La devastante Inter impressiona, la Juve arresta l’impeto dominante, il Milan annaspa, insistendo in una commedia tragicomica, fra esclusioni eccellenti, risultati insoddisfacenti, amnesie collettive e manifestazioni di dissenso agli antipodi di tutto ciò che sarebbe doverosamente da accostare eticamente e professionalmente ad un grande club, sempre che, al di là della portata storica, di grande club si possa parlare in termini di conduzione tecnica e societaria nonchè, va da sè, di spogliatoio.
Riordiniamo il tutto e verifichiamo quanto verosimili siano le situazioni elencate o quanto, più dettagliatamente, le sfumature possano essere diverse e magari condurre ad un’analisi meno immediata al fin di cogliere ciò che è celato oltre la superficie. Da quattro anni ormai parrebbe che per l’Inter quella contro l’Atalanta rappresenti una delle gare sostanzialmente più semplici dell’intera stagione: perchè?
Come mai un tecnico fra i migliori in circolazione come Gasperini, finemente preparato nella preparazione e nella lettura degli incontri, tatticamente evoluto come pochi, tendenzialmente dominante e perennemente indicato come fastidiosissimo nell’essere affrontato per la capacità di trasmettere princìpi volti a delineare un’idea di gioco che spesso surclassa per asfissia l’avversario, è puntualmente sopraffatto e tramortito dalla solita scintillante versione meneghina in salsa bergamasca? Possibile che l’intera area tecnica orobica non sia stata capace di leggere nell’arco di tre anni solari le contromisure, a questo punto evidenti e chiare, che lo staff capeggiato da Simone Inzaghi attua puntualmente al cospetto di uno schieramento che fa degli accoppiamenti e dei duelli a tutto campo, dell’uno contro uno esasperato, della puntuale marcatura in fase di non possesso sull’uomo precelto a prescindere dai movimenti del dirimpettaio, le proprie armi? Possibile che in ambito nazionale e continentale, in ogni angolo della vecchia Europa, l’Atalanta abbia costruito una reputazione di sè medesima tale da essere identificata come uno degli avversari volutamente maggiormente da evitare e, di fronte alla Beneamata, abbia puntualmente la capacità di liquefarsi in un nonnulla?
Che, tatticamente, la risposta sia effettivamente da racchiudere nelle accortezze perpetrate dai nerazzurri scudettati è inizialmente lampante: in un vortice di ritmo ed intensità, all’interno di un’espressione alchemica fra le migliori del panorama calcistico in caso di serata di grazia, con tempi di gioco, funzioni e occupazione degli spazi magistralmente eseguiti, con scambi di ruoli, compiti e posizioni, l’Inter riesce ad attrarre l’Atalanta nel tranello di scoprire, usufruendo dell’uno contro uno a tutto campo della dea, spazi da occupare attraverso l’inserimento, con o senza palla, degli elementi più svariati, al fin di rendere confusionaria (a dir poco) la fase difensiva di De Roon e compagni e travolgerli nelle vaste zone da invadere.
Così i centrocampisti, attirando l’uomo, arretrano, i difensori avanzano, le catene laterali ruotano, gli uno-due aprono voragini da cavalcare impunemente e la gara finisce ancor prima di iniziare. La sensazione, però, al netto della duplice marcatura nerazzurra nella prima decade, è che, per l’appunto, la gara sia finita ancora prima di iniziare. Un’Atalanta semplicemente irriconoscibile, indipendentemente da un piano partita che avrebbe potuto farla soccombere come accaduto nelle ultime stagioni, non è, in sostanza, mai scesa in campo. Le modalità della doppietta di Thuram nella ripresa, la tipologia della duplice marcatura dell’attaccante francese, evidenziano una condizione mentale semplicemente assente. Impossibile subire a questi livelli due gol del genere, impossibile replicarne la nefandezza, impossibile supporre che l’Atalanta conosciuta (senza scomodare gli apici di Belfast o Varsavia contro Bayer Leverkusen e Real Madrid) possa rendersi protagonista di scene del genere.
Che le motivazioni affondino le radici nella stanchezza psico-fisica dei pochi giocatori utilizzati nei primi quattro incontri della stagione, che siano ulteriormente da ricercare nei casi Lookman e soprattutto Koopmeiners, che il mercato abbia influito oltremodo disattendendo le primordiali pianificazioni, che, in sintesi, troppe sfaccettature abbiano contribuito a determinare l’andamento della prestazione è fuori dubbio: l’Inter ha dominato, fatto divertire, d’impatto impressionato. Ma, al di là della nuova riuscita dello spartito nei confronti dell’avversario di turno, il presentimento è che molto sia stato ingigantito da un avversario di base già molto frastornato.
Chi continua ad essere frastornato, senza l’ausilio di essere mandato in confusione dal nemico di turno, è il Milan: Fonseca sceglie di non inserire nell’undici titolare Theo Hernandez e Leao, accantona Calabria, ripropone Chukwueze e lancia dal primo minuto Fofana, imprescindibile per caratteristiche e (il che è tutto dire, sintesi suprema dei problemi rossoneri) manifestazione di leadership vocale all’interno del terreno di gioco. La prima frazione pare confortante: il gol del pressochè impeccabile Pavlovic conduce Maignan e compagni al risposo in vantaggio dopo una prestazione ordinata, lineare, accorta, decisamente più all’unisono rispetto alle prime due uscite di campionato, con il buon Terracciano addirittura fra i migliori, assolvendo bene il compito di proporsi internamente in fase di possesso, liberando Okafor o Pulisic sulla corsia alta (e senza grattacapi in fase difensiva anche in virtù della pessima prestazione di Tchaouna nella zona di competenza).
La ripresa è un condensato di pochezza strutturale, comportamentale, collettiva, individuale, gestionale e foriera di strascichi volti ad evidenziare le falle globali dell’universo rossonero. La Lazio affonda lì dove tutti avevano già punito, ribalta il risultato, sottolinea la scarsa propensione alla coesione e all’aiuto reciproco da parte degli attori protagonisti: Tomori ed Emerson Royal sbagliano tempi e letture, Chukwueze non aiuta in fase difensiva, Nuno Tavares galoppa e domina che nemmeno il miglior Roberto Carlos, Pavlovic si fa scappare in una circostanza, quella decisiva, Dia, il Milan soccombe secondo un film drammaticamente già ammirato contro Torino e Parma ( quasi che godere del lato destro della retroguardia sia facile alla stregua di bere un bicchier d’acqua) e a Fonseca non resta che gettare nella mischia gli esclusi. Che risultano determinanti per ristabilire le sorti dell’incontro.
Che allo stato attuale la scelta di tenere in panchina i valori assoluti più elevati della rosa possa essere discutibile, che sia stata condivisa dai quartieri alti, che volesse essere un segnale di forza nella debolezza tangibile, che fosse mirata a pungolare chi è chiamato inevitabilmente ad essere decisivo innalzandone responsabilità e livello, rappresentano opzioni e fattori su cui si può discutere.
Indiscutibile e da condannare è il comportamento tenuto dai suddetti in occasione del “cooling break”: inammissibile sostare agli antipodi del gruppo squadra, non partecipare anche solo passivamente e con svogliatezza all’arco temporale dedito ad un frammentario tentativo di compattezza e coesione morale ed orale, inconcepibile renderlo così plateale da suscitare conseguenze volte forzatamente ad acuire le fratture e a rendere meno armonioso l’ambiente, allucinante sottintendere che il movente possa essere un’esclusione (peraltro, nel caso di Theo soprattutto, non del tutto avventata e campata in aria) nei confronti di chi non ci risulta abbia ancora scritto pagine importanti nella storia di questo sport.
L’ossimoro, ciò che più fa sorridere, è che questo atteggiamento parrebbe per taluni far assumere contorni di leadership ai due protagonisti che, invece, in maniera inconfutabile, hanno per l’appunto evidenziato non solo di non poter essere punti di riferimento per lo spogliatoio ( se non per esclusiva anzianità di servizio, un leader non si sarebbe mai e poi mai comportato come Theo e Leao in quella circostanza) ma che lo stesso spogliatoio sia privo di carisma ed esempi da seguire al fin di essere trascinati dai cosiddetti uomini squadra.
Il Milan si ritrova dunque, dopo Roma, con due soli punti in classifica, con un progetto che latita a decollare ( per usare un eufemismo ), con una conduzione tecnica che glissa su un episodio gravissimo che evidenzia la scarsa personalità della totalità dei componenti della rosa e l’approssimativa presa di posizione di una società, passatemi la battuta (ogni riferimento non è puramente casuale), in vacanza. Una grande società non può tollerare in alcun modo l’accaduto.
La Juventus, reduce da due brillanti prestazioni contro Como e Verona (con gli scaligeri altresì nota lieta con sei punti conquistati negli altri due incontri ), impatta al cospetto di una Roma volutamente, forse esageratamente ( ma comprensibilmente, considerando il solo punto ottenuto fra Cagliari ed Empoli) , giunta in quel di Torino con il chiaro intento di strappare un punto moralmente importante dopo un avvio tribolato: De Rossi pianifica una struttura concettuale volta ad annullare entusiasmo, velleità, pericolosità e coesione armonica di una Juve già identitaria nonostante le sole tre giornate disputate e soprattutto nonostante non abbia praticamente mai potuto usufruire dei giocatori più importanti, arrivati all’ombra della Mole, per usare un eufemismo, nelle ore immediatamente precedenti all’incontro domenicale.
Densità, compattezza estrema in fase difensiva, occupazione della propria metà campo privano la Juve della manovra già ammirata:la sensazione è che i bianconeri si siano col tempo troppo adeguati e siano stati troppo influenzati dall’andamento sperato e imposto dalla Roma, indispensabile per mantenere quei ritmi bassi che avrebbero consentito a Svilar e compagni di evitare che la Juventus potesse sciorinare trame avvolgenti, occupando brillantemente quegli spazi che attraverso movimenti specifici le squadre di Thiago Motta tendono a creare e azzannare.
La maggiore pressione della ripresa ha evidenziato quanto appena sottolineato: con un piglio superiore, una pressione maggiore ed una ferocia agonistica che potesse sconfinare nell’impetuosa volontà di occupare in solitudine la vetta della classifica, la Juve avrebbe potuto far suoi i tre punti magari esponendosi maggiormente a qualche rischio superiore in fase difensiva.
Resta il dato della porta inviolata, di due soli tiri nello specchio subìti nell’arco di tre partite e la consapevolezza di poter contendere all’Inter il titolo allorquando la totalità delle bocche di fuoco facenti parte della rosa sabauda verranno col tempo collocate all’interno di un meccanismo che profuma di soavità espressiva.
Un’evoluzione imprescindibile che consentirà di sopperire alle comprensibili altalenanti prestazioni dei più giovani, in ogni caso sin qui encomiabili, in uno spartito che deve essere qualitativamente implementato dalla presenza dei vari Koopmeiners, Nico gonzalez, Conceicao, Thuram, Danilo e Douglas Luiz, quest’ultimo giocatore sublime per conduzione e tecnica, forse eccessivamente innamorato della sfera, probabilmente il motivo per cui Thiago Motta ha per il momento preferito assegnare a Fagioli e Locatelli i tempi di gioco della squadra: se l’allenatore riuscirà a smussare l’eccessivo possesso in conduzione del brasiliano, rendendolo più veloce nello smistamento e nelle letture dei tempi di gioco volti inevitabilmente a favorire lo sviluppo della manovra, la Juve avrà un ulteriore gioiello su cui puntare, peraltro noto e profumatamente pagato.
La vera nota negativa della sfida dell’Allianz è rappresentata da Vlahovic, stranamente ancora poco pulito tecnicamente negli appoggi e nelle scelte, eccessivamente impreciso considerandone il potenziale valore complessivo (visto che il serbo ha già dato modo di dimostrare che l’esecuzione tecnica di molte delle sue reti è pregiata, come già ammirato a Firenze e in più circostanze in bianconero; conclusioni difficili tramutate in rete, addirittura punizioni calciate egregiamente: perchè, dunque, questa sovente incapacità di “pulire” adeguatamente palloni non complicati?).
Una puntualizzazione: da più parti la prestazione della Vecchia Signora contro i guardinghi capitolini pare aver sollevato accostamenti a dir poco irrisori riesumando quanto visto nelle ultime stagioni: beh, senza perdere tempo (ne servirebbe parecchio e dunque di conseguenza parecchie righe da riempire), l’ossimoro e la risposta è già nell’accostamento. La Roma sceglie di interpretare in quel modo la partita proprio perchè, nonostante sia in piena fase di costruzione ( e proprio per questo ulteriormente da lodare per quanto fatto vedere sinora non usufruendo dei migliori prospetti a disposizione) , di fronte c’era la Juve di Thiago Motta. Mai nessuno, verosimilmente nessuno, avrebbe potuto decidere di affrontare la Juve del predecessore come fatto da De Rossi al cospetto di Thiago Motta. La risposta è già nella considerazione. L’ossimoro è servito.
BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.
2 risposte
Altro articolo condensato, preciso e perfettamente condivisibile, complimenti Andrea. Aggiungo una mia personale sottolineatura sul Milan o meglio sull’operato di Paulo Fonseca. La scelta di non far giocare dal primo minuto Theo e Leao, posto che non sia stata dettata da Ibrahimovic, denoterebbe un carattere audace, invece con un risultato praticamente non ottenuto rimarca ancor di più il deficitario feeling che il coach portoghese, come già accadde nella capitale quando estromise dalla squadra un giocatore di qualità quale Florenzi, riesce a stabilire nello spogliatoio e nel centro di Milanello dove tra l’altro vive.
Mah! Da tifoso Rossonero dico semplicemente… se son rose… fioriranno!
Un caro abbraccio.
Massimo 48
La ringrazio per gli attestati di stima e per gli interventi puntuali e sempre degni di nota!
A presto.