RETORICA E SPORT: IL CASO DEL CALCIO

1.

All’inizio del suo trattato sulla Retorica, Aristotele – siamo a qualcosa di più dei trecento anni prima della nascita di Cristo -, denuncia alcuni comportamenti divenuti ormai consueti nell’Aeropago, ovvero nella sede fondamentale ove esercita la suprema magistratura dello Stato. Dice che “non si deve distorcere il giudice conducendolo all’ira, all’odio o alla compassione”, perché “ciò equivarrebbe a deformare lo strumento di cui ci si deve servire per una misurazione”. Compito di chi sostiene una causa è quello di appurare se “il fatto in questione è vero o non è vero” o “se è avvenuto o non è avvenuto”, ma se questo fatto è “importante o irrilevante, giusto o ingiusto (…) deve deciderlo il giudice stesso e non apprenderlo da chi sostiene la causa”. Dovrebbero esser posti dei limiti, insomma, a chi esercita “l’arte del parlar bene” con lo scopo di persuadere i propri interlocutori. Quest’arte – che, per l’appunto, può essere definita come “la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione” riguardo a checchessia – è la retorica, “una sorta di ramificazione della dialettica e della scienza etica, che è giusto definire politica”. E con questo mi sembra che Aristotele abbia ben inquadrato il problema. Che è, pari pari, nostro, quanto suo.

2.

Si dice che la fortuna della campagna d’Italia che Napoleone condusse nel 1796 sia anche stata dovuta al discorso che lui fece alle truppe – mal nutrite e mal equipaggiate, demoralizzate. Sarebbero bastate sue poche parole ben dette a rovesciare le sorti della spedizione. Oltre che nei tribunali, allora, della retorica ci si è serviti anche nell’arte della guerra. E, per venire a noi, lo sport, come sappiamo, con la guerra condivide tanti caratteri: l’avversario può esser visto come il nemico – che va combattuto e sul quale bisogna prevalere; il modo per ottenere il risultato può esser visto in termini di tattica e strategia; la vittoria è un trionfo e la sconfitta una ignominia, e così via prendendo a prestito il linguaggio dell’una per raccontare le vicende dell’altro. Che la retorica funzioni è indubbio – oltre al caso di Napoleone, la storia umana è zeppa di dittatori, condottieri e capi carismatici che, per un certo periodo, sono riusciti a persuadere masse smisurate di persone (salvo, poi, allorché le cose sono andate male, dalle stesse persone esserne perseguitati); e la storia dello sport, fin dalle olimpiadi dell’antica Grecia, racconta di quanto siano state importanti le comunicazioni degli allenatori agli atleti per far loro ottenere i migliori risultati.

3.

Il caso del calcio, tuttavia, è particolare e può indurre a qualche riflessione non banale. Perché il rapporto dell’allenatore con il singolo atleta è un conto, ma tutt’altro conto è il rapporto con una squadra, ovvero con un collettivo di persone che, nonostante siano dichiaratamente tutte interessate ad ottenere lo stesso risultato, mantengono comunque una propria individualità, vivendo, peraltro, in un clima che, spesso, anziché diminuirla, incentiva la competizione reciproca.

Innegabilmente, in questi ultimi anni, nel contesto calcistico la retorica ha finito con il preponderare, caratterizzando la maggior parte delle comunicazioni che vi si scambiano. Penso al linguaggio con cui si racconta e si commenta la partita dagli studi televisivi – un linguaggio dove l’enfasi e la parzialità di giudizio sembrano ormai necessarie, quasi indispensabili; penso ai titoli sempre più cubitali anche in rapporto a notizie di  minimo conto nei giornali specializzati; penso ai toni incalzanti con cui vengono intervistati i protagonisti; penso all’attenzione esagerata e del tutto insignificante che le telecamere rivolgono agli spogliatoi prima della partita (una sorta di ridicolo voyeurismo a bassissimo contenuto informativo).

Ma penso anche a come l’organizzazione stessa della partita corrisponda pienamente a questa dovizia di retorica: i rituali e le coreografie pre-partita, per esempio – gli schieramenti, gli inni nazionali, i membri dello staff che, impettiti, si tengono per mano per manifestare pubblicamente un’unità di intenti che, a dire il vero, dovrebbe essere già implicita in quanto si presume abbiano fatto, le stesse voci degli speaker degli stadi che, più che informare, sembrano lanciare slogan. Ho fatto notare spesso, in proposito, un fenomeno, ahimè, inesorabile: quante persone, mi chiedo, partecipando come d’abitudine ad una Santa Messa in una chiesa cattolica sono pienamente consapevoli del fatto che, in quel momento, si sta ricordando l’uccisione di qualcuno ? Oppure: quante persone di quelle che cantano a squarciagola il nostro inno nazionale hanno un’idea del significato delle parole che pronunciano ? Se la risposta a queste domande è “ben poche”, la ragione di ciò sta nel fatto che ogni rito, nel ripetersi, rischia di far perdere il proprio significato a chi lo compie.

La ripetizione – da cui la ridondanza nel discorso – è uno dei pericoli maggiori in cui può incorrere una comunicazione che voglia risultare efficace. Gli allenatori lo sanno o dovrebbero saperlo bene: se, parlando alla squadra, si ricorre alla stessa forma di comunicazione già usata in precedenza, dopo un paio di volte al massimo, saranno oggetto di ironie.

4.

Essere retorici nello spogliatoio di una squadra di calcio può costare caro. Una squadra non ha bisogno di comunicazioni a forte tasso di emotività, ma piuttosto di comunicazioni dall’alto tasso di informatività. Come in tutti i giochi collettivi, infatti, nel calcio ciascun giocatore è chiamato ad assumersi sempre e comunque – in ogni fase di gioco – le proprie responsabilità. La comunicazione a forti tinte retoriche può mirare a compattare, a fare massa, anche a reclutare un certo spirito di squadra, ma non certo a conferire maggiore consapevolezza dei propri compiti ai singoli individui che questa squadra costituiscono. E nel calcio non c’è bisogno di produrre in serie tanti soldatini ubbidienti da mandare in trincea con le parole d’ordine. Per la natura stessa del gioco e per il suo sviluppo, occorre incentivare l’innovazione promuovendo la creatività individuale nonché processi di integrazione che vadano a vantaggio del collettivo: autonomia, pensiero critico, capacità relazionale sono pertanto gli obiettivi da perseguire correlativamente alle competenze tecniche già nelle fasi formative.

5.

Non sempre la retorica è stata vista come la soluzione migliore di tutti i problemi – il che voleva dire non nasconderli dietro un fiume di parole – e non sempre quest’arte del parlar bene che può rivelarsi anche arte dell’inganno è stata vista come socialmente innocua. Racconta Aulo Gellio nelle sue Notti attiche che, nel 161 avanti Cristo, un editto bandì i retori da Roma e le loro scuole vennero chiuse. La retorica venne considerata come una novità estranea alla cultura latina ed alla tradizione degli antenati. Poi, come ben sappiamo, ci dovettero ripensare perché, diciamo così, le esigenze imperiali lo imponevano.

6.

Tra l’esecutore inconsapevole – passivo, convinto dalle belle parole – e quello consapevole – partecipe, convinto dai fatti – preferisco il secondo. D’altronde tra chi esegue senza capire e chi esegue sapendo come stanno le cose la differenza è palese: nel momento in cui le cose non vanno come devono andare o come è stato prestabilito che vadano, il primo non saprà che pesci pigliare, mentre il secondo saprà intervenire adattandosi alla situazione nuova. Così mi sembra debbano andare le cose nel calcio che, nonostante tutti gli studi che gli sono stati dedicati, per fortuna resta un gioco dove l’imprevisto irrompe di continuo modificando quanto preventivamente pianificato. La capacità di adattamento è una qualità indispensabile del calciatore.

7.

La retorica militare supporta in molteplici modi la diffusione del nazionalismo. Che lo sport sia oggi usato anche a questi fini è sempre più evidente. E per sapere che il nazionalismo si è sempre lasciato alle spalle milioni di vittime basta dare un’occhiata alla storia che ci precede. Pertanto, non si tratta soltanto di riequilibrare i toni nel mondo dello sport in genere e in quello del calcio in particolare, ma si tratta di capire che da forme di comunicare eticamente corrette – come avrebbe detto Aristotele – dipende la convivenza civile di tutti noi.

BIO: Felice Accame (Varese, 1945) dal 1989 insegna Teoria della Comunicazione presso il Settore Tecnico della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Presiede la Società di Cultura Metodologico-Operativa,  con Anna Rocco ha fondato il Centro Studi per l’Analisi del Linguaggio di Genova (https://centrostudiperanalisidellinguaggio.com/) e dirige methodologia.it

Fra le opere principali: La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (2002), Il linguaggio come capro espiatorio dell’insipienza metodologica (2015) e Il dispositivo estetico e la funzione politica della gerarchia in cui è evoluto (2016). Fra le opere dedicate al calcio: La sintassi del calcio (1982), Prima del risultato (1985), L’analisi della partita di calcio (1992 ), Pratica del linguaggio e tecniche della comunicazione (1996 ) e il Manuale di comunicazione per l’allenatore (2022).

2 risposte

  1. ” Esistono degli scrittori presagici, ma il presagio non è stato colto”. cit. Un caro saluto ad un immenso ( esteso anche a Papere )

  2. Coniugare gli eventi della storia con quelli dello sport e nella fattispecie con quelli del calcio non è cosa semplice, ma lei Sig. Felice ci è riuscito in pieno.
    Se da un lato il grande Napoleone è riuscito ad ottenere obbedienza dalle sue truppe assoldate obbligatoriamente con poche manciate di Franchi, dall’altro assistiamo esattamente al contrario, sorbendoci passivamente le diatribe che si accendono allorquando un team, non ottenendo i risultati prefissati si ritrova il trainer in primis, ad essere messo alla gogna, il quale a sua volta emulando le gesta dell’Empereur cerca invano con sterili colloqui di trovare un punto d’intesa con i propri calciatori dimenticando purtroppo che questi ultimi sono giovincelli strapagati e con il portachiavi dell’ultima fuoriserie in saccoccia… e così… verba volant… e tutto torna ad essere esattamente come prima, alias, il resto di niente (Milan docet!)
    Ben scrive nellincipit del suo pezzo ad evocare i saggi indottirinamenti del sommo Aristotele.

    Un caro saluto.

    Massimo 48

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