APPRENDIMENTO E  MEMORIA, DUE TRA GLI ALLEATI DELLA COMPRENSIONE DEL GIOCO.      

Torno a qualche giorno fa, quando è stato riferito che i ragazzi fino a 16 anni non devono fare tattica, ma soltanto tecnica.

Questo avviene perché per tattica s’intende in maniera tradizionale tutto ciò che a che fare con moduli, sistemi, pressing alto, se non la ripetizione di schemi preconfezionati, che hanno più il sapore di un addestramento che di un vero e autentico processo formativo.

Invece, la tattica è la capacità di saper agire risolvendo continui problemi che vengono posti dagli avversari tenendo conto del compito e del risultato da raggiungere.

Quindi, qualcosa di più e di diverso che impegna in maniera integrata il sistema mentecorpospirito.

La tecnica invece  è un’abilità , appartiene al saper fare, alla memoria procedurale, cioè esprimere dal punto di vista sensomotorio il processo percezione, attenzione, decisione.  Ogni azione, ogni gesto è sempre connesso al pensiero tattico, consapevole o intuitivo: questo è il principale motivo per cui la tecnica, così come la motricità, non possono essere separate in nessun modo dalla tattica, che attraverso l’insegnamento per la comprensione del gioco promuove l’apprendimento della comprensione del, con e attraverso il gioco, che va perseguito simultaneamente fin dal primo momento in cui il bambino inizia a giocare.

MA PER FARE QUESTO OCCORRE UN GRANDE CAMBIAMENTO CULTURALE, INTANTO DAL BASSO E CHE NON PUÒ NON VEDER COINVOLTO IL SISTEMA FORMATIVO NEL SUO COMPLESSO

Molte difficoltà nella formazione di un calciatore derivano proprio dall’ essere stati

“ abituati” ad allenare per compartimenti stagni, frazionando le varie e diverse dimensioni senza considerare che ogni agito è si una sintesi di qualità tattiche, tecniche, fisico-motorie e psicologiche, ma anche e soprattutto espressione storica (UMWELT) dei vari soggetti coinvolti.

IL CALCIATORE RISOLVE EFFICACEMENTE LA SITUAZIONE IN BASE ALLA SUA ESPERIENZA ACCUMULATA, ALLE ABILITÀ POSSEDUTE, ALLO STILE COGNITIVO CHE UTILIZZA

E qui c’è anche anticipata la risposta alla seguente domanda: ma se il ragazzo non ha saputo risolvere quel facilissimo problema motorio o tecnico che devo fare?

Molto probabilmente perché per lui, e non per l’allenatore, è risultata un’esperienza nuova, non conosciuta o non del tutto appresa.

La colpa di tutto ciò non è del ragazzo, ma di chi non gli ha fatto vivere e rivivere continuamente quella esperienza. Il buon giocatore è colui che sa riconoscere e attribuire significato alle molteplici situazioni in cui è coinvolto perché le ha vissute  tante volte, le ha incorporate, appartengono alla sua memoria semantica e procedurale e sono diventate così profonde e adattive tali da essere utilizzate anche in maniera prospettica ( futuro) e di fronte a situazioni impreviste.  Invece, si continua a pensare ( e valutare ) che il bravo “allenatore” sia quello che spiega tanto, che corregge, che dà consigli durante una seduta, una partita, che guida la squadra, ma siamo sicuri che così facendo aiutiamo un giocatore a esprimersi al meglio e soprattutto ad acquisire competenze di gioco durature?

PEDAGOGIA DELL’ ESECUZIONE

Le ripetizioni sono le soluzioni.  

ALLENARE CON IL GIOCO

Le situazioni autentiche, reali, complesse quali ambienti di comprensione e di riflessione.

La sua logica fa emergere i principi che ispirano e orientano le decisioni e le azioni dei giocatori, veri e autentici protagonisti della prestazione.

Il processo decisionale risponde a due sistemi, interconnessi tra di loro, a quello della memoria a lungo termine sia conscia che inconscia(come l’ho imparata e come si fa), e soprattutto, data la imprevedibilità del gioco, a quello della memoria di lavoro( cosa sta avvenendo ora?)

Che significa? Che non solo il giocatore cercherà di recuperare al momento necessario, in via primaria una esperienza vissuta, una sensazione provata, una percezione già sentita, ma che spesso deve interpretare nel qui e ora( palla, compagni, avversari, direzionalità) la specifica situazione.

Questo dovrebbe bastare per convincerci che è necessario promuovere l’apprendimento e quindi l’allenamento, sulla base di continue, mutevoli e arricchenti esperienze maturate con e attraverso il gioco.

Queste esperienze genereranno una comprensione profonda in quali spazi agire , con quali tempi, con quanti compagni, attraverso quale collaborazione per superare e risolvere problemi posti dagli avversari.

“ E NOI, ALLENATORI E “ ISTRUTTORI “ ( su questo ci torneremo prossimamente) COSA DOBBIAMO FARE?”

Proporre, organizzare e modulare ambienti di apprendimento arricchenti di variegate e reali esperienze, attraverso i quali il calciatore sia stimolato quale soggetto attivo e consapevole .Ovviamente ci sarà il giocatore che riuscirà a trovare la soluzione in minor tempo e ci sarà il giocatore che avrà bisogno di più tempo, e qui diviene fondamentale la mediazione didattica dell’ allenatore ( facilitazione ) che dovrà favorire l’accesso alla conoscenza di tutti i partecipanti.

Però, per tutti coloro che saranno impegnati con lui, ricordate che:                        

“IL BAMBINO NON È UN ADULTO IN MINIATURA E I BAMBINI NON SONO TUTTI GLI STESSI”

In ambito calcistico, e purtroppo anche nella prima formazione, è frequente l’abitudine ( cattiva) di trattare tutti allo stesso modo, senza tener conto delle diversità.  Ciò comporta richieste comuni a cui tutti si devono adeguare.       

Questo atteggiamento mi fa venire in mente PROCUSTE.

Procuste era un brigante.

Secondo la mitologia greca costringeva i suoi ospiti a sdraiarsi sopra un letto che aveva fatto lui, di ferro, per accorciarli se erano troppo lunghi, cioè tagliando loro i piedi che sporgevano.

Se invece gli stranieri di passaggio erano bassi di statura, legava loro polsi e caviglie e li allungava stirandoli con un argano a manovella.

Con la locuzione letto di Procuste derivata da questo mito, si indica il tentativo di ridurre le persone a un solo modello, un solo modo di pensare e di agire.

Siate tanti Perseo, ammazzate Procuste!

CONCLUSIONI

L’influenza della complessità sul mondo dell’educazione e della formazione ha  condotto alla ri-affermazione della centralità della persona, dell’apprendimento esplorativo ed esperienziale, dell’apprendimento non-lineare,del concetto di apprendimento come attività adattiva e ha generato un rifiuto netto delle prescrizioni rigide e della programmazione lineare conducendo così le teorie dell’educazione a focalizzare la propria attenzione sul processo piuttosto che sul contenuto dell’apprendimento.

Assistiamo al passaggio da un’educazione volta alla formazione di “teste ben riempite” ad un educazione volta alla generazione di “teste ben fatte”, al passaggio cioè da una cultura nozionistica, orientata alla trasmissione di informazioni e di dati, ad un’altra invece che favorisce le strategie di problem-solving, di enazione e del pensiero critico. In tale prospettiva i confini disciplinari, anche quelli che afferiscono alla formazione calcistica, si dissolvono e lasciano il passo ad aree di conoscenza interconnesse, fluide, permeabili e adattive.

5 risposte

  1. Tutto giusto ma attenzione.
    Non si puo pensare di far vivere la complessità del calcio, sia pure ridotta, a tutti indistintamente nello stesso modo. Tutto dipende dalle abilità individuali che gli inglesi chiamano ‘intrinsic dynamics’. Se un bambino non sa controllare un pallone, non lo sa passare, non lo sa calciare nè condurre il problema è che non ha sviluppato delle abilita motorie che gli possano permettere di farlo. E allora bisogna toglierlo dalla complessità e lavorare individualmente su queste abilità (riferirsi alla bibliografia di Rob Gray) per poi reintrodurlo in essa. Allora avrà le abilità minime necessarie per navigare nella complessità del gioco

    1. Certamente Alessandro, ma diamogli la possibilità di stare nella complessità e creiamo le condizioni per dargli tempo…prima di scomporre. A quel punto posso pensare di destrutturare il contesto di apprendimento, non a priori e/o secondo un principio “dal semplice al compòesso”.
      Grazie per il contributo.

  2. Personalmente, ritengo che il gesto tecnico sia inscndibile dal contesto di gioco. È sostanzialmente inutile allenare un bambino alla trasmissione o alla ricezione del pallone, togliendolo dalla complessità del gioco. Anche perché è un falso mito quello dell’aspetto “didattico” analitico. Non esiste alcuna possibilità che un bambino che svolga un’attività di gioco, non abbia provato a passare un pallone o riceverlo, fuori dal contesto di gara. Chi è sicuro di poter trasfondere la “tecnica” in un altro individuo, si illude. E sono spesso quegli stessi allenatori che sostengono che la differenza la fanno i giocatori con le loro qualità individuali. Ma nel momento stesso in cui pensano che possa esistere un metodo uniforme di insegnamento di una serie di gesti tecnici, avulsi dal gioco nel pieno del suo svolgimento; con il caos e le relazioni spontanee che si generano autonomamente; di fatto stanno disconoscendo la qualità e la singolarità di ogni individuo. Come giustamente dice Juanma Lillo:”il calcio non si insegna, ma si apprende”. Un bravo allenatore non è un insegnante del gioco o di un gesto o di un’esecuzione teoricamente pulita; bensì un acceleratore del processo di apprendimento di ciascun ragazzo, all’interno del gioco nella sua complessità. E soprattutto è un allenatore capace, se non dimentica mai che ciascun individuo è una storia unica e diversa e che diverse saranno le sue esigenze personali ed all’interno del contesto di gioco e del gruppo squadra.

  3. Intanto, grazie per il contributo. Circa le considerazioni che adduci, c’è da dire che la complessità la impari a conoscerla e a fronteggiarla solo se la ” vivi completamente “. Se sottrai uno solo degli elementi che la compongono, considerato che ciascuno di essi interagendo con gli altri ne determina la specificità, crei un contesto differente da quello che poi è la realtà del gioco. È chiaro ed evidente, e nessuno ne trascura l’importanza, che più strumenti si posseggono e maggiori sono le probabilità di comprenderla. La qualità e la profondità della comprensione derivano dalle esperienze e dai vissuti, che devono essere quanto più vicine e fedeli alla logica intrinseca del gioco: palla, avversari, compagni, porte….È compito dell’allenatore creare ambienti di apprendimento ” facilitanti “, ( spazio d’azione, numero partecipanti, numero di squadre…) che nel rispetto di quelle che sono le reali condizioni del momento, mettono in condizione i ragazzi di compiere progressi e miglioramenti.

  4. La complessità non si spiega, si vive”

    (Edgardo Zanoli)

    “…facendolo lo impariamo, come per esempio costruendo si diviene costruttori e suonando la cetra citaristi. Allo stesso modo anche compiendo atti giusti si diventa giusti mentre si diventa temperanti compiendo atti temperanti, e coraggiosi compiendo atti coraggiosi”
    (Aristotele, Etica Nicomachea pag.59). Questo mi porta ad affermare che l’acquisizione e la stabilizzazione dei gesti, pur rappresentando un aspetto importante nella formazione del giovane calciatore, al pari di tutte le altre dimensioni, vada inserita nel contesto di gioco. La scelta del gesto tecnico e del comportamento motorio sono condizionati dall’imprevedibilità del contesto ed è fondamentale la capacità di adattarlo e di variarlo con estrema rapidità. La capacità di un calciatore di scegliere efficacemente e di adeguare il
    gesto tecnico al contesto è il cuore del problema.
    Siamo soliti pensare al gesto tecnico e alla scelta tattica di un calciatore in maniera disgiunta, invece, un giocatore sceglie di calciare lungo e
    quindi esegue il lancio, perché è la situazione contingente che lo impone. Numerose ricerche hanno dimostrato che queste decisioni avvengono
    attraverso una sorta di “simulazione interna”, basata su esperienze motorie
    pregresse. In sostanza,
    si riconosce la situazione perché è stata vissuta in precedenza. “Questo ci induce a pensare che tanto più è ampio il vocabolario
    di atti motori del soggetto tanto maggiori sono le sue possibilità di apprendere per
    imitazione un nuovo comportamento osservato” (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006).
    Questo significa che tutto quello che io divido (blocchi) durante l’allenamento nella speranza di
    ricongiungerlo alla fine del periodo allenante, non avrà in realtà un “transfer” nella partita, poiché
    il giocatore apprende solamente quando l’esercitazione ripropone le stesse problematiche
    tecniche, tattico-cognitive e fisiologiche che deve affrontare durante la partita.
    Come è stato dimostrato che se si compiono due gesti molto simili ma con finalità diverse, anche se “parti”del movimento sono uguali, tutta la sequenza di attivazione si realizza in neuroni diversi.
    Ne deriva che se insegnamo un gesto tecnico in un contesto avulso dalla realtà di gioco,
    “imparano” ad attivarsi dei neuroni che poi non saranno quelli operanti, dalla tecnica alla motricità.
    Questo perchè la rete neuronale
    risulta essere specifica non dell’azione che svolgiamo, ma dalla finalità, ovvero dall’intenzione che
    sollecita l’azione stessa.
    Questo è il principale motivo per cui le esercitazioni analitiche si mostrano non pertinenti per il processo decisionale perché difformi da quella che è la realtà del gioco ( nel campo il cervello non trova i cinesini e non riconosce la situazione).
    Quindi, per prima cosa facciamo in modo che
    le nostre proposte di allenamento siano aperte, che pongono problemi da risolvere, abbiano uno scopo e un contesto, seppure facilitati, fedeli alla realtà del gioco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *