Quella di Rafael Leao è una storia che ci racconta della complessità del calcio, di quanto sia a volte difficile interpretare certi calciatori e determinate situazioni.
L’argomento in questione è estendibile a tutti, dentro e fuori dai confini del rettangolo verde: si parla dell’indolenza, il vituperato vizio che per i più contraddistingue lo spirito di Rafael Leao.
Ma siamo davvero sicuri che sia questo il suo peccato?
L’indolenza nasce dal malanimo ed è la tendenza all’immobilità e non è solo un limite che frena moltissimi calciatori ma anche un condizionamento che inibisce ed ostacola un enorme numero di persone nella vita di tutti i giorni.
A volte alla pigrizia si abbina la disillusione e la depressione, una mancanza di energie dovuta al fatto che la mente ne disperde troppe altrimenti. Spesso questa dispersione è dovuta dal peso che alcune rimozioni che sono state fatte durante l’infanzia e la prima adolescenza hanno sulla mente e sull’anima. Altre volte l’indolenza è meno passiva e si accompagna ad una sfrontata sfacciataggine che sfida e dichiara con ostentazione:”voi non mi cambierete! Io sono così”.
Si potrebbe anche liquidare superficialmente questa dichiarazione di guerra al mondo definendola una manifestazione di immaturità, ma andando più in profondità quel “voi non mi cambierete” altro non è se non il grido disperato di chi alza una difesa, una protezione, e che si dimostra di conseguenza preda di una profonda paura: quella di fallire.
Non che ci sia del male nell’avere paura di fallire, ma l’esserne preda è una cosa diversa, perché atterrisce, immobilizza e scoraggia qualsiasi reazione. Rinchiudersi in se stessi, marcare dei limiti invalicabili ed inquadrarsi in linee che confinano (quindi proteggono) è il sintomo di chi per paura di cadere ha deciso di fermarsi. E’ la conseguenza di chi per autoimporsi limiti ben definiti ha scelto di alzare bandiera bianca, proprio là dove ha creduto di non poter andare oltre. In questo modo non si è più costretti a fare un passo in avanti, perché è grande la percezione del rischio di non riuscire. La grande paura non è solo quella di non farcela ma quella di avvalorare quelle insicurezze che sono spesso eco di voci remote e familiari ascoltate durante l’infanzia da parte di chi avrebbe dovuto incoraggiare il bambino invece di minarlo alle fondamenta.
A volte si reagisce all’apatia meno passivamente e all’indolenza si accompagna un sorriso di sfida che maschera la sofferenza, ma che come una coperta troppo corta rivela inevitabilmente a più riprese quell’insonne malanimo sempre presente. L’Antonio Cassano, il Balotelli, ragazzi che senza dubbio hanno scelto molto presto di fermarsi e di non arrischiarsi a sfidare i propri limiti hanno molte volte manifestato quella frustrazione profonda e quella indolenza figlia della mancanza.
Non penso che si possa dire lo stesso di Rafael Leao, che a differenza dei due nomi fatti in precedenza è decisamente più spensierato e meno tormentato, con un sorriso che non è mentale e provocatorio, non è conflittivo ma conciliante, spontaneo e che nasce dal cuore. Penso che il sentimento alla base di quel sorriso sia un elemento da tenere da conto.
In assenza delle tracce di tormento che dovrebbero essere alla base dell’indolenza di cui si incrimina Leao la mia interpretazione è che il suo “problema” sia di altro genere.
Quella consapevolezza che ti fa dire: “io sono così, lo accetto e me lo godo, non mi tormento per essere quello che non sono” è probabilmente lo specchio di una forma mentis che gode di realizzazione.
Qualche mese fa lo stesso Leao ha dichiarato: “Perché sorrido? C’è gente che non ha l’acqua per bere. Quando puoi camminare, hai da mangiare, magari hai qualcuno che ti vuole bene, la vita è “smile”. Io ho tutto, ho anche di più, Dio mi ha dato un dono e io gli sono grato. Il mio lavoro è giocare a pallone, ho coronato il mio sogno di bambino. Come potrei non sorridere?”.
Da queste parole quella che a mio parere emerge è una grande consapevolezza, radicata e ben piantata per terra, accompagnata da un’ambizione che ovviamente è inversamente proporzionale, perché l’ambizione nasce dalla mancanza sfidata e muore nella realizzazione.
Credo dunque che il vero problema sia più il modo in cui si guarda Rafael Leao, il modo in cui lo si fraintende e non lo si vede.
Leao non è un leader, non è un trascinatore che porta la bandiera sulle spalle e guida i compagni verso la vittoria. Non ha quello spirito.
Bisogna cambiare prospettiva verso un ragazzo che chiede di non essere cambiato, perché il suo voler restare così (a parer mio) non nasce dalla paura di fallire e dal non essere in grado di sfidare i propri limiti, ma al contrario dall’aver scelto coscientemente di non lottare per superarli e dalla voglia di celebrare la propria felicità sullo stesso terreno dove l’ha realizzata.
Rafael Leao paga la colpa di preferire l’essere felice all’essere il migliore, di non sentire la mancanza di qualcosa e di sentirsi pienamente realizzato, ma ancora di più paga il fatto di giocare in una grande ormai se non decaduta almeno postmoderna, in cui viene colpevolmente identificato come il giocatore chiave.
Lottare per sfidare i propri limiti dovrebbe essere una “conditio sine qua non” nello sport competitivo, ma questo non vale né per tutti né per sempre. Perché non tutti riescono o vogliono diventare delle stelle. Soprattutto gli sportivi dotati di estremo talento e provenienti da gioventù sofferte fatte di pane e mancanze sono spesso rapidi nel tirare i remi in barca, chi per un motivo chi per un altro, e scegliere di godersi ciò che hanno ottenuto piuttosto che lottare fino alla fine ed oltre per superare i propri limiti ed alzare costantemente l’asticella del loro potenziale.
Come ci si può aspettare che sia Leao a trascinare il Milan oltre i propri limiti, quando lui stesso sceglie di non sfidare i suoi?
Quello che penso è che bisognerebbe imparare ad accettarlo, goderselo e a ridimensionare le aspettative che si hanno su di lui. Bisognerebbe guardare alla squadra o ad altri con l’aspettativa che emergano trascinatori che portino la bandiera.
In un grande Milan del passato, squadra gloriosa ricca di stelle, Leao sarebbe stato un giocatore più marginale ed apprezzato, di talento indubbio e con la capacità di poter cambiare alcune partite ma non certamente centrale. Mi viene in mente il ruolo che aveva Obafemi Martins dell’Inter ad esempio, giocatore con enormi qualità atletiche e buone doti tecniche per la velocità che riusciva a raggiungere, ma con con dei limiti, che da rincalzo era sempre pronto a spaccare la partita o a partire con grande slancio da titolare in assenza di suoi compagni più strutturati. Scommetto che la maggior parte degli interisti lo ricordano con simpatia e affetto. Penso che non sarebbe stato così se non ci fossero stati i vari Vieri, Crespo e Recoba e se fosse stato lui il solo a dover condurre l’offensiva dell’Inter.
Leao è su di un livello superiore rispetto ad Obafemi Martins, questo è chiaro, ma il concetto è che sarebbe senza dubbio stato più amato ed apprezzato se ci fossero stati attorno a lui calciatori più trascinanti e meno limitati.
Non è un caso che la sua miglior stagione sia combaciata con la vicinanza ad un micidiale catalizzatore di pressioni, il non plus ultra del leader, un calciatore che ha fatto del superamento dei propri limiti una vera ossessione: Zlatan Ibrahimovic, il compagno perfetto per Rafael Leao.
Avere accanto Ibrahimovic, che ha portato in prima linea e senza paura la bandiera in spalla, non è stato solo da sprone per tutti con il suo esempio, ma ha anche dato la possibilità ad un giocatore come Leao di essere se stesso in modo da potersi esibire in tutta la freschezza e spontaneità con meno pressioni.
Per questo Leao va ripensato e reinterpretato. Bisogna accettare che il de-siderio di vederlo essere quello che non è, altro non è che (letteralmente) la manifestazione dell’assenza di stelle (de-sidero = mancanza di stelle). Il tifoso Milanista (e non solo lui) deve fare pace con il fatto che Leao è un ragazzo realizzato, felice e beato e che vorrebbe restare così e non essere tormentato da chi gli chiede di incarnare ciò che lui non può essere. Lui vuole divertirsi e celebrare la sua felicità con i mezzi straordinari di cui è dotato in tutta la sua naturalezza.
E’ chiaro che un dirigente accordo, se giungesse alle stesse conclusioni, non dovrebbe mai accordargli uno stipendio da stella e anzi potrebbe decidere, comprensibilmente, di metterlo sul mercato, incassare e reinvestire.
Il Milan ha bisogno di mettere al centro del progetto giocatori e soprattutto uomini che non sono realizzati ma che anzi sono degli animali da competizione famelici e irrisolti, che pur avendo raggiunto tanti loro obiettivi non vedano mai il traguardo alle proprie spalle ma sempre davanti. Credo che se si guarda indietro e si pensa a quanti si sentissero realizzati tra i vari Stam, Nesta, Maldini, Gattuso, Pirlo, Seedorf, Shevchenko, Inzaghi & co. si farebbe molta fatica a trovarne anche solo uno, nonostante i loro immortali successi. Accanto a questi giocatori un Leao, senza la pressione di dover essere lui il salvatore della patria, sarebbe molto più performante, apprezzato e stimato.
Leao va liberato dalle pressioni e accompagnato da giocatori di un livello più alto o va venduto. Le stelle sono altre. I campioni sono continui, trovano sempre nuove motivazioni per alzare l’asticella, non hanno bisogno di essere trascinati e soprattutto non chiedono di non essere cambiati ma sono sempre aperti e disposti ad evolversi per raggiungere livelli più alti.
Io credo che la storia di Leao dovrebbe insegnare la differenza che c’è tra il vedere e l’idealizzare, dovrebbe portare ad accettare i limiti e a saper differenziare le stelle dagli ottimi giocatori.
In conclusione, penso che il caso Leao dovrebbe far capire una volta per tutte ai Milanisti che per affidare lo scettro del trascinatore è più importante il carattere che il livello tecnico/atletico (che comunque deve essere alto), perché questo scettro si fa tanto più leggero quanto più si poggia sulle spalle di uomini sportivamente mai risolti e mai realizzati, famelici e sempre alla ricerca di un qualcosa che gli sfugge e che mai raggiungeranno.
BIO: GIULIO D’ALESSANDRO
Appassionato tifoso romanista, Agente Fifa, proprietario e fondatore della D’Alessandro Scouting, società internazionale di scouting, procura e intermediazione. Oltre ad essersi occupato del trasferimento di calciatori ed allenatori in diverse nazioni del mondo ha gestito diversi progetti internazionali tra i quali la partecipazione al Torneo di Viareggio di una squadra della Federazione Nigeriana, la gestione tecnica della Juventus Academy di Dushanbe e la fondazione e la gestione di un Dipartimento Scouting Internazionale con più di 30 osservatori provenienti da tutto il mondo che sta coadiuvando le attività di scouting di diversi clubs professionistici del panorama calcistico mondiale. Dal 2024 la sua società è anche partner ufficiale della Federazione Calcistica della Sierra Leone.
Al di fuori del calcio è appassionato studioso di antropologia, storia, sociologia e psicologia.
5 risposte
Bellissimo articolo Giulio! L’analisi che hai psichicamente e meticolosamente descritto sul lusitano “campione incompreso” non fa una grinza anzi le tue profonde dissertazioni tecniche a latere della sue prestazioni (e qui si nota che hai le mani in pasta) fanno comprendere
al meglio l’ecletticita’ del calciatore.
Purtuttavia il normale tifoso rossonero, ed il sottoscritto se pur nativo di Roma è uno di quelli, si pone delle banali domande le cui risposte non soddisfano appieno la validità dell’attuale Nr. 10 tipo: È la sesta stagione che gioca al Milan 168 presenze con 48 reti non sarebbe male ma è la sua discontinuità che preoccupa. Ha 25 anni, a breve sarà padre di una coppia di gemellini e si dovrebbe vedere in volto sicurezza in luogo spesso e volentieri di atteggiamenti irritanti o peggio strafottenti. Last but not least percepisce uno stipendio tra i migliori del campionato ed è dunque logico, ed è il mio personale augurio, attendersi la sua consacrazione finale in qualità di campione indiscusso ed in lizza per il Pallone d’oro! Forza Rafael sei uno dei nostri!
Massimo 48
Infatti il vero problema di Leao ee uno dei grossi problemi del Milan è che lui giochi sempre titolare e con la maglia nr 10… Spesso pare siamo in campo in 10. Un po’ di panchina non solo farebbe bene a lui ma anche alla squadra. Abbiamo vinto il derby nonostante fosse in campo.
Il vero problema che non si può panchinare perché si svaluterebbe. A questo punto sarebbe stato meglio venderlo dopo lo scudetto
Questo articolo andrebbe fatto leggere a tutti coloro che scrivono di calcio e soprattutto ai commentatori sportivi, compresi gli ex campioni che in tutti questi anni di Leao non non hanno capito davvero nulla. La descrizione di Giulio è profonda e competente come poche volte ci capita di leggere. Una vera lezione magistrale che finalmente alza il livello della cultura calcistica attorno al racconto di questo giocatore. Un grazie sincero!
Giulio buongiorno. Mi ha insegnato e mi ha aperto la mente. Da adesso, con questo articolo di alto livello ,saprò leggere molto meglio Leao e lo seguirò da buon milanista ,con altri occhi. Certe sfumature messe in evidenza mi hanno arricchito . Grazie mille. È sempre bello imparare anche a 67 anni.