ALLENATORE, MODULO, TATTICA…MA IN CAMPO SERVE MOLTO ALTRO

Quelli come me che, avendo visto la docuserie “Una squadra”, se ne sono innamorati, hanno colto quello che la retorica chiama “lo spogliatoio”, o lo “spirito di squadra”, o “il gruppo”. Quando non si scivola nel lirico definendola “una famiglia”, che nello sport non esiste mai essendo tutti regolati da contratti e non da sentimenti, affetti o sangue. I contratti scadono, i legami familiari no, non interrompendosi nemmeno quando si litiga, quando si sta senza parlarsi.

“Una squadra” è il racconto vero della summa elevata di come professionisti seri e coscienziosi navighino tutti, sempre e comunque – anche malvolentieri talvolta – nella stessa direzione. Panatta, Bertolucci, Zugarelli e Barazzutti disputarono 3 finali di Coppa Davis vincendone una, quella storica in Cile nel 1977, e chi ricorda quell’epoca con nostalgia e affetto lo fa perché era giovane, anzitutto, e perché fu un momento di esaltazione sportiva sublime in un momento politico molto difficile.

Zugarelli, Barazzutti, Bertolucci e Panatta: la squadra che vinse la Coppa Davis nel 1976

La coesione fra 4 campioni che, tra di loro (a parte il sodalizio in campo e fuori di Paolo Bertolucci e Adriano Panatta) si sopportavano a fatica e qualche volta arrivavano a detestarsi, comprese le frizioni col capitano Nicola Pietrangeli. Parto da qui per arrivare a un derby tra i più sorprendenti che io abbia vissuto. Dovrei andare indietro di molti anni per ricordarne uno in cui ha vinto (così bene come l’ultimo il Milan) la squadra nettamente sfavorita, perché – statistiche alla mano – non è affatto vero che vince spesso chi sta peggio nei pronostici, anzi il contrario: vince quasi sempre chi sta meglio.

Ma i rossoneri che arrivano da 5 punti in 4 partite di campionato, una sconfitta impotente contro il Liverpool, contro i nerazzurri campioni d’Italia, solidi, completi, reduci da una sontuosa partita sul campo del City, non era giocabile. Sul piano della sostanza prima ancora che del risultato. Si è parlato molto della scelta del modulo da parte di Fonseca, 1-4-4-2 o 1-4-2-4, e prima ancora del suo ruolo offuscato da Ibra, della sua idea di gioco, della sua capacità di farsi intendere.

Si è discusso della proprietà, della dirigenza, del mercato. Quello che per me ha fatto la differenza domenica 22 settembre a San Siro è stata la squadra, sono stati i giocatori. Sono loro che hanno sgombrato il campo da equivoci, incomprensioni, tensioni, frustrazioni, limiti: hanno messo tutto da parte in cambio del furore agonistico, dell’attenzione, dell’atteggiamento sodale, dell’aiuto reciproco. Si sono dati l’uno per l’altro in nome della squadra, perché squadra non è un termine empirico: è il risultato del comportamento di 11 giocatori, 11 atleti, 11 professionisti, 11 uomini. Compresi quelli che entrano dalla panchina e che danno l’anima in quei pochi o molti minuti.

Non basta questo per vincere le partite, certo ci vogliono anche talento e qualità, ma è vero d’altra parte che non bastano nemmeno talento e qualità senza abnegazione. Nel calcio e nello sport come nella vita quotidiana. Chiaro che di una società professionistica o dilettantistica faccia parte anche il tecnico, chiaro che possa aiutare la squadra con l’allenamento, le idee, la tattica e il modulo, ma Nedo Sonetti e altri suoi colleghi mi hanno detto sempre (nel corso della mia carriera) di poter incidere in positivo per il 15-20 per cento sul rendimento di una squadra, “ma possiamo fare danni al 100 per 100…”.

Salvo qualche anno in gioventù tra l’Aldini Lanfranchi e l’Afforese con un capolino anche nella Primavera del Brescia, per il resto ho giocato tutta la vita a pallone con gli amici fino a una decina di anni fa, stroncato infine dagli acciacchi e dal peso. Non avevamo né allenatore, né modulo, né tattica: ci disponevamo secondo le caratteristiche di ciascuno e iniziavamo la partita disposti a soffrire per vincere, aiutandoci a voce o con la corsa, con i gesti e con gli sguardi, organizzandoci leggendo i vari momenti di gioco. Come il Milan nel 2022, spesso non eravamo i più forti, ma talvolta eravamo i migliori e vincevamo. Questo è stato il Milan nel derby, questo dev’essere il Milan che prosegue la stagione con più ottimismo, più fiducia e aspettative rinnovate.

 

BIO: Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.

3 risposte

  1. Bellissimo articolo Luca! L’accostamento con la mitica squadra tennistica che portò la coppa Davis in Italia nel ’76 calza a pennello perché ci è voluto più di un quarantennio per arrivare a vincerne un’altra esattamente come l’intervallo temporale che trascorse tra il terzo scudetto del Milan risalente ai primi anni del Novecento fino al suo quarto maturato solo negli anni 50 con il mitico trio GreNoLi!
    Con tutta la mia stima.

    Massimo 48

  2. Direi che sicuramente la grinta e la voglia di esser protagonisti di una partita speciale si è vista, soprattutto negli sguardi di alcuni giocatori, Morata e Abraham su tutti, ora però bisogna archiviare la splendida partita e continuare a lavorare per dare un po’ di equilibrio e più certezze alla squadra.
    Vá considerato che dopo cicli lunghi come quelli di Pioli, potrebbe esser necessario ancora più tempo del solito per innescare nuovi movimenti e meccanismi, e’ fisiologico.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *