DI NUOVO INSIEME. GLI OASIS E IL MANCHESTER CITY

Mercoledì 18 settembre 2024. Al debutto nella nuova Champions, il Manchester City gioca in casa contro l’Inter e scende in campo con addosso una nuova maglia. Si chiama Definitely City, un’edizione speciale ispirata alla copertina di Definitely Maybe, l’album d’esordio degli Oasis. Un omaggio dei cytizens alla recente reunion dei fratelli Noel e Liam Gallagher, dopo la rottura tra i due e lo scioglimento della band nel 2009. Questa è la storia del profondo legame che unisce da sempre gli Oasis e il City. Parla della passione che si cela dietro a questa iniziativa di marketing.

La copertina di Definitely Maybe è iconica, l’avrete già vista. C’è una stanza con i cinque membri della band disposti qua e là, sdraiati, seduti, in piedi. Con tanti oggetti attorno. Tra cui la foto di un capelluto Rodney Marsh, attaccante dei cityzens della prima metà degli anni ‘70, in posa orgogliosa. Marsh era un tipo vero, eccentrico, carismatico ed esuberante proprio come i giovani fratelli Gallagher e, di riflesso, gli Oasis. Il legame di Noel e Liam con il City è di profonda appartenenza. Una seconda pelle. La passione per quella che allora era la squadra ‘povera’ e ‘perdente’ della città nasce già nella prima infanzia e non li abbandonerà mai, intrecciandosi ad ogni fase della loro tumultuosa carriera. Li accompagnerà sempre, anche in sala di registrazione. Lo si vede in Supersonic, docufilm del 2016 omonimo al loro singolo di debutto. L’andamento della partita condizionava il loro umore e registrare diventava più difficile se il City perdeva. Oppure: “sbrigati, dobbiamo registrare in fretta perché inizia la partita”.

Il Man City sembra l’unica cosa ad unire davvero Noel e Liam, così diversi (se non inconciliabili) su tutto il resto. Anzi no, ce n’è un’altra ed è la mamma, più della musica. Le saranno per sempre grati per averli cresciuti e protetti da un padre violento. Anche agli apici del successo, la chiameranno ogni domenica. I Gallagher, come amano ricordare, sono “solo” due ragazzi che emergono dalle case popolari della Manchester operaia. Cresciuti a birre, risse e partite di calcio. Ma non è un elogio agli hooligans: Noel e Liam non vi si riconoscono, per quanto vivano il calcio in modo rovente. Rappresentano lo sfogo e l’evasione della classe operaia, dove il tifo si sovrappone al desiderio di riscatto. Loro ce l’hanno dentro e vi portano molto rispetto, così come i loro fan. Ruvidi ma pieni di cuore. Contro ogni etichetta: “di un barattolo di fagioli conta solo quello che c’è dentro”. Il loro è un elogio all’autenticità, la cosa che più ammirano di Maradona. Sogneranno così tanto di incontrarlo che alla fine succederà, e questo è un aneddoto vale una parentesi, di colore.

Una sera i Gallagher si trovano in un bar di Buenos Aires, quando scoprono che il frastuono proveniente dal piano di sopra è del pibe de oro e della sua “banda di fottuti matti”. Devono assolutamente incontrarlo, così si lavorano un interprete e alla fine riescono a salire. Anni dopo a VICE Liam ricorderà, a parole sue e con quell’accento di Manchester così marcato: “siamo entrati e c’erano un sacco di…attività in corso. Maradona era in mezzo alla stanza e faceva dei cazzo di giochetti calcistici con il tappo di una bottiglia. Sudava con le palle di fuori. I suoi occhi erano fottuti. I nostri non erano lontani dall’esserlo. Io mi dissi, ‘è un po’ umorale, facciamoci velocemente una foto insieme e andiamocene affanculo’”. Quella foto è diventata famosa e risale al 1997. E in effetti lì i Gallagher sembrano “solo” due ragazzi delle case popolari fissati con il calcio, gasatissimi per aver incontrato il più forte calciatore di tutti i tempi. Da sinistra a destra: Noel, Diego e Liam. Tutti e tre con l’azzurro nel cuore, del Napoli o del City. E un richiamo a Argentina – Inghilterra, alle Falkland e alla mano de Dios.

Eppure, contrariamente all’apparenza, in quel momento gli Oasis erano dei giganti del rock e i re del britpop. Con l’uscita dell’attesissimo Be Here Now erano all’apice della loro fama. Un disco record: 420.000 copie in un giorno, un milione in una settimana. Tutti impazziti, era ‘oasismania’. E in quel periodo Noel e Liam avevano da poco coronato il sogno di suonare in uno stadio. Quale? Beh, la prima volta non poteva che essere al Main Road, l’allora casa del Manchester City. Aprile 1996: 40.000 persone in delirio, un concerto memorabile. Con Liam che all’improvviso esce di scena per rientrare sul palco con addosso la felpa ‘Umbro’ di allenamento dei cityzens, segnando per sempre l’iconografia e la cultura pop britannica. Il main sponsor delle maglie del City di allora? ‘Brother’, ovviamente. Un’azienda giapponese di macchine da cucire, stampanti, fax e altri apparecchi elettronici. Quasi un tributo ai fratelli Gallagher.

Main Road divenne ancor più simbolico per gli Oasis perché Liam, lì sul palco, stava indossando i colori dei poveri e dei perdenti di Manchester. Quello stesso anno il City fu retrocesso in seconda serie, dopo una stagione disastrosa iniziata con 2 punti nelle prime 11 giornate, sotto la guida dell’ex Campione del mondo ’66 Alan Ball. A dirla tutta, in quella stagione un breve momento di slancio c’era stato. È durato appena un mese, ma è bastato ai tifosi per trasformare “You’re my wonderwall” in “You’re my Alan Ball”. Una specie di “Pioli is on Fire” in chiave sarcastica, nato da uno psicodramma e preso in prestito dai più grandi ambasciatori del City nel mondo, di allora e di oggi: gli Oasis appunto. I cityzens ‘95/‘96 chiusero 18°: 38 punti, come Coventry City e Southampton, ma con una peggior differenza reti. Wonderwall però era già diventato un inno intramontabile per i tifosi: lo avrebbero cantato a squarciagola in quell’annata sciagurata così come tra le strade di Istanbul il 10 giugno 2023, dopo la vittoria della loro prima Champions League (1-0 sull’Inter, gol di Rodri al ’68). A Istanbul lo canteranno anche i calciatori durante i festeggiamenti in spogliatoio, trascinati da uno scatenato Jack Grealish, il più Oasis di tutti. La stessa traccia che, un anno prima, Erling Haaland usò per spoilerare al mondo via social il suo imminente passaggio ai cityzens.

Oasis e Man City, così uniti eppure mai sulla stessa lunghezza d’onda. Dall’esordio della band nel 1991 al suo scioglimento nel 2009 i cityzens andavano malissimo. Un paio di promozioni dalla seconda divisione e al massimo un 5° posto in quella che oggi è la Premier League. Con in mezzo addirittura una retrocessione in terza serie nel ’98-‘99 e una risalita sofferta attraverso i play-off. La storia cambia con l’arrivo degli sceicchi nel 2008, in un crescendo di onori e successi che parte con Roberto Mancini. Ma è tardi: gli Oasis si sono sciolti. I fratelli Gallagher non si parlano più, non si sopportavano più. Negli anni continueranno a dire: “Quando gli Oasis andavano bene, il City era una merda. Ma adesso che gli Oasis si sono sciolti il City sta andando bene” (Liam); “Se avessi saputo che sciogliere gli Oasis avrebbe significato, per il City, vincere la Premier, lo avrei fatto quindici anni fa” (Noel). Ai Gallagher, che sono due scaramantici e rancorosi, questa alternanza di momenti di gloria non è mai andata giù. Ed è l’aspetto più romantico della storia. Come se esistesse una sorta di legge del contrappasso tra gli Oasis e i cityzens: fino ad oggi non li avevamo mai visti insieme al vertice. O gli uni o gli altri. Poi, all’improvviso, la provocazione di Liam con un tweet che incendiò il web, dopo le semifinali di Champions 2023: “Se il Manchester City vince la Champions League, chiamo mio fratello e rimettiamo insieme la fottuta band”. I fratelli Gallagher erano pronti a deporre le armi, a riunirsi nel nome del loro amato Man City. Poi certo, anche dei soldi. Ma ciò che conta è cha siano stati di parola: gli sky-blues si laureano campioni d’Europa e gli Oasis, a 15 anni dall’ultima volta, tornano in scena. La lunga attesa è finita.

Il vero segreto degli Oasis – lo dicono loro stessi – è sempre stato “l’amore, la gioia, la rabbia e la passione che vengono dalla folla”. Gli Oasis erano questo: l’alchimia con la gente. Non il talento né la dedizione, ma il tifo. Quello che hanno dato e quello che hanno ricevuto. Ecco, comunque la si guardi, io credo che al centro di questa storia ci sia sempre un tifoso, di calcio, di musica o della propria vita. Per tutto questo, desidero dedicarla a mio fratello.

BIO Alessandro Scalcon: 35 anni, sociologo di formazione, senior researcher dell’Istituto SWG. Cura indagini scenariali, osservatori valoriali e sondaggi d’opinione, in particolare su giovani, innovazione, sport, lavoro e ambiente. Svolge con regolarità ricerche a supporto di iniziative di comunicazione e posizionamento strategico. Si è occupato della generazione di contenuti editoriali data-driven tra gli altri per La Gazzetta dello Sport e La Repubblica. Da sempre cuore rossonero, appena può in Curva Sud al Romeo Menti di Vicenza.

4 risposte

  1. Bell’articolo Alessandro: Chapeau! Mi ha particolarmente colpito, essendo anche io un milanista, il paragone con il
    “Pioli is on fire” che tanto vorrei risentire! Buona serata.

    Massimo 48

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