Gli hater. Quella specie sempre meno rara e sempre più in via d’espansione che, come ogni buona bocca spalancata, non ha ancora capito l’importanza di una pausa riflessiva prima di sparare sentenze. I nostri cari criticoni, alla vigilia del derby, già intonavano il de profundis per Paulo Fonseca, allenatore del Milan. Il loro mantra: “Fonseca esonerato, salutiamo Fonseca. Pronto Ibrahimovic a rimettere ordine”. Ordine? Ordine di che? Forse nei loro armadi di frustrazione?
Eh sì, dopo la sconfitta in Champions contro il Liverpool — quei Liverpool che, guarda caso, sta brillando in Premier, come il povero Bournemouth sa bene — la parola d’ordine per i nostri profeti di sventura era una: finito. D’altronde, cosa ci si poteva aspettare da chi osserva una partita come si osserva un quadro astratto, capendoci poco ma facendosi sentire tanto?
Eppure, eccoci qua. Arriva il derby. Il vero campo di battaglia, dove non c’è spazio per le ciance. E che fa il Milan del tanto criticato Fonseca? Vince. E non solo vince: soffoca l’Inter, crea occasioni su occasioni, e alla fine, come un segno del destino, è Gabbia, sì proprio lui, a svettare e colpire di testa per il 2-1 decisivo. Sì, Gabbia, proprio quel centrale tornato clamorosamente in auge da gennaio. E non si è trattato solo di un guizzo di fortuna, ma di una squadra che ha avuto tantissime occasioni, che ha dimostrato un gioco, un’identità. Quella che i signori del “#FonsecaOut” non avevano neanche provato a vedere.
Tra gli esperti da studio e gli opinionisti vari, quelli che solo pochi giorni fa sventolavano il loro verbo calcistico come fosse vangelo, cala un imbarazzante silenzio. E chi può biasimarli? Paolo Fonseca, il tecnico portoghese del Milan, ha appena reso obsoleti anni di chiacchiere sul “modulo che non garantisce copertura”. Loro volevano un solido, rassicurante 4-3-3; lui ha risposto con un’opera d’arte tattica, un capolavoro di fluidità e imprevedibilità.
Fonseca ha dominato il derby della Madonnina, e non con i canoni dettati da quegli “esperti” che, seduti comodi in studio, cercano il compromesso sicuro. Oh no, Fonseca ha schierato Pulisic e Leao sugli esterni, due cavalli pazzi, due “frecciatine” esplosive che si lanciavano avanti, copertura difensiva o no. E non contento, ha piazzato davanti due punte come Morata e Abraham, nomi che suonano come sinfonie di creatività e potenza, senza preoccuparsi di ciò che dicono i “profeti della prudenza” da talk-show.
Ora, cosa diranno? Che il colpo di Gabbia è stato solo un miracolo? O forse Fonseca ha finalmente imparato a leggere le istruzioni sul retro della scatola del “calcio vincente”? Ah, se solo il sarcasmo fosse una moneta corrente, questi critici sarebbero milionari.
Invece, come sempre, saranno lì, pronti a riaprire bocca alla prossima partita. Perché di una cosa possiamo essere certi: Fonseca rimane, vince, e loro rimangono lì, impotenti e stizziti, con le dita pronte a riscrivere il solito copione. Che Fonseca non sia un eroe da copertina è chiaro. Ma mentre i mefistofelici critici si affannano a cercare nuove colpe, il Milan è lì, con il suo tecnico che, a differenza dei troppi in panchina, ha ancora una visione e, soprattutto, la squadra dalla sua parte.
Fonseca, elegante e impassibile, non si è fatto contagiare da questa frenesia del risultato immediato. Ha osservato tutto dall’alto, ha costruito, ha aspettato. E nel derby, proprio in quel teatro dove Pioli veniva maltrattato dall’Inter di Simone Inzaghi negli ultimi anni, Fonseca ha dimostrato di essere il regista di un film che molti, forse, non avevano ancora capito. Una vittoria che non è solo tattica, ma narrativa.
Ed è qui che entriamo nel cuore della questione. Fonseca è arrivato in un calcio che di narrazioni ne produce tante, troppe, senza dar tempo agli autori di scriverle. In Italia si vuole tutto e subito, come se il calcio fosse un fast food di emozioni. Se non hai successo alla prima, sei già bollato. È l’ossessione del “risultato” che uccide la visione. Quante volte lo abbiamo visto? Allenatori scartati prima ancora di poter disfare le valigie.
Il Milan di Fonseca ha dimostrato che audacia e coraggio sono ingredienti insostituibili nel calcio, e non certo il compromesso sterile che tanto piace ai teorici da studio. Ma, del resto, questa è la storia del calcio. L’innovazione è sempre stata vista con sospetto, perché mette in discussione tutto ciò che è noto, tutto ciò che è rassicurante. Ma oggi, Fonseca è l’architetto di qualcosa di nuovo. E gli esperti, beh… loro possono sedersi, osservare, e prendere appunti.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.
2 risposte
Gran bell’articolo come sempre Vincenzo! Fai bene a sottolineare tutti i makumba che sono girati intorno a Fonseca praticamente da quando aveva disfatto le valigie mentre ieri sera ha dato ai freschi campioni d’Italia una severa lezione di calcio. Se non fosse stato realmente all’altezza oggi, il coach lusitano seppur dopo una vittoria, sarebbe stato licenziato al pari di un certo Giampaolo (subito dopo la vittoria del Milan al Marassi contro il Genoa) invece è lì a godersi con tutta la squadra il suo primo derby vinto. Chapeau!
Massimo 48
Si vuole tutto subito e pronto. Invece con calma e razionalità Fonseca ha dato lezione a tutti a coloro che lo hanno “maltrattato ” . Un capolavoro di strategia e tattica , tanto di appello. Un ottimo articolo caro sign. Vincenzo.