In questi anni sta prendendo sempre più piede in Italia una parola, un’espressione ed un modo di agire che è entrato ormai nel parlare comune: lo storytelling.
La Treccani definisce il lemma “storytelling” (un termine che non dovrebbe apparire nella più famosa enciclopedia italiana essendo un termine anglosassone) “affabulazione, arte di scrivere o raccontare storie catturando l’attenzione e l’interesse del pubblico”.
“Storytelling”, in sé, significa “raccontare una storia”: raccontare una storia per far conoscere all’ascoltatore un qualcosa che non conosceva prima di allora. E nella “storia raccontata” si uniscono diversi aspetti: la storia, il costume, la politica, la società del tempo in cui si svolge il racconto con il protagonista al centro degli eventi.
Il “raccontare una storia” è una delle massime forme di comunicazione verbale e non è una cosa facile da fare, perché bisogna sapere raccontare bene una storia, un evento, un personaggio legato ad un evento o ad una storia. E’ un concetto vicino al marketing, ma fino ad un certo punto perché nello storytelling non è focale vendere un prodotto, ma trasmettere qualcosa, emozionare. “Raccontare” significa entrare nel cuore e nella mente di chi ascolta.
C’è dietro tanta preparazione, conoscenza e quasi immedesimazione nel personaggio raccontato da parte del narratore e per questo un buon storyteller deve premere su almeno tre elementi: emozione, autenticità (del racconto), chiarezza (nell’esposizione). Se lo storyteller fa queste tre cose, è un buon storyteller. Gli esperti del settore dicono, non a caso, che uno storytelling efficace deve soddisfare quattro I: interesse, impatto, immersione, interattività. Lo storytelling è un’arte (non per tutti) e deve essere caratterizzato dal talento narrativo di chi parla. Nello storytelling contano la voce, il suo timbro, la chiarezza nell’esporre ciò che si sta dicendo, il ritmo, il tenere attento lo spettatore, il tempo. In Italia il massimo esponente dello storytelling è, senza dubbio, Federico Buffa.
Classe ’59, Federico Buffa è noto per i suoi spettacoli teatrali, i suoi libri ed i suoi programmi su Sky dove mette in scena ciò che gli viene meglio: raccontare a tutti, con semplicità, chiarezza e completezza di nozioni diverse tematiche, soprattutto la storia di sportivi e gli eventi sportivi legati a questa.
Buffa è un appassionato di sport, innanzitutto. Lui si definisce (come ribadito da lui stesso in una lezione tenuta anni fa alla Scuola Holden di Torino), “un bastardo privilegiato” e le sue fedi sportive sono i Los Angeles Clippers ed il Milan. Conosce bene il calcio grazie al padre che gli fa leggere da ragazzino “L’Arcimatto” di Brera e a dieci anni gli regala “Storia del calcio in Italia” di Antonio Ghirelli: Brera e Ghirelli sono i maestri del giornalismo italiano (ancora oggi ad anni dalle loro morti) e sono un buon viatico per capire al meglio il calcio.
Per Buffa il calcio è importante (basta vedere anche una singola puntata di “Storie mondiali”, uno dei suoi capolavori televisivi), ma il basket è di un altro livello per lui. Il suo amore per la palla a spicchi nasce ai tempi delle scuole medie quando, nel 1972, va a vedere la Pallacanestro Milano contro Cantù e si innamora di Charles Jura detto “Chuck”, un “centro” arrivato proprio quell’anno dal Nebraska e diventato il giocatore più rappresentativo di quella squadra che negli anni ’70 arrivò a superare i “cugini” della Olimpia. Per Buffa è amore a prima vista e se prima il basket gli piace, da allora, si può dire, decide che la pallacanestro sarebbe diventata la sua religione e lui un suo discepolo.
Federico Buffa e basket, basket e Federico Buffa: un legame da allora inscindibile.
Primogenito di un genovese genoano e di una milanese milanista (che lo ha indotto al tifo per il Diavolo), Buffa non è diventato medico come i genitori e la sorella, ma si iscrive a Giurisprudenza (quando il padre vuole che faccia Economia). Inizia a fare l’avvocato ma capisce che il foro non è il suo “ambiente” e nel mentre inizia a fare l’agente di alcuni giocatori di pallacanestro. Due contratti su tutti portati a casa: l’ex stella dei San Antonio Spurs Mike Mitchell dal Napoli Basket al Maccabi Tel Aviv e Debra Rodman (sorella di Dennis, ex ala grande dei Chicago Bulls del three-peat 1996-1998 e per sette stagioni consecutive tra il 1992 ed il 1998 miglior rimbalzista NBA), che firma nel 1987 per la Sidis Ancona.
Federico Buffa inizia a giocare a pallacanestro nelle squadre milanesi, ma visto che la vita è fatta di episodi, il suo amore per la pallacanestro nasce, definitivamente, nel 1978 quando, 19enne, è “imbarcato” dal padre alla volta della California dove, in quella parte di estate, studia sociologia presso la “Summer session” della UCLA. Gli USA sono la patria del basket e per uno come lui è come atterrare nel paese della cuccagna. Conosce e si appassiona anche alla loro squadra di football americano (gli UCLA Bruins) e capisce che il basket in Italia è un altro sport rispetto agli USA, che gli USA sono un altro pianeta rispetto all’Italia. Lo zenith quell’estate lo raggiunge incontrando Wilt Chamberlain, uno dei giocatori più forti ed iconici della storia della pallacanestro mondiale.
Appena tornato in Italia, si presenta di persona presso la sede della rivista cult del basket italiano, il settimanale “Superbasket”, diretto da Aldo Giordani (uno dei massimi esperti di pallacanestro in Italia definendo, tra l’altro, questo sport “atletismo giocato”). Giordani glielo pubblica e quel piccolo ricordo estivo diventa la chiave che gli apre le porte del giornalismo. Torna tante altre volte in America e nel 1979 vede la sua prima partita di NBA nel Maryland, durante una sorta di “partita esibizione” tra i Philadelphia 76ers e i Washington Bullets (diventati poi Washington Wizards).
Gli anni ’80 vedono Buffa diventare radiocronista di pallacanestro, iniziando nel 1984 con Simac Milano-Marr Rimini. E si può dire che già allora fa, inconsapevolmente, storytelling, in quanto la maniera in cui spiegava agli ascoltatori da casa la partita è diverso rispetto ai colleghi. La benedizione arriva quando, nel 1987, lo affianca (casualmente) uno dei suoi ultimi allenatori quando giocava a basket nel Milanese, Flavio Tranquillo. Tra i due c’è fin sin da subito amalgama (da quel Tracer Milano-Dietor Bologna 118-100, 1 novembre 1987, settima giornata del campionato 1987/1988 con Buffa prima voce e Tranquillo “color commentator”, ovvero seconda) e nasce un binomio ancora oggi noto nel mondo del basket italiano: non si può parlare dell’uno senza parlare dell’altro. Lui e Tranquillo sono quelli che portano le telecronache del basket non solo ad un racconto inarrivabile, ma anche comprensibile per chi non conosce la pallacanestro: va bene Dan Peterson, ma anche loro sono storia del nostro basket.
E pensare che il cammino di Buffa nelle telecronache inizia male a Tele +: commenta, da “color commentator”, una partita di basket collegiale con Claudio Arrigoni grazie all’intuito dell’allora direttore di Tele +, Andrea Bassani. Il suo stile e quello che dice non piacciono affatto all’allora CEO della prima pay-per-view italiana, ma Bassani insiste e nel 1995 Buffa commenta la sua prima partita NBA tra i Los Angeles Lakers ed i Phoenix Suns. Non si è più fermato da allora fino al 2013 (e scopre quella iniziale, pesante, bocciatura solo venti anni dopo).
Fino al 2003, si parla di Buffa e basket. Quell’anno però Milan Channel lo “tessera” come opinionista fisso, sfruttando il fatto che fosse un tifoso milanista ed un volto noto della tv italiana, anche se non ancora mainstream.
Quindi Buffa non nasce subito storyteller: c’è da aspettare la fine delle Olimpiadi di Londra del 2012. Buffa ha un sogno: raccontare quei Giochi e commentare la finale per la medaglia d’oro. L’allora direttore editoriale di Sky (canale per cui Buffa collabora da tanti anni) non acconsente. Buffa un po’ ci rimane male (anche perché la finale tra USA e Spagna è ricordata come una delle più belle partite della storia), ma ciò che succede dopo gli cambia la vita: va in Giappone (Paese che adora, grazie anche all’amore per il libro “Ore giapponesi” di Fosco Maraini), torna a casa e l’allora capo redazione basket di Sky, Paola Ellisse, gli propone di raccontare piccole storie da inserire negli spazi durante le partite notturne (in Italia) della NBA: Buffa accetta e nasce “L’NBA dei vostri padri”.
Federico Ferri, allora direttore di Sky Calcio, apprezza tanto il lavoro svolto da Buffa e chiede al collega di farne altre, ma improntate sul calcio con libera scelta sui protagonisti da raccontare. Buffa all’inizio è scettico, ma accetta: decide di partire con la storia dell’infanzia di Maradona a Villa Fiorito. Arriveranno poi le storie di Arpad Weisz, Michel Platini, Pelé e tanti altri. Da una bocciatura si è poi scritta la storia della tv sportiva italiana (“Federico Buffa racconta”, “Storie mondiali”, “Buffa Talks”).
Buffa inizia quindi a mostrare le proprie doti di narratore, coinvolgendo e fidelizzando il pubblico fin da subito. Da allora non si è più fermato e ha messo da parte le telecronache di basket (che non commenta più da oltre dieci anni) per abbracciare questo nuovo filone: il raccontare storie interessanti. Il sopracitato “storytelling”.
La definizione giusta per raccontare Federico Buffa l’ha data nel 2019 la giuria del “Premio Ischia Internazionale di giornalismo”, premiandolo per il racconto sportivo: “uno stile avvincente, quasi ipnotico, la capacità di raccontare, in tv come nei teatri, lo sport rendendolo epico. Uno stile unico, originale che ha creato un nuovo genere di narrazione“. E dalla tv, Buffa questo modo di comunicare lo ha portato negli eventi delle aziende per spiegare, ad esempio e non solo, le tattiche di public speaking e comunicazione efficace, a scrivere diversi libri e a finire sul palco dei teatri italiani.
E proprio nei teatri, Buffa dà il meglio di sé: le sue prime interpretazioni riguardano le Olimpiadi di Berlino ‘36, la “rissa nella jungla” (la sfida epocale di Kinshasa del 30 ottobre 1974 tra Foreman e Alì per il titolo mondiale dei pesi massimi), la storia di un rigore assegnato una settimana dopo (“Il rigore che non c’era”, raccontando una storia di Osvaldo Soriano su una partita del 1958 del campionato dilettantistico argentino tra Deportivo Belgrano ed Estrella Polar) e, l’ultima, “La milonga del fútbol”. Spettacoli che registrano sold out sempre: tanti artisti sulla scena da anni non hanno i suoi numeri ma Buffa ci riesce portando in sala un pubblico variegato per età. Ed il suo pubblico (a teatro o da un’altra parte) ogni volta che gli chiede una foto, lui acconsente sempre ed indica la persona che gli ha chiesto la foto perché, come dice lui, “è il protagonista”.
Se tanti hanno in Buffa la loro fonte di ispirazione, anche Buffa ha dei punti di riferimento: il critico d’arte Philippe Daverio e Alberto Angela, due stili diversi di raccontare le cose facendo capire temi difficili e complessi all’”uomo della strada”.
Buffa è proprio tagliato per questo “mestiere”: quando parla appassiona, è avvincente, fa capire, fa apprendere qualcosa di cui magari prima si sapeva poco o nulla. Esagerando, si potrebbe dire che se Federico Buffa dovesse parlare del “nulla” in senso stretto, appassionerebbe ugualmente. Ovviamente l’arte di Buffa è una delle cose più copiate in quanto tanti si immedesimano in lui, lo scimmiottano non riuscendoci in quanto Federico Buffa è unico e le cose uniche sono difficili da copiare. O meglio si possono copiare, ma le copie sono solo brutte…copie.
La bravura di Federico Buffa sta nel fatto di aver viaggiato tantissimo e quando parla usa spesso termini inglesi, portoghesi o spagnoli e quando li usa, li enfatizza non sbagliando una pronuncia. Un esempio? Il suo intervento a Sky, l’11 settembre 2011, quando interloquisce in spagnolo con Luis Enrique, allora allenatore della Roma, dopo la partita dei giallorossi persa in casa contro il Cagliari: Buffa ha una pronuncia così perfetta dell’idioma castigliano tanto che Luis Enrique è attratto (e lo si nota dalla sua mimica) da una persona non spagnola che parla così bene la sua lingua.
Buffa ha tanta preparazione dietro: è uno che ha avuto la fortuna di girare il Mondo in lungo e in largo, legge tanti libri e in quello che fa ci mette passione. La passione, sempre per la Treccani, è “ sofferenza fisica” ed infatti quando si fa qualcosa con “passione” soffriamo in quanto mettiamo tutto noi stessi. Perché ci piace, perché dà soddisfazione, perché siamo contenti. Federico Buffa è così: gli piace quello che fa, si appassiona e quando è sul palco, o davanti ad una telecamera, impressiona.
Buffa è anche ossessivo, come i campioni: senza un impegno costante e forte, non si va da nessuna parte. E cita spesso quando Kobe Bryant si allenava di notte perché nella costa East, nello stesso momento, era già mattina, i suoi avversari si allenavano e lui voleva stare al loro passo.
I nati sotto il segno del “leone” (è nato il 28 luglio) sono, di norma, orgogliosi, egocentrici, vogliono essere al centro dell’attenzione, sono entusiasti, intelligenti, hanno forza di volontà, nel lavoro riescono bene nell’insegnamento, nel commercio e nel contatto col pubblico. Tutte caratteristiche peculiari in Federico Buffa, come si può notare.
Che cos’è quindi “Federico Buffa”? Un genio, un idolo, un’icona, un passionale. Uno che però nel 2024, al contrario di tutti, non ha uno smartphone e non è sui social. E non gli piace neanche il termine “storyteller”: meglio “narratore”, per lui. Meno impegnativo.
Nel 1998 esce nelle sale “Sliding doors”, un film incentrato su come una scelta può cambiare la vita: perdere o salire su una metro come, nella pellicola di Peter Howitt, succede a Helen Quilley/Gwyneth Paltrow.
Chissà se Aldo Giordani avesse respinto il pezzo di Federico Buffa sulla sua esperienza americana o se la Ellisse non gli avesse proposto di raccontare storie di basket NBA in quel 2012, come sarebbe stata la vita di Federico Buffa. Magari sarebbe andato a vivere a Fukuoka, avrebbe lasciato il giornalismo ed avremmo perso un grande personaggio e un momento di storia della tv e della comunicazione.
Per questo, grazie a Aldo Giordani e grazie a Paola Ellisse. Ma anche grazie a Federico Buffa che non è diventato né calciatore né attore come avrebbe voluto da piccolo e ha deciso di regalarci storie incredibili attraverso la sua narrazione unica.
BIO Simone Balocco: Novarese del 1981, Simone è laureato in scienze politiche con una tesi sullo sport e le colonie elioterapiche nel Novarese durante il Ventennio. Da oltre dieci anni scrive per siti di carattere sportivo, storico e “varie ed eventuali”. Tifoso del Novara Calcio prima e del Novara Football Club dopo, adora la sua città e non la cambierebbe con nessun altro posto al Mondo. Collabora da tempo con la redazione sportiva di una radio privata locale e ha scritto tre libri, di cui due sul calcio. I suoi fari sono Indro Montanelli e Gianni Brera, ma a lui interessa raccontare storie che possano suscitare interesse (e stupore) tra i lettori. Non invitatelo a teatro ma portatelo in qualunque stadio del Mondo e lo farete felice.
2 risposte
Hai scritto un bel pezzo Simone, complimenti! Personalmente lo sporty teller Federico Buffa del quale hai ampiamente descritto le sue maieutiche narrazioni rievoca nella mia mente una analoga similitudine vissuta nei lontani anni 50 e per opera di una facoltosa Signora di mezza età che oggi denominerei semplicemente come perfetta cine-teller! In quei difficili anni del dopoguerra non tutti potevano permettersi di andare ad un cinema di prima visione ed osservare le star di allora, ma tutte le domeniche pomeriggio nel salotto di casa con the e biscottini era invitata la Signora Clementina che riusciva a narrare a mezzo condomino riunito per filo e per segno il film colossal visto la sera prima… ed eravamo tutti entusiasti e felici… senza le mille diavolerie tecnologiche di ultima generazione!
Che tempi ragazzi! Si stava meglio quando si stava peggio!
Massimo48
Carissimo Simone, hai decantato Federico Buffa e ci sta, ma tu hai scritto una biografia di Federico in un modo strepitoso, illustrando per filo e per segno ogni dettaglio. Una illustrazione perfetta ed avvincente che da leggere tutto d’un fiato .
Grande Simone.