivo, pochissimo smistante.

E se Fofana è riuscito garantire un discreto equilibrio davanti alla difesa – qualche imprecisione, sì, ma anche Tomori sembrava un po’ più centrato, meno impreciso, rispetto alle ultime prestazioni – Reijnders risulta ancora ectoplasmatico, come spaesato. Difficile poi comprendere l’utilizzo “puntellato” di Emerson Royal, in asimmetria tattica rispetto a quanto veniva chiesto a Terracciano, con Chukwueze poco coinvolto nella manovra e Tavares che sfilava via veloce alla Mbappé: al netto dei difetti che gli si possono riconoscere, Calabria prova a portare palla e a spingere.

Nessuno sano di mente può demonizzare il possesso palla in quanto tale, ma il possesso, Cruijff ce lo insegna, serve a controllare, a passare in modo preciso e poi a segnare un gol in più degli avversari. Non è un vezzo, un rondo in partita, specie se a centrocampo non puoi esattamente disporre di gente del calibro di Modrić, Valverde e Toni Kroos. E infatti, in una sterilità di azione complessiva e con di fronte una squadra tutt’altro che irresistibile, la prima rete è arrivata su calcio piazzato: corner ben eseguito da Christian Pulisic e poi Pavlovic – l’innesto estivo più convincente, per ora – di testa. Ci stava per riuscire anche contro il Parma. Non può bastare. 

È giusto cambiare, se serve, magari all’umore, oppure all’impostazione tattica di un team che cambia a sua volta; è giusto, a mio avviso, anche rischiare, se si reputa che correre quel rischio possa portare a un risultato nel medio termine. Berlusconi, con Arrigo Sacchi, rischiò mica poco, dopotutto, e sappiamo che quell’azzardo si rivelò fruttuoso. Però bisogna stare attenti – gattopardianamente – a non cambiare tutto perché tutto rimanga com’è: è l’antitesi del vero cambiamento, riguarda la forma e non la sostanza. Ed è questo che mi preoccupa di più del Milan che vedo, un Milan che vive di tentativi più che di principi, con una dirigenza che ha stabilito che il ciclo di Pioli era finito, senza pensare, o senza volere, che un nuovo ciclo, non per forza migliore (impossibile prevederlo con certezza), ma almeno diverso, potesse davvero cominciare. I buoni risultati sono sempre figli dei progetti, altrimenti sono lampi sporadici, bagliori destinati a tramontare presto, esaltazioni incomprensibili per un pre-campionato che non significa niente.   

Cosa si può infatti desumere, quando un allenatore dichiara pressoché incedibile un membro della rosa, nella fattispecie Saelemaekers (giocatore anche a mio avviso prezioso), e quello stesso giocatore viene usato come merce di scambio per averne un altro, seppure utile? Non serve attendere la sentenza dei posteri, né invocare esoneri che mi sembrano ingenerosi, dopo sole tre partite, basta un po’ di logica. C’è tanto, tanto lavoro da fare, ma, prima di tutto, c’è tanto da pensare, da ri-pensare.

Una piccola considerazione a margine: non riguarda la partita contro la Lazio, ma riguarda quelle che verranno. Non c’è nulla che giustifichi l’atteggiamento di Theo Hernández e di Leão, ammutinati durante il secondo “cooling break”. Il mister, per scelta tattica, può decidere di tenere fuori chiunque: non sarebbe stata lesa maestà neppure con Messi nel suo “prime”. Ma per ottenere l’esito sperato, e questa è più psicologia che roba di campo, serve una leadership; una leadership intelligente è l’opposto dell’uomo solo al comando, è anzi qualcosa che ha moltissimo a che fare con l’ascolto, con l’empatia, con il tempismo, con la credibilità.

I capricci sono irrispettosi verso i compagni che erano dentro “al posto di” e fastidiosi da vedere per chiunque altro, ma, lato allenatore, specie un allenatore arrivato da poco, è opportuno pensare – sempre – a come si comunica e, in secondo luogo, al perché lo si stia facendo (posto che, che ci piaccia o no, non si può non comunicare, Watzlawick dixit).

Lazio (1-4-2-3-1): Provedel; Lazzari (dal 46’: Marušić), Patric, Romagnoli, Nuno Tavares (dal 90’: Hysaj); Guendouzi, Rovella; Tchaouna (dal 46’: Isaksen), Dia (dall’81’: Dele-Bashiru), Zaccagni; Castellanos (dall’87’: Noslin). Allenatore: Marco Baroni

Milan (1-4-2-3-1): Maignan; Emerson Royal (dal 70’: Hernández); Tomori, Pavlovic, Terracciano; Reijnders (dal 70’: Musah), Fofana; Chukwueze (dal 70’: Leão), Loftus-Cheek, Pulisic; Okafor (dal 71’: Abraham). Allenatore: Paulo Fonseca

BIO: Ilaria Mainardi

Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

3 risposte

  1. Articolo che illustra alla perfezione lo stato dell’arte attuale del nostro Diavolo!
    Inoltre la metafora gattopardiana saggiamente usata lo rende ancor più esplicativo e prezioso.
    Chapeau Ilaria e sempre e comunque forza Milan!

    Massimo 48

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